mercoledì 28 novembre 2007

Sulla via dei camalli

I dati ufficiali sono inequivocabili.
Mentre una sempre più ristretta élite implementa la propria ricchezza, nelle periferie del mondo - sempre più estese anche nel nord del globo – le povertà, la miseria, le malattie e la mortalità vanno crescendo a dismisura tanto che gli stessi uomini del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale – quegli stessi boiardi dell’economia planetaria che ne hanno diretto e ne dirigono politiche, interventi ed azioni - ne cominciano – inauditi – a denunciare il fallimento e la devastante perniciosità, implorando, quasi, di essere fermati(!)
La razionalità economica, la virtù taumaturgica del mercato, la virtuosità delle politiche monetariste si dimostrano alla luce dei fatti null’altro che suggestioni funzionali agli interessi di qualcuno.
Già nel 1968 studiosi eterodossi come Karl Polanyi smantellavano mattone per mattone la presunta universalità delle regole economiche derubricandole a strumenti di interpretazione delle economie di mercato a loro volta – queste – circoscritte alle sole società capitalistiche che, uniche nella storia dell’umanità, hanno ridotto la natura e l’uomo a merce.
Agli inizi degli anni ’90 altri eretici come Serge Latouche dimostravano il fallimento – o meglio la pretestuosità – del mito dello sviluppo e l’ascientificità delle regole economiche documentando l’insorgenza delle economie informali non come sopravvivenze del passato ma come geminazioni della modernità.
Il richiamo a studiosi come Palanyi, con le sue ricerche sulle società storiche prive di una sfera economica autonoma (basate, cioè su istituzioni economiche, quali reciprocità e redistribuzione, inscindibilmente connesse e derivanti dall’organizzazione sociale), Latouche o Ivan Illich pone al centro punti di vista dislocati in posizioni desuete come strumenti di ausilio atti a rompere l’inerzia di un pensiero alternativo ed antagonista inchiodato ad una genetica subalternità culturale alla razionalità economica.
Questi punti di vista hanno almeno il pregio di dimostrare – credo oggettivamente e quindi al di là di ogni interpretazione “ideologica” – come le regole economiche siano destituite da ogni fondamento scientifico e fondino la loro credibilità su quello che è null’altro che un sistema di “ragionevoli” superstizioni generato – ironia della sorte – a partire dall’illuminismo borghese.
L’arcinoto tema della scarsità delle risorse, posto in correlazione con la necessità imperativa, per l’economia di mercato, della propria inarrestabile espansione, apre inediti scenari per una comprensione non “pigra” della realtà.
I dati ambientali ci confermano che il mito dello sviluppo illimitato si è infranto contro il muro della realtà e contro i limiti fisici del pianeta: un aumento dei consumi e un'ulteriore dissipazione delle risorse, oggi, sono possibili solo temporaneamente e in danno di qualcun altro cui sottraiamo la quota di risorse cui avrebbe diritto.
Ciò che garantisce la ricchezza materiale, ovvero la capacità reale di soddisfacimento di bisogni e desideri (senza stare ora qui a discuterne origine e segno), ovvero il complesso delle risorse naturali, tecnologiche ed umane (socio-culturali) è monetizzato sul mercato globale meno di un trecentesimo della ricchezza virtuale che ogni giorno viene mobilitata nei mercati finanziari del globo. In un simile quadro la globalizzazione dell’economia e la riorganizzazione toyotista del sistema produttivo, ovvero il contesto e lo strumento operativo attraverso cui può apprezzarsi la ricchezza virtuale del capitale finanziario, lungi dal rappresentare le opportunità perché “tutti siano vincitori” come vuole la mitologia liberista, non sono altro che gli strumenti più efficaci per il controllo e la gestione delle risorse, ovvero della capacità di produrre ricchezza, e per l’accaparramento della stessa ricchezza materiale prodotta.
Lo strapotere del capitale finanziario, generatore e filiazione a un tempo della smaterializzazione della ricchezza, pur nell’intrinseca debolezza, aleatorietà ed instabilità determinate dalla sua natura virtuale, determina la progressiva svalutazione delle risorse materiali, a cominciare dal lavoro e dalla terra (e quindi, per citare Polanyi, dall’uomo e dalla natura) per finire agli stessi mezzi di produzione (che rilevanza può avere il possesso dei mezzi di produzione, delle macchine, se il loro utilizzo, le possibilità di accesso alle risorse naturali e gli sbocchi sul mercato sono totalmente indipendenti dalla loro capacità “oggettiva” di produrre ricchezza?) facendo ricadere sul controllo e la gestione delle risorse, appunto, il vero cuore dello scontro.
In questo quadro di riferimento si possono avanzare alcune considerazioni.
Per chi si pone in posizione alternativa ed antagonista rispetto a questo modello di sviluppo (ed al concetto stesso di sviluppo comunque aggettivato) la prima domanda che si formula non è dissimile da quella consueta: è possibile sottrarsi al processo di globalizzazione attraverso lo sviluppo di economie alternative o bisogna contrapporsi al processo in una guerra di resistenza?
Ma questa domanda è in realtà sbagliata e forviante.
E’ vero, in primo luogo è di tutta evidenza come ipotesi di fuoriuscita “unilaterale” dallo scenario globale così sommariamente delineato siano velleitarie ed irrealistiche; ma è altrettanto vero come i fatti abbiano registrato e registrino la nascita, la resistenza e la persistenza di economie “altre” (quali quelle informali) inscindibilmente e intimamente interconnesse con strutture e organizzazioni sociali autoprodotte.
Il punto è che queste stesse economie, estranee alla razionalità economica e - per la pura e semplice ragione che esistono - negatrici dell’universalità delle regole economiche fondate sul mercato autoregolatore di se stesso, sono comunque connesse ed in larga misura dipendenti da quello stesso mercato.
Ciò che in realtà occorre domandarsi e se è possibile ipotizzare per queste economie un ruolo e una funzione di opposizione e di contrasto sociale alla globalizzazione, ovvero, se accanto all’azione politica e sociale i soggetti sociali antagonisti alla globalizzazione possono sviluppare anche forme economiche antagoniste funzionali alla battaglia più generale.
Evidentemente per noi la risposta è positiva: negare la possibilità di sostenere lo scontro sul piano dell’istituzione economica dimostra solo il persistere della subalternità culturale di una certa sinistra al mito della razionalità economica.
Un esempio di come in realtà forme di istituzioni economiche autoprodotte siano già state sperimentate nella storia sociale del nostro paese si può ricavare dalla peculiare forma di organizzazione dei “camalli”, i portuali di Genova, resistita sino a qualche lustro fa.
Nel porto di Genova i portuali per più di un secolo hanno imposto regole e costi delle operazioni di carico e scarico. Questo non è stato possibile attraverso la semplice azione di difesa sociale propria dell’attività sindacale e tanto meno attraverso l’accettazione delle regole del mercato e della razionalità economica filtrate attraverso le forme della cooperazione. La peculiarità dei camalli, certo, in una ben delimitata realtà con precipue specificità, è stata quella di essersi dati delle specifiche istituzioni sociali unanimemente riconosciute come tali tra di loro, cui erano intimamente ed inscindibilmente connesse le istituzioni economiche “non mercantili” della redistribuzione (del lavoro) e della reciprocità (attraverso forme di mutualità).
I camalli, attraverso la forza delle loro istituzioni sociali, fondata sul consenso e sulla partecipazione, hanno così sottratto per oltre un secolo loro stessi al mercato del lavoro affrancandosi dalla condizione di merce imposta dalla finzione dell’economia di mercato. Ma non solo, con la loro istituzione socio-economica al di fuori della razionalità economica, hanno imposto regole ed usi “contaminati” nel complesso della gestione delle risorse logistiche del porto.
La semplice azione sindacale non avrebbe sottratto i camalli dalla condizione di merce, ma avrebbe semplicemente tentato di “innalzarne il prezzo” sul mercato in termini di salario e di condizioni di lavoro; mentre una forma di istituzione economica compatibile con la razionalità economica del mercato, come la cooperativa, avrebbe posto l’organizzazione dei camalli all’interno delle regole del mercato ed ai suoi meccanismi regolatori dei prezzi.
Finché è durata, i camalli, con le loro istituzioni socio-economiche alternative ed antagoniste, hanno imposto il costo del lavoro, le regole della sua fornitura, l’uso degli impianti e della tecnologia, ovvero hanno sottratto le risorse alla razionalità economica e alle regole del mercato. Non si sono posti in maniera illusoria e velleitaria in un impossibile “al-di-fuori” dalla società capitalistica, ma hanno utilizzato il loro stesso essere comunità con le proprie istituzioni sociali ed economiche nel conflitto contro la reificazione dell’uomo.
Nell’attuale fase in cui la smaterializzazione delle ricchezza, o meglio, lo strapotere della ricchezza virtuale costituita dal capitale finanziario, svaluta e depaupera il lavoro e la terra, ovvero riduce ogni uomo e la natura a voci di menù del banchetto che vede i vincitori cibarsi dei vinti, è forse possibile trarre esempio dall’esperienza dei camalli.
Se è vero come è vero che sul mercato globale e nella riorganizzazione toyotista la rappresentazione del mondo si riduce all’individuazione di aggregati socio-economici puntiformi collegati tra loro da una rete logistica e telematica immateriale, quale azione di contrasto può essere più efficace della progressiva sottrazione alla razionalità economica delle risorse di questi aggregati?
Un territorio liberato dall’arbitrio di un’economia che genera le istituzioni sociali in luogo di esserne generata può iniziare a prefigurarsi proprio attraverso lo sviluppo in embrione di istituzioni sociali antagoniste generatrici di proprie istituzioni economiche capaci di prendere progressivamente il controllo e la gestione delle risorse.
La falsariga dell’organizzazione dei camalli è in questo senso illuminante per quanto riguarda la sottrazione del lavoro e quindi dell’uomo dal mercato globale: offrire alla forza lavoro – e cioè agli uomini e alle donne del territorio – oggi sempre più precarizzati e polverizzati in una miriade di soggetti atipici, sempre più atomizzati nell’angoscia e nella ricerca del proprio benessere individuale, privati cioè della consapevolezza dell’appartenenza ad una classe e quindi del valore aggiunto della solidarietà, offrire a questa merce in saldo, non semplicemente una tutela sociale e sindacale tanto più devitalizzata dalla sua strutturale perdita di forza contrattuale, ma istituzioni sociali capaci di essere fonti di identità alternative al mercato, capaci di generare istituzioni economiche non mercantili che impongano sul territorio la sottrazione del lavoro alla razionalità economica, può essere al tempo stesso forma di resistenza alla globalizzazione ed utopia concreta, nostalgia del domani.

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