martedì 27 novembre 2007

Meriggio estivo

(1994)

Ombra, sotto il balcone del primo piano, oasi agognata nella calura sapida del meriggio estivo.
Un suono, un breve cenno, ed il vertiginoso ritmare, giù, verso la strozza della tromba, i quattro quarti, i piedi uniti ad accentare il quarto …
- Ciao.
E giù in strada – di temperanza – a misurare il passo.
Piccicosa pista d’elefanti – putida e immota l’aria – rota il laccio all’indirizzo della parabola taurina dell’illusione.
Branchieggiano i suoni a saturare i segni simpatici dell’esistenza.
Riverberano arcobaleniche bolle di certezza, prima di svanire, subitanee e apocalittiche, in un’umida impronta sulla battigia del sole.
Sguardo sfuggente e astratto – fuggiamo dietro il punto di vista relativo – con null’altro che un lieve, fastidioso imbarazzo.
E d’improvviso, per misteriosi, simpatici sentieri, la tangenza si fa segno, annotazione sgualcita e, forse, tratto impressionista di pastello.
La ripida è dietro un cenno di sorriso.
Un vezzo funereo in panno ci accompagna con sguardo sfrontato. Consunto artiglio, l’essenza di vita graffita s’aggrappa al legno torcendosi e ansando.
Ora, l’assiepe di glicini e limoni intrama a monte, oltre l’ultima calcina, sopra valli e fondamenta in terra e pietra viva. La tartaruga, immota, lasciata su quei passi.
E sul ripiano s’affusano le lance di scolta al pellegrino. Lieve la pendenza ora soccorre il passo alle mura grigie della cittadina.
Varchiamo, come varcò di Dite.
Grave, la voce bisbiglia annotazioni, greve, il percolato odoroso d’infiorate s’azzuffa col sudore della fronte.
Lo spiazzo è vuoto e di rimando urla, muta, la bocca oscura della soglia.
Entriamo.
Maiolicato da cessi di stazione e metallica volgarità da secolo dei numi – il fresco s’addensa sulla schiena – mogano intarsiato e cromature, incongrue vanità in attesa.
Quasi un rimpianto e un senso d’abbandono – contrabbandiamo, solidali, un gesto di saluto.
E fuori.
E il caldo fumiga i pensieri. Il cielo è un lapislazzulo incombente.
Il passo segue il passo del dedalo dei marmi e la spirale precipita nel gorgo.
Ora cerchiamo, muti – e il filo è la circonvoluzione anodina dei bianchi, fulgenti nell’estate.
Ombre incombenti guizzano dai segni, urlando seduzioni d’immagini o del tempo – secchezze e manuelismi, volti irridenti come rose carminio dal gambo reciso dentro il vaso, motteggi fatui, periture ardenze, dolorose, infantili innocenze e selve, selve pietrificate di vacuo candore.
Nell’aria immota della sfera indolente mormorano, mormorano sottili al nostro orecchio e il cicaleccio s’arresta, come nel punto cieco, al limitare della percezione. Ma parlano e l’unico segno è l’illusione o il sogno.
Sogno d’ombre ad attizzare il fuoco … fuoco attizzato dal sogno di un’ombra …
Tremula la campagna nell’ardura, tremula al basso fondo di quel coro.
Segni, graffiti, selci scheggiate, la bestia caracolla nella caccia e frange frasche … Eccola! S’erge a digrignare al cielo – incerta la luce alle pupille – e crolla e si rinnova e ancora si raduna, chiama a raccolta e la sconfitta è sfida …
Lupacchiotti, guaiamo inconsapevoli e sedotti, abbrancandoci l’un altro, le nari dilatate, e la ragione sfugge o fugge il ragionare o … certo … è troppo presto. Verrà il tempo della torre, un tempo

Torniamo. E’ sera.

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