giovedì 29 novembre 2007

Naturale?

Ai credenti cattolici

In queste mesi i vertici della Chiesa Cattolica sono protagonisti della scena politica italiana.
Nel merito, il dibattito sembra concentrarsi sul diritto o meno della Chiesa ad esternare le proprie convinzioni, raccomandazioni. Di impartire ai fedeli, in specie a quelli impegnati in politica, le proprie direttive. Se sia corretto che la Chiesa – i cui rapporti con lo Stato italiano sono regolati dal concordato - entri “a gamba tesa” nel dibattito politico nazionale.
Sinceramente questi sono aspetti che non mi appassionano. In politica, gli spazi politici si conquistano sulla base dei rapporti di forza reciproci e se le parole del papa o dei vescovi hanno in Italia una simile rilevanza la cosa va assunta per quello che è facendone discendere le diverse determinazioni.
Quella che mi sembra, al contrario, assolutamente carente è la discussione nel merito di quanto viene detto dai vescovi, ed è su questo che vorrei fare qualche considerazione da sottoporre all’attenzione in primo luogo proprio di coloro che si professano credenti.
La famiglia formata da un uomo ed una donna e dai loro figli è la famiglia naturale?
Se esaminiamo (appunto) la “natura”, un’affermazione come questa, che a prima vista può apparire fondata, in quanto basata sulla riproduzione biologica della specie, si derubrica ad “una” tra le diverse possibilità che si osservano in natura. Possibilità che stanno tra loro su un piano paritetico, cioè non riconducibile ad una scala di prevalenze, che renderebbe le soluzioni diverse tanto meno succedanee quanto meno contingue all’ipotesi assunta nella domanda.
In “natura” la riproduzione della specie è assicurata da un’impressionante varietà di soluzioni che, a partire dalla partenogenesi, giunge sino alle forme più evolute dei mammiferi.
Se ci limitiamo a solo quest’ultimi, riscontriamo sia comportamenti monogamici e sia comportamenti poligamici. Scopriamo comportamenti sessuali di branco in cui, a volte, abbiamo una femmina dominante ed a volte, un maschio dominante (con implicazioni radicalmente diverse nelle dinamiche di branco). Verifichiamo comportamenti “familiari” con le cure parentali assicurate da entrambi i genitori e comportamenti in cui le cure parentali sono assicurate da un solo genitore (quasi sempre, ma non sempre, la femmina) senza alcuna partecipazione dell’altro.
Nulla mostra come una di queste soluzioni sia la più “naturale” o la più efficiente sul piano della riproduzione della specie.
Se restringiamo il campo ai comportamenti degli animali più prossimi all’uomo, i primati, verifichiamo che il comportamento di gran lunga prevalente è quello del branco con, in genere, ma non esclusivamente, un maschio dominante, l’harem delle femmine cui è demandata la cura – spesso collettiva - della prole, e il gruppo dei giovani maschi.
Se passiamo dall’etologia all’antropologia verifichiamo come anche nel comportamento umano si annoverano una miriade di soluzioni. Si va dalla poligamia, all’androgenia, da forme claniche di organizzazione sociale (dove ad esempio, la cura della prole a volte è demandata al fratello della madre o dove le cure parentali sono assicurate collettivamente dalle donne) ad ogni forma di famiglia allargata (e proprio nella Bibbia vi è in proposito un interessante catalogo) sia patriarcale che matriarcale.
E’ solo in tempi relativamente moderni e sopratutto nella cultura cosiddetta occidentale che si afferma come prevalente la famiglia composta da padre, madre e prole – anche come semplificazione della famiglia allargata patriarcale di tradizione contadina.
Da queste brevi considerazioni, che non hanno voluto far altro che portare all’attenzione alcuni elementi oggettivi - in genere inopinatamente sottaciuti – emergono delle ovvie considerazioni.
Quella che oggi viene percepita come famiglia “tradizionale” è il risultato di un processo culturale che ha portato detta forma di organizzazione sociale ad essere assunta come prevalente (ma non esclusiva) nella nostra società contemporanea.
La famiglia cosiddetta tradizionale è il portato di un’evoluzione culturale e come tale non può, peraltro, che essere transitoria, dovendo soggiacere alle ulteriori, future evoluzioni culturali della società umana.
Se sul piano dell’etica o della morale è comunque lecito assumere, come fondamento culturale, il modello della famiglia tradizionale, attribuire a questa “famiglia” una patente di “naturalità” e una discendenza da una presunta legge naturale è antiscientifico, bizzarro e soprattutto, come vedremo, grave e pericoloso.
Ma prima occorre affrontare un altro aspetto.
Lo scopo di una famiglia è la riproduzione biologica?
Anche in questo caso l’affermazione può apparire in una qualche maniera fondata.
Se però si affronta la questione da un punto di vista un po’ più approfondito non si può non notare come l’aspetto della riproduzione biologica sia elemento, sì necessario, ma non indispensabile sul piano delle relazioni a fini riproduttivi.
Alla riproduzione della specie concorrono quantomeno – anche in questo caso senza essere riconducibili ad una scala gerarchica di prevalenza – la riproduzione biologica, il recupero dei mezzi di sostentamento, la trasmissione delle conoscenze e abilità, la trasmissione del patrimonio etico e morale.
Questi fattori sono tutti parimenti necessari ed indispensabili alla riproduzione della specie e, per tutti, ove l’aggregazione sociale di tipo “familiare” in questione sia deficitaria in questo o in quel fattore, dovranno essere le relazioni sociali più larghe a supplire dall’esterno per garantire i fini riproduttivi.
Attribuire ad un’aggregazione sociale di tipo “familiare” un valore sulla base del criterio della rispondenza ad uno solo dei fattori appena citati è quantomeno arbitrario.
Per spiegarmi. E’ come se le famiglie che ricorrono alla pratica dell’adozione o dell’affido in presenza dell’impossibilità della riproduzione omologa della coppia, venissero, per il loro deficit biologico, declassate ad altra cosa e non potessero godere dello status di famiglia.
Si dice.
“Certo, ma in questo caso la scelta è determinata da un problema di natura biologica e non è riconducibile ad una scelta degli individui. Diverso è il caso delle unioni omosessuali in cui sono le scelte contro la legge naturale degli individui a comportare la sterilità.”
Ancora una volta si torna ad invocare una presunta legge naturale contro cui cozzerebbero comportamenti quantomeno “disordinati” degli individui.
Ma l’omosessualità è un comportamento “disordinato”?
Da tempo la scienza ha fatto chiarezza sul fatto che il tema dell’identità sessuale non ha nulla a che spartire con il “disordine” mentale e sociale degli individui e come l’omosessualità sia comportamento diffuso non solo nella specie umana ma in molte specie animali.
Se, ad esempio, il bisonte è animale che indulge allegramente a pratiche omosessuali, o gli si attribuisce un’etica e una morale cui contravviene peccaminosamente, o si deve, giocoforza, riconoscere l’omosessualità come variabile naturale dei comportamenti sessuali.
Ergo: se anche in questo caso è lecito assumere, come fondamento etico e morale la pratica delll’eterossessualità, è comunque antiscientifico, bizzarro e soprattutto, come vedremo, grave e pericoloso negare come l’omosessualità sia nell’alveo della presunta legge naturale.
Ovviamente in questo ragionamento vi è l’inevitabile corollario del valore che viene attribuito al sesso ed alle pratiche sessuali.
Generalmente alle pratiche sessuali viene attribuita una doppia valenza: una riproduttiva ed una relazionale.
Al sesso e alla pratica sessuale viene generalmente riconosciuta una funzione relazionale tra gli individui cui l’etica prevalente attribuisce un valore sulla base della profondità della relazione che sottendene la pratica. Sono la morale ed i precetti cattolici che associano in maniera inseparabile il sesso alla riproduzione.
Anche in questo caso vengono invocati uno scopo ed una funzione “naturali” del sesso, cui gli individui verrebbero meno con comportamenti “dissoluti”.
Se però andiamo a vedere quello che realmente avviene in natura notiamo anche in questo caso come non vi sia un modello univoco di comportamento, anzi, maggiore è lo sviluppo sociale della specie animale, maggiore è la funzione relazionale cui assolvono i comportamenti e le pratiche sessuali rispetto all’aspetto riproduttivo.
Ma se questo è evidente nelle specie sociali, organizzate in branco, vi è un’altra considerazione dirimente.
Le specie per le quali l’attività sessuale è inscindibilmente correlata alla riproduzione sono caratterizzate dalla sostanziale impossibilità fisica ad avere rapporti sessuali in periodi non fecondi.
Le femmine sono caratterizzate dal “calore” che le rende fisicamente pronte alla penetrazione, in altri periodi impossibile, mentre i maschi, eccitati dai feromoni prodotti dalle femmine in calore, hanno spesso un sostegno osseo di ausilio alla penetrazione all’organo riproduttivo.
Le specie che indulgono i comportamenti sessuali slegati dalla riproduzione (tra questi anche quelli omossessuali) non hanno queste limitazioni fisiche e, tra queste, la specie umana è caratterizzata da stati di eccitazione dei partener totalmente slegate dallo stato di fecondità o meno della donna (altrimenti non avremmo certo nascite indesiderate).
Nella sostanza è nell’alveo della presunta legge naturale che nella specie umana la funzione relazionale delle pratiche sessuali prescinda dalle finalità riproduttive e se è legittimo che vengano assunti precetti morali che assumano la funzione riproduttiva come elemento cardine della vita sessuale delle persone, è ancora una volta antiscientifico, bizzarro e soprattutto grave e pericoloso assumere questo comportamento come l’unico rispondente ad una presunta legge naturale.
Grave e pericoloso perché spostare delle convinzioni e dei precetti etici e morali sul piano della presunta legge naturale pone contro la legge naturale ogni inosservanza ed ogni devianza da quelle convinzioni e da quei precetti, fa divenire l’altro da te contro-natura, preda dell’aberrazione, qualcuno cui non si riconosce la dignità di un’altra etica e di un’altra morale.
Cosa rimanga oggi del Concilio Vaticano II e della Chiesa del dialogo, sinceramente non riesco a capire.
Ancora, quando si afferma che non bisogna soggiacere al “senso comune” in nome di una “verità” superiore di cui ci si è autoinvestiti, ci si imbarca su una strada estremamente pericolosa.
Il “senso comune” in politica – e quando si parla agli eletti dal popolo e di disegni di legge della repubblica, si parla di politica – non è altro che la volontà del corpo elettorale, quello che pensano gli elettori. La democrazia, si dice, è un sistema imperfetto di governo, ma finché vige uno stato di diritto democratico, i cittadini, gli elettori, il “senso comune” determinano le scelte che regolano il vivere comune di tutti i cittadini ed hanno il sacrosanto diritto di sbagliare.
Affermare che vi sono “verità” superiori, custodite da una gerarchia ecclesiale, che sovrastano le istituzioni dello Stato significa gettare le basi di una teocrazia, di una repubblica cattolica da affiancare di quelle islamiche.
Credo che i cristiani, coloro che si riconoscono nella Chiesta Cattolica Apostolica Romana dovrebbero interrogarsi sull’involuzione integralista e fondamentalista di una gerarchia ecclesiale che sta riportando indietro di almeno quattrocento anni, alla controriforma del Concilio di Trento e ai toni dell’inquisizione la loro Chiesa.

mercoledì 28 novembre 2007

Affabula

… No, sentite, lasciamo stare … è che non ho voglia di incazzarmi … e d’altra parte, se si ripetono delle assurdità – per quanto assurde siano – e se a ripeterle sono tutti, ma proprio tutti, chi volete che stia a sentire me. Chi sono io? … Nessuno, e allora ….
No, ma dico, se saranno vent’anni che ci dicono che bisogna tagliare le pensioni, che sono sempre meno quelli che lavorano, che si fanno sempre meno bambini, che ci ostiniamo a campare troppo e non ci decidiamo a togliere il disturbo crepando in tempo utile, sarà pur vero, no?
… Si, va bene, lasciamo perdere … il fatto è che non mi va giù, non mi va proprio giù, primo, perché sono sciocchezze, e secondo, perché, cosa c’entra tutto questo con le pensioni?
Mi guardate strano?
Va bene … sentitemi un momento.
Primo, e anche se questa storia delle “culle vuote” è una sciocchezza che non c’entra nulla con “le pensioni” … non guardatemi così, dopo ve lo spiego, chi parla così finge di non sapere che se gli italiani “doc” fanno meno figli, ci pensano i migranti a pareggiare il conto. Lo sapete che già l’anno scorso in Italia c’è stato un incremento delle nascite? Che la popolazione cresce? Certo, il ministro Calderoli già mal sopporta i piccoli Gennaro, Ciro e Rosalia, figuriamoci i giovani Mohammed, ma i conti su chi lavora e su chi versa i contributi si fanno senza distinzioni di razza, sesso, religione … “Contributi non olet, la merda padana, come ogni defecazione, si”.
Secondo. Si è vero, alla faccia di lor signori campiamo di più, ed anche se si ostinano a considerarci “risorse umane”, e cioè una merce prodotta per essere venduta, noi non nasciamo per incrementare il PIL, noi nasciamo per amare, soffrire, gioire e sognare. Noi non siamo un fattore economico, noi siamo i soggetti, non gli oggetti della storia.
Ma ci hanno detto che i conti dovevamo pure farli e che continuando come stavamo andando ad un certo punto non ci sarebbero più stati i soldi per pagare le pensioni, che ogni lavoratore avrebbe dovuto lavorare per se e per pagare, lui solo, la pensione a un pensionato.
… Vi faccio un esempio. Siamo nel 1965. Quarant’anni fa, l’anno in cui ha cominciato a lavorare chi oggi va in pensione col massimo dell’anzianità. Su oltre tre milioni e mezzo di contadini, quasi la metà lavorava al massimo un ettaro di terreno, praticamente un orto. Un’altra metà arrivava al massimo a 5 ettari, e, in pratica, meno di un decimo delle aziende superava i dieci ettari. I trattori erano in totale solo 377.000, praticamente tutti nelle aziende più grandi … Secondo voi, quale era la produzione agricola dell’Italia? Quanta frutta, quanta verdura, quanti cereali, quanti legumi venivano prodotti? E, soprattutto, quella produzione, i bisogni di quante persone soddisfaceva? A conti fatti quello che allora producevano in venti, oggi lo produce un solo contadino. E non perché lavori di più, non perché lavori per venti, ma solo perché l’organizzazione del lavoro e della produzione, lo sviluppo tecnologico e i dei mezzi di produzione richiedono meno lavoro, un ventesimo del lavoro che ci voleva quaranta anni fa, per produrre la stessa quantità di prodotti.
Vi svelo un segreto, però dovete mantenerlo: non sono i soldi a pagare le pensioni – è una sciocchezza! – è l’aumento della produttività, della capacità di produrre ricchezza, di produrre beni e servizi, l’unico indicatore che può dirci se saremo in grado di qui a quarant’anni di garantire una vecchiaia serena ai futuri pensionati, per quanti siano e per quanto si ostinino a permanere in vita!
Ma pensateci! Se fosse vero il ragionamento con cui ci hanno intortato, dei venti di quelli che lavoravano nel 1965, o diciannove oggi dovrebbero fare la fame, o quell’unico che lavora, dovrebbe stare alla catena per soddisfare le voglie dei diciannove vecchi aguzzini!
Lo so, questo ragionamento sembra strano: il lavoro ormai è una necessità della quale, se se ne deve parlare, se ne parla con imbarazzo. Mentre è il denaro, il denaro comunque, il simbolo del successo.
Ma in realtà i soldi non producono proprio nulla, è il lavoro che produce la ricchezza!
Ci hanno impressionato con la sciocchezza della “gobba”, cioè dicendoci che – pensate un po’ – intorno nientepopodimeno che al 2036 ci sarebbe stata un’impennata della spesa pensionistica che avrebbe portato i conti dell’INPS fuori controllo, “addirittura” per qualche anno – cioè fino a che non fossero finiti gli effetti del “baby boom” (di quando cioè gli italiani facevano troppi figli). Ma questa gobba si riferiva alle disponibilità di denaro, che poco o niente c’entrano con la questione delle pensioni.
Allora, se fosse stata onesta la preoccupazione sul futuro delle pensioni, altre sarebbero dovute essere le domande che si sarebbero dovute porre.
Saremo in grado, con lo sviluppo produttivo, il progresso scientifico e tecnologico, la gestione delle risorse, l’evoluzione sociale ed umana della nostra società, di soddisfare le necessità, i bisogni dei pensionati del futuro?
Già, ma chi sarebbe in grado di dare una risposta a queste domande?
E chi può dire quali saranno le capacità produttive tra altri 40 anni?
Chi sarebbe in grado, infatti, oggi, di ipotizzare in una maniera pur vagamente attendibile, quale sarà lo scenario economico, sociale, tecnologico, telematico che si presenterà nel 2036 o, peggio, nel 2050 (termine dei grafici che rappresentato la famosa gobba)?
Chi può ipotizzare quali saranno le congiunture, le innovazioni, le scoperte e rivoluzioni sociali che avverranno in questi quaranta anni e quando avverranno?
E se tornassimo al 1965, chi, a quell’epoca, poteva solo vagamente immaginare questo e non un altro 2005?
Siano nel 1965. Il salario di un operaio è di 86.000 lire al mese, un giornale e un biglietto del tram costano 50 lire, mentre un caffé 60, un chilo di pane 170 lire, mentre un litro di latte 130, 180 uno di vino, un chilo di pasta costa 260 lire e uno di carne 1.900. Una Fiat 600 costa 640.000 lire e la benzina 120 lire al litro. Un paio di scarpe costa 6.000 lire, un libro 1.800 e un frigorifero 60.000 lire.
Il 1965 è un anno di crisi economica – non sarà il solo – è l’anno dei decreti del governo Moro sull’economia che faranno aumentare la disoccupazione mentre salgono i prezzi e i capitali vanno all’estero … niente di nuovo sotto il sole … Ma è grazie a questi interventi – diciamo – “correttivi” del governo che si riesce a superare la congiuntura e si salva anche la “liretta” che il primo febbraio di quel 1965 riceve addirittura l’”Oscar monetario”, e poco importa se a pagare sono stati, come sempre, gli stessi.
I capitali a quell’epoca viaggiano ancora nelle valige di cuoio e, valicando Chiasso, incrociano le valige di cartone dei nostri poveri cristi cacciati dalla Svizzera.
“Pecunia non olet!””Maccaroni, si”
La miseria è una colpa che non si perdona, mai!
Il 14 febbraio, San Valentino … no, giorno della strage di San Valentino, la Svizzera chiude le frontiere.
Achtung italianen!
Chi è senza permesso di soggiorno viene arrestato. E per avere il permesso di soggiorno bisogna avere un’abitazione o una dichiarazione del datore di lavoro svizzero … Se gli estensori della legge si siano chiamati Krossi e Finen o Turken e Salernitano non saprei dirlo, fatto sta che si scatena la caccia all’extraelvetico, preso e sbattuto oltre la sbarra del confine, che non è a Lampedusa, non è a Otranto, non è a Siracusa. E’ lì, su quel cazzo di confine italo-svizzero, su quelle cazzo di montagne, dove in quel gelido febbraio del ’65 migliaia e migliaia di migranti siciliani, veneti, calabresi, abruzzesi, pugliesi, napoletani, bivaccano e dormono all’aperto per giorni e giorni, sui prati, senza nessuna assistenza, senza nessun intervento del governo italiano.
Addio Lugano bella, o dolce terra …
Ma non sono stati loro i più sfortunati.
Si, hanno fatto i lavori più umili e umilianti, hanno raccolto con le mani la merda perché la Svizzera divenisse il cesso più pulito d’Europa e per ben servito hanno ricevuto un calcio nel culo.
Ma non sono stati loro i più sfortunati.
La palma spetta ai cinquantatre, morti il 30 agosto di quel maledetto 1965, ai cinquantatre travolti da una valanga mentre lavoravano in un cantiere idroelettrico di Mattmark.
Loro il permesso di soggiorno ce lo avevano, un alloggio ce lo avevano, la dignità e la sicurezza sul lavoro, lì a Mattmark, no.

Ma torniamo agli interventi “anticongiunturali – così si diceva allora – del governo Moro. Torniamoci perché sono importati, perché lasciano il segno - anzi, meglio dire: “i segni” -, perché ci spiegano tante cose.
L’11 marzo, con la legge 123, il governo introduce finanziamenti straordinari per le aziende. In pratica, le aziende in crisi, ma anche chi voglia avviare una nuova impresa, può richiedere il sostegno economico dello Stato. Sarà l’IMI ad assumere partecipazioni, a costituire o a partecipare alla costruzione di società e – importantissimo – a concedere finanziamenti.
Bene, dov’è il problema? Che c’è di strano o di sbagliato? In che cosa questo “ragionevole” provvedimento avrebbe condizionato il futuro di questo paese?
Come spesso succede, il busillis non sta nella lettera della norma, ma nei comportamenti, nelle pratiche, oserei dire: nelle “opportunità” che l’esistenza stessa della legge suscita.
I finanziamenti bisogna richiederli, devono essere concessi e alla fine erogati.
Ed è a qualcuno che vanno richiesti, ed è qualcuno che manda avanti le pratiche, ed è qualcuno che poi discrimina quali domande accogliere e quali domande respingere.
Chi?
In quel 1965 le pratiche, tutte le pratiche, passano invariabilmente – credo sia più giusto dire “inesorabilmente” – per il referente locale del partito di maggioranza, una certa Democrazia Cristiana, che in quell’epoca è controllata dalla potentissima corrente Dorotea saldamente in mano al plenipotenziario veneto Rumor.
Altro dato.
Le banche incaricate di erogare i finanziamenti sono le Casse di Risparmio che, in Italia, sono per il 90% in mano alla DC - una quota che evidentemente garantisce il pluralismo – una percentuale che nel Veneto sale però direttamente al 100%!
… Indovinate un po’ che direzione geografica hanno preso gran parte di quegli incentivi?
Vi do un aiuto.
Solo l’anno precedente, dico nel 1964, il reddito del Veneto era al di sotto della media nazionale, era nell’ordine di quello della Campania e, all’incirca, era solo un terzo di quello della Lombardia.
Di punto in bianco, da quel 1965 Santo Rumor fa il miracolo e i veneti si “levano e camminano” “laboriosi” godendo del miracolo della moltiplicazione, non dei pani e dei pesci, ma dei finanziamenti.
E’ la parabola del nord-est col suo “cristiano” insegnamento che ci ricorda come “laboriosi” non si nasce, si diventa, con i soldi di “Roma ladrona”.
Ma non è il caso di esagerare, cerchiamo di essere giusti: la balena bianca è sempre stata previdente e da mangiare non l’ha mai negato a nessuno.
Tanto è vero che solo quattro giorni dopo, ovvero il 15 marzo, il governo vara un altro decreto che, tra l’altro, per favorire l’occupazione – ma è mai possibile che sia sempre questo il viatico, il salvacondotto, la scusa, per le peggiori schifezze servite a questo povero paese? – per favorire l’occupazione dicevo, finanza la realizzazione di opere pubbliche … Non vi ricorda niente, questo?
Tra l’altro è da questo momento che nasce l’epopea della cooperative rosse, della riserva “eldorada”, ma è anche questo il momento in cui si consolidano pratiche inveterate, che dico, inveterate? Millenarie!
Quali?
Un esempio per tutti.
Sapete qual è la storia, come nasce l’aeroporto internazionale di Fiumicino?
Nel ’62 un ex-ufficiale ha creato con i suoi parenti dieci società diverse e, non si sa come, non si sa perché, ha ottenuto l’appalto di tutti i lavori, dagli scavi alla fornitura delle matite per gli uffici …
Che dire, trattandosi dell’aeroporto della capitale della cristianità, non ci resta che esclamare: “Mistero della fede!”
Non basta, il 15 maggio il governo Moro proroga per altri 15 anni gli aiuti della Cassa per il Mezzogiorno che dovevano cessare quell’anno.
E no! – adesso mi direte – Qui casca l’asino. Al sud i soldi sono stati dati, offerti, serviti su di un piatto d’argento!
… Il fatto è che le cose non sono andata proprio così.
Si, è vero, massicci interventi in piccoli territori – con spreco enorme di risorse – ci sono stati. Valga per tutti l’Italsider di Taranto che viene inaugurata proprio in quel 1965.
Ma il dato di fatto certo è che la maggior parte di quei soldi al sud non sono mai arrivati. Sono finiti nelle società, nelle fabbriche del nord, con l’inveterato giochetto delle tre carte.
Come?
L’azienda del nord creava strutture, spesso virtuali, al sud ottenendo i benefici, gli incentivi e i finanziamenti a fondo perduto della Cassa per poi tornarsene bellamente indisturbata al nord.
Semmai al sud lasciava la sede legale che gestiva formalmente anche le strutture esistenti al nord in modo da continuare a godere – finché è durata - anche per quelle, dei benefici della Cassa.
Storture – direte voi – patologie del sistema, questi “usi” delle politiche economiche di quel governo Moro che, ripeto, portarono pure la lira all’Oscar monetario.
No, non erano storture, non erano patologie.
Erano la norma, il patto scellerato tra il sistema della politica e il sistema delle imprese che in quel 1965 si stringeva come un cappio attorno al collo di questo paese, gettando le basi dei decenni a venire.

Ma in quel 1965 c’è un personaggio che spicca, per me, su tutti … non spicca, diciamo, fisicamente: è un mezzo nano, ma, a onor suo, non è cavaliere.
E’ Amintore Fanfani, toscanaccio democristiano, ministro degli esteri di quel governo Moro, di quella italietta che saltimbanchi, buffoni e mangiatori di fuoco dei nostri giorni, senza storia e senza memoria, nemmeno conoscono, mentre blaterano di prestigiose investiture scodinzolando dietro un qualsiasi Bush.
Fanfani è un esperto di politica internazionale, e negli anni precedenti è stato molto attivo nel proporre soluzioni negoziali alle gravissime crisi che si sono succedute, dalla questione dei missili di Cuba, alla questione di Berlino. Si è scontrato però con l’ottusa supponenza e la cieca arroganza di quel John Kennedy, tanto amato da tanta parte della sinistra nostrana, quanto disastroso nella politica estera, dove ci ha lasciato in eredità il muro di Berlino e la guerra del Vietnam.
Fanfani, che sull’ammissione della Cina all’ONU in quegli stessi mesi contraddiceva la stessa politica filoamericana del governo Moro, il 21 settembre veniva eletto con 110 voti su 114, Presidente dall’Assemblea Generale dell’ONU.
… Vede, esimio cavaliere, il prestigio, come il coraggio, uno non se lo può dare …
A livello mondiale quel 1965 è un anno terribile.
Solo un anno prima gli americani hanno approfittato di un banale incidente navale nel Golfo del Tonchino per scatenare l’inferno sul Vietnam del Nord.
Jhonson, il presidente americano che è succeduto a Kennedy è convinto che un intervento militare in grande stile piegherà in solo sei settimane l’Iraq … scusate, il Vietnam.
De Gaulle, il presidente francese che di guerre coloniali se ne intende, avverte, inascoltato, gli americani.
Guarda, guarda, i corsi e i ricorsi storici!
Ma gli americani hanno i loro interessi e, per difendere il loro stile di vita, intendono “convincere” a suon di bombe il recalcitrante sud-est asiatico della bontà della democrazia.
Il 4 ottobre il papa Paolo VI è al palazzo di vetro dell’ONU per lanciare un accorato appello:
“Mai più guerre nel mondo!” dice “Siamo un popolo di Dio, occorre cooperazione, volontà di pace, negazione della violenza, favorire l’indipendenza dei popoli che hanno sofferto e che vogliono la loro libertà”.
Ma quello stesso ottobre il cardinale Spellman benedice 360.000 recalcitranti soldati americani che partono per il Vietnam con queste parole:
“Gli USA combattono una guerra santa e voi non state servono solo il vostro paese, ma state servendo Dio. Voi state difendendo la causa di Dio”.
… e parlano di fondamentalismo, parlano dell’odio islamico.
Avesse aggiunto “Dio lo vuole!”, avrebbe marciato alla testa della prima crociata del 1099!
E’ in questo clima che il 17 dicembre Fanfani, quale ministro degli esteri italiano e presidente dell’ONU, elabora con La Pira, sindaco di Firenze, una proposta di mediazione basata su concessioni in cambio della cessazione delle distruzioni.
La proposta trova l’assenso di Ho Chi Minh, Presidente del Vietnam del nord, ma lo sdegnato rifiuto di Jhonson.
La conseguenza di questo rifiuto sarà una guerra che proseguirà per altri dieci anni. Sino al 30 aprile del 75, quando cesserà con la fuga degli americani, che si lasceranno alle spalle 50.000 caduti, su tre milioni di soldati inviati; 14 milioni di tonnellate di bombe – pari a tre volte tutte le bombe sganciate sull’Europa e sull’Asia in tutta la seconda guerra mondiale – sganciate su un paese grande quanto l’Italia e, particolare irrilevante, due milioni di vietnamiti morti di “democrazia”.

Ma c’è un altro fatto in questo scampolo di ’65 che vede protagonista Fanfani.
Il 28 dicembre, a casa Fanfani – che è assente – ospite della moglie, c’è La Pira che, in presenza di un giornalista del Borghese, si lascia andare – e cacchio se non ne aveva tutte le ragioni! – ad alcune pesanti considerazioni contro americani, governo, Moro e lo stesso Paolo VI per le discordanze, le contraddizioni e le ambiguità che avevano fatto naufragare la soluzione pacifica della guerra del Vietnam.
Il giorno dopo tutte le confidenze finiscono sulle pagine della rivista e scoppia il putiferio.
E Fanfani che fa?
Fa notare che neanche era presente?
Dice che La Pira è stato frainteso?
Accusa il giornalista di essere in malafede?
No. Fanfani si dimette da ministro degli esteri.
Moro rifiuta le dimissioni ma Fanfani è irremovibile, conferma le dimissioni e non ricoprirà incarichi di governo fino al 1982.
Allora, scusate, di fronte agli squallidi cialtroni che infestano l’odierna scena politica del nostro paese, permettete a me di rendere onore al merito di un vecchio democristiano:
“Si può essere un gigante anche senza arrivare al metro e sessanta!”
… Quarant’anni sono tanti, quella che ieri era cronaca oggi è storia,
Certo quello che è avvenuto allora ha prodotto, produce il nostro oggi.
Ma come? Con quali effetti? Chi poteva ipotizzarlo allora?
Ma andiamo avanti, andiamo a trent’anni fa.
E’ il 1975. Il salario di un operaio è ora 154.000 lire, ma un giornale costa 150 lire, un biglietto del tram 100 e una tazzina di caffè 120 lire. Il pane è arrivato a 450 lire al chilo, mentre il latte costa 260 lire al litro e il vino 350. Un chilo di pasta 480 lire ed uno di carne già 4.500 lire. La benzina è arrivata a 305 lire al litro.
A fine anno il dollaro raggiunge le 720 lire: è l’inizio di una corsa che non si arresterà più.
… Ah, dimenticavo, l’inflazione è al 17,2%.
Sapete la novità? Il 1975 è un anno di crisi economica e se l’Italia ci mette del suo, la situazione internazionale fa il resto: c’è chi bara e ha già calato i suoi carichi di briscola.
Per capirci qualcosa bisogna partire da lontano.
Fin dal 1944, con gli accordi di Bretton Wood – che nulla hanno a che spartire con Robin Hood – i mercati monetari si erano basati sul dollaro, unica moneta immediatamente e direttamente convertibile in oro. Questo significava che chiunque, in un qualunque momento, poteva chiedere che i dollari che possedeva fossero cambiati in once d’oro.
Ovviamente per garantire questo sarebbe stato necessario che gli Stati Uniti avessero un’adeguata riserva d’oro, proporzionata ai dollari circolanti.
Ma gli esportatori di democrazia, in quegli anni impegnati nel sud est asiatico dai recalcitranti vietnamiti, si trovarono a dover far fronte ai costi spaventosi di un’operazione chirurgica che si stava protraendo – pure quella - leggermente più – solo 10 anni - delle sei settimane diagnosticate dal presidente Jhonson.
Un truffatore, un falsario, uno stato canaglia, avrebbero potuto pensare di risolvere il problema facendo carte false. Un paese del Sud America, dell’Africa o dell’Asia avrebbe dovuto accedere al credito internazionale, infilandosi nella spirale del debito che ben conosciamo.
Gli Stati Uniti no, gli Stati Uniti risolsero il problema semplicemente stampando una montagna di bei biglietti verdi, fottendosene allegramente del fatto che non ci fosse un solo grammo d’oro a giustificarli.
Se fosse stato un privato a comportarsi così, a questo punto starei probabilmente raccontando di una clamorosa bancarotta fraudolenta. Ma parliamo della patria della democrazia e l’allora paladino della democrazia, quell’integerrimo personaggio che risponde al nome di Richard Nixon, se la cavò semplicemente comunicando, il 15 agosto del 1971, che gli Stati Uniti non avrebbero più convertito in oro i dollari detenuti da stranieri.
Di punto in bianco i dollari si trasformarono come per magia in eurodollari, cioè in carta straccia, ed il mondo intero pagò i costi di quella guerra insensata, sanguinaria e ingiusta.
Ovviamente tutto questo provocò una certa agitazione, e quando nel 1973 l’amministrazione americana decise di svalutare il dollaro da 35 a 42 dollari per oncia d’oro, si arrivò alla chiusura del mercato dei cambi nei paesi CEE e alla riapertura, gli italiani trovarono una sorpresina: la lira si era svalutata in un colpo solo di una cosina come 9 punti percentuale. Ci risvegliammo così – sicuramente tutti noi che vivevamo di salario - di punto in bianco un po’ più poveri.

A proposito di eurodollari e di carta straccia. Qualcuno si ricorda dei miniassegni? Quei foglietti di carta che banche e supermercati davano al posto delle monete da 50, 100 e 200 lire, di cui si diceva ci fosse penuria? Uscirono nel 1975 e rimasero in giro fino al ’78. Certo, era carta straccia, e carta straccia tornò ad essere, ma chissà se qualcuno non riuscì a trasformarli in oro.
Poi il ’75 è anche l’anno della riforma di mamma Rai che passa dal controllo del governo al controllo del Parlamento. In sostanza si passa dal monopolio bacchettone e moralista della DC alla spartizione di reti e testate giornalistiche tra i partiti, con la riserva indiana della terza rete affidata all’opposizione comunista – vi ricordate Telekabul? il nomignolo dato al TG3 di Sandro Curzi da quel campione dell’obiettività che risponde al nome di Maurizio Ferrara?
Berlusconi all’epoca non si occupa ancora di televisione e d’altra parte il suo compare d’anello, il futuro San Bettino Martire, è ancora un quarantenne di belle speranze nella sua Milano da bere, in attesa di liquidare l’anno dopo, al Midas, il vecchio patron socialista De Martino.
Ma il 1975 è anche l’anno del nuovo diritto di famiglia: il 22 aprile spariscono la dote, la separazione per colpa della moglie ma non del marito, la stimmate a forma di doppia enne sui documenti. Moglie e marito hanno stessi diritti e doveri, i beni sono in comune … insomma, con qualche secolo di ritardo, ma finalmente usciamo dal medioevo, col voto contrario dei missini.
Il 1975 è l’anno del movimento delle donne: il 6 e 13 dicembre per la prima volta Roma è attraversata da un imponente corteo di sole donne.
Non vogliono uomini, hanno atteso 2000 anni, ma cattolici o altro, quegli ignoranti sciovinisti non sono stati capaci di riconoscere, non solo parità giuridica alle donne, ma nemmeno dignità umana alle proprie spose, figlie, madri.
Lotta Continua la pensa diversamente e arriva fino allo scontro fisico per impedire la manifestazione, ma le donne non si fermano.

Il 1975 è l’anno in cui in Italia si parla per la prima volta di repubblica presidenziale. Sono due personaggi discussi e discutibili a farlo: Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi. La palla al balzo la colgono dai primi scandali delle “mazzette” che stanno coinvolgendo politici di primissimo piano come Rumor, Gui e Tanassi. Pacciardi è lapidario:”Dobbiamo mettere fine in Italia ad un regime parlamentare che sembra il baccanale orgiastico di delitti e di rapine”. Trent’anni dopo qualcuno, tra un delitto e una rapida, sta riuscendo a trovare il tempo di accontentarlo.
Il 1975 è anche l’anno in cui le Brigate Rosse diffondono la prima risoluzione strategica: l’obiettivo è annientare lo stato imperialista delle grandi multinazionale, l’abbattimento della società borghese … non stò scherzando …, del colonialismo, dell’oppressione, dello sfruttamento … nient’altro?
Utopia? Ideali? Nelle mani di queste autoproclamate avanguardie il desiderio si rivela subito incubo e del resto i NAP – nuclei di azione proletaria – nel maggio, a conclusione del sequestro del giudice Di Gennaro, diranno: “Quelle dei compromissionari revisionisti – parlavano proprio così … sarebbe bastato questo per mandarli a cagare – o quella opportunistica degli extraparlamentari, sono ormai politiche fallimentari, del tutto funzionali alla stabilità del potere borghese. Noi ci organizzeremo in 10, 100, 1000 NAP, e lotteremo nei modi e nei tempi che di volta in volta si renderanno necessari”.
E’ l’inizio di una stagione di sangue e morti che travolgerà tutto e tutti lasciando solo rovine.
Ma intanto il 1975 è un anno in cui si continua a morire anche nelle piazze.
Il 16 aprile a Milano c’è una manifestazione antifascista. Claudio Varalli è un ragazzo di 18 anni che manifesta con i suoi compagni. Un colpo di pistola lo ammazza in strada.
Il giorno dopo, il 17, ancora a Milano, migliaia di compagni assediano la sede del MSI di via Mancini per i fatti del giorno prima. Poco prima delle 13 un camion dei carabinieri travolge e uccide Giovanni Zibecchi, 26 anni … il suo corpo resta a terra, come uno straccio, il torace sfondato e la testa fracassata.
Durante lo sciopero nazionale di protesta a Firenze morirà fulminato da un colpo di pistola Rodolfo Boschi, un militante del PCI di 22 anni.
Nel 1975 non si muore solo nelle piazze: Pasolini viene trucidato all’alba del giorno dei Santi.
Ma per fortuna il 1975 è anche l’anno della morte di Franco, il boia di Spagna, l’ultimo dittatore fascista del continente.

Anche in quell’anno il capo del governo era Aldo Moro, ma il clima è cambiato, è cambiato anche nei luoghi di lavoro.
Il 25 gennaio Confindustria e sindacati siglano l’accordo sul punto unico di contingenza. Da quel momento c’è un solo punto – detto pesante – per tutte le categorie dei lavoratori. Fino ad allora il recupero del potere d’acquisto dei salari non era uguale per tutti ma chi guadagnava di più, recuperava … di più.
E’ una grande vittoria del movimento sindacale … forse sarà l’ultima.
Gianni Agnelli, presidente di Confindustria ha le idee chiare – direi chiarissime – probabilmente è l’unico, parla di avvicinamento dei sindacati alla conoscenza e, quindi alla responsabilità nella gestione dell’azienda. Parla di migliori relazioni che dovrebbero portare ad un aumento della produttività, alla riduzione della conflittualità e dell’assenteismo. Vaticina che se le parti si comporteranno con “responsabilità” e con intelligenza l’economia tornerà a crescere. Auspica che l’avvicinamento alla conoscenza dei rispettivi problemi porti a concertare le soluzioni nella gestione delle aziende.
Parole alte, alate e lungimiranti che i lavoratori avranno modo di capire nel loro profondo significato nei trent’anni successivi.
Qualcun altro, invece, sembra non le abbia ancora capite.
Che il clima sia cambiato ce lo rivelano anche le vicende di qualche mammasantissima di quegli anni.
Il 18 agosto Guido Carli si dimette da Governatore della Banca d’Italia. E’ un personaggio, un deus ex machina di quell’Italia. E’ l’uomo che per quindici anni ha lasciato una profonda traccia nella storia del Paese … solo che quella straccia assomiglia un po’ troppo al solco di una ferita.
E’ il potentissimo Governatore che da tre lustri sentenzia inappellabile a destra e a manca.
E cosa ha fatto per frenare quella commistione tra affari e politica che da almeno un decennio è assurta a sistema di governo? Nulla, anzi … è stato lui l’ispiratore e l’esecutore delle politiche che hanno fatto crescere a dismisura l’indebitamento dello Stato. E’ stato lui a proporre svalutazioni della lira a comando per favorire questo comparto e non l’altro. E’ stato lui a creare il sistema del debito pubblico introducendo nel ’63 la “copertura con mezzi monetari dei fabbisogni di capitali per investimenti” – Bot e obbligazioni, per capirci.
E’ questo il Carli, il guru nazionale, che dopo aver dichiarato senza un minimo di pudore: “In Italia manca un grande progetto economico preparato da governo, imprese e sindacati, anzi non vedo neanche un piccolo progetto”, abbandona la Banca d’Italia per andare a sostituire Gianni Agnelli alla guida della Confindustria.
E’ un fatto epocale: per la prima volta un non industriale è alla guida degli industriali italiani.
E’ un fatto epocale perché vorrebbe segnare il passaggio della barra di comando dalla politica all’economia … si, magari! … dalla preminenza degli interessi di questo o quel partito, di questa o quella corrente, alla preminenza degli interessi di questa o quella impresa.
Prima di quel momento il guinzaglio – con facile ricorso al debito pubblico – in mano ce lo aveva la politica – ora, con le casse dello Stato vuote, chi più di Carli sa che la musica sta cambiando?
Certo, la storia di questo boiardo, è racchiusa nella palude di quella politica e di quell’impresa che bisbocciavano come i due compari sulla pelle dei soliti cristi, ma quanta lungimiranza! Ha precorso quanto si verificherà nei decenni successivi, egemonizzando le politiche economiche dell’intero pianeta, accelerando sempre più.
Ma il 1975 è anche l’anno della rivoluzione dei garofani.
L’11 marzo, in Portogallo, giovani militari al comando di Otelo Serajeva de Carvallo, giovane maggiore dell’esercito, si oppongono al tentativo di colpo di stato dei militari fedeli al generale fascista De Spinola. Gli uomini di De Carvallo avanzano per le strade del paese con i garofani rossi che escono dalle canne delle loro armi, i portoghesi scendono in piazza a festeggiare la loro indicibile gioia: è la fine di quarant’anni di dittatura.
Viva o compañero general Otelo Serajeva de Cavallo!
… Anche se il consiglio della rivoluzione – tutti alti ufficiali - che assume il potere fino alle prime elezioni democratiche del paese - finirà addirittura per arrestarlo quell’Otelo divenuto generale, la rivoluzione dei garofani è il segno di un mutamento, di un cambio di prospettiva: l’Unione Sovietica di Bresnev, ma anche la Cina di Mao, non sono più riferimenti obbligati.
Berlinguer è il segretario del Partito Comunista e parla di “eurocomunismo”, parla di una “fase nuova della democrazia”, di “pluralismo”, di “nuovi modelli di sviluppo”, di “nuovi modi di governare” … Finiranno per essere solo parole. Gli apparati politico-amministrativi, quella classe di boiardi di stato, quella selva di politici di seconda, terza, quarta fila, quegli imprenditori d’accatto svezzati e cresciuti col debito pubblico, non sono disponibili a cambiare nulla.
E nulla verrà cambiato, se non, lentamente, molto lentamente, i rapporti di forza tra i più importanti settori dello stato e l’imprenditoria privata.

Il 1975 è l’anno del sorpasso mancato, dell’occasione perduta.
L’alternativa è ha un palmo della nostre teste … cacchio alziamoci!
Alle elezioni amministrative il PCI guadagna oltre il 5% ed è solo a l’1,7% dalla D.C. che perde il 3,2%. Giunte di sinistra si formano in cinque regioni e la sinistra conquista undici capoluoghi di regione.
Fanfani, che ha scambiato la campagna elettorale per una crociata, paga il conto dentro la DC: Moro non perdona.
Ma nell’ombra sono molti, troppi democristiani – i democristiani cattolici, quelli insomma più vicini e interni alla chiesa – che vedono in lui, in Moro, il nemico numero uno. Un nemico indegno di qualsiasi cristiano perdono, come lo stesso Moro scoprirà, a sue spese, da lì a tre anni.
Perché, cos’è successo?
Da mesi Moro si prodiga per avviare discorsi “costruttivi” con la sinistra.
Moro è veramente una grande mente, è – caso raro – lungimirante. Di fronte alle casse dello Stato vuote, di fronte a quella che verrà chiamata “questione morale” – una delle tante, l’ennesima – che in quei mesi sta spazzando via un’intera classe politica screditata, di fronte al peso della crisi economica, Moro si rende conto che il sistema di potere democristiano rischia un crollo rovinoso.
Ma c’è Berlinguer, che in questo stesso momento sembra non accorgersi di quanto stia accadendo e predica il compromesso definito “storico”, la non alternativa, la collaborazione con quella Democrazia Cristiana … Perché non approfittarne?
E Moro, nonostante gli ottusi integralisti, i beceri fondamentalisti del suo partito, che gridano al patto con diavolo, ne approfitta.
E’ l’”accordo di solidarietà nazionale” l’amo che Moro lancia e a cui Berlinguer abbocca subito.
Per Moro è l’uovo di Colombo: nello stesso tempo, da una parte, la D.C: “passa a nuttata” e dall’altra, Moro riesce a varate misure di austerità, taglia le festività dei lavoratori, blocca una serie di indennità sulle buste paga, disincentiva la scala mobile e così via, in un crescendo rossiniano di sacrifici impopolari, e tutto questo senza subire la contestazione della piazza.
Una lezione di acrobazia politica, di virtuosismo che farà scuola.
Lo dirà lo stesso Berlinguer: la “solidarietà nazionale” servì a far digerire agli italiani anche i bocconi più amari, facendo allo stesso tempo riguadagnare alla DC in pochi mesi i voti persi.
Berlinguer aveva detto:
”Non rinunciamo a porci il problema di cercare un rapporto positivo con la DC”.
E fu coerente: l’anno successivo appoggerà addirittura un monocolore tutto democristiano guidato da Andreotti.
Ma continuerà ad ottenere poco o nulla, come alla fine ammetterà amaramente:
“Programmi governativi di austerità”, “nuovi modi di governare”, “nuovi modelli di sviluppo” si dimostrarono solo belle espressioni senza il ben che minimo progetto su come attuarle.
La morale, come in una favola di Esopo, è chiara: i compromessi li propongono i più forti, non i più deboli, e, se poi si fanno, quelli forti, è già tanto se lasciano cadere le briciole …
Ma da questa storia stava per trarne i più grandi insegnamenti il quarantenne milanese di belle speranze, che da lì a poco si sarebbe seduto a giocare la partita.
… Sembra un altro pianeta, forse più distante, nelle idee, del decennio precedente dai giorni nostri, che ne sono stati però così condizionati.
E 1985? Lo stipendio medio di un operaio arriva a 600.000 lire e se un giornale costa 650 lire, un biglietto del tram ha toccato quota 500. Il caffé costa 400 lire, il pane 1.200 lire al chilo, il latte 780 al litro, mentre il vino 900 lire. Un chilo di pasta costa 980 lire mentre un chilo di carne già 11.000 lire. La benzina è arrivata a 1.329 lire al litro.
Il 1985 è – indovinate un po’ – un anno di crisi.
Il 19 luglio è un venerdì, il venerdì nero della lira: per comprare un dollaro servono 2.200 lire.
Finalmente l’Italia è al centro dell’interesse internazionale!
Siamo un problema.
Un problema così serio che gli organismi internazionali decidono di intervenire – nell’interesse dei mercati, naturalmente.
Il comitato CEE, riunito a Basilea, appende i quadri della maturità: tutti promossi – meno l’Italia.
Tutte le monete vengono rivalutare del 2%.
La lira no.
I maggiorenti europei calano la mannaia e la lira viene svalutata in un sol colpo del 6%.
A conti fatti siamo più poveri di un otto per cento.
A fine mese il ministro del tesoro Goria e il governatore della Banca d’Italia, tale Azelio Ciampi, presentano le loro dimissioni - mi sembra il minimo - ma le dimissioni vengono rifiutate.
In fondo in fondo c’è qualcuno – anzi, più di qualcuno - che gongola ad ogni svalutazione: è un ottimo sistema per favorire le esportazioni senza spremersi in ricerca, tecnologia, intelligenza. Basta solo un pizzico di furbizia, la famosa furbizia italica: vendi i prodotti in saldo e fai pagare gli sconti a chi lavora!
Oplà e il gioco è fatto! E si tira avanti per qualche anno mettendo in cassaforte i profitti.
Del resto, c’è chi sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite …
Non si capisce?
Dico quelli che: “Il profitto, Dio me l’ha dato e guai a chi me lo tocca!”
E poi:
“Costi? Perdite? O mettete mano al portafoglio – bella quella cassa, come si chiama? ah, si integrazione - o mando tutti a casa!”
Quelli così, insomma, ci hanno costruito una saga, praticamente una leggenda: quella dei lupi travestiti da agnelli.
Dunque in quel 1985 ci cade tra capo e collo questa svalutazione dell’otto per cento, ma, fortunatamente, almeno, l’inflazione s’è ridotta. Siamo solo – si far per dire – all’8,6% ed è un fatto clamoroso. Sono ormai dodici anni, dal 1973, che l’inflazione viaggia a due cifre arrivando alla punta massima del 1980 quando si è toccata la vetta del 21,1%.
Almeno questo ci fa tirare un sospiro di sollievo …
Sollievo?
Non è mica che tutti possono “gioire“ del rientro in Europa dell’inflazione italica, dopo quella ultradecennale passeggiata sudamericana.
Non è cattiveria, non è il “tanto peggio tanto meglio” è che qualcuno si sente un bruciore proprio lì, sul fondo del calzoni.
Per chiarire devo fare un passetto indietro.
Solo l’anno prima il governo Craxi ha fatto approvare un decreto che taglia per legge tre dei dodici punti di contingenza maturati quell’anno, che è appunto il 1984.
Per chi non lo sa o non lo ricorda, la contingenza era un meccanismo, introdotto nel 1946 da un accordo tra la Confindustria e la CGIL, che allora era il sindacato unitario (CISL e UIL, nasceranno dopo, uscendo da quella CGIL) Questo meccanismo non aumentava i salari - come spesso più di un furbacchione ha cercato di far credere – adeguava i salari a posteriori, ovvero dopo che c’erano stati, agli aumenti dei prezzi. La contingenza era cioè un meccanismo che faceva sì che il potere d’acquisto di un lavoratore non si riducesse a causa dell’aumento dei prezzi, faceva sì, in sostanza, che il lavoratore non divenisse più povero.
Il decreto del Governo Craxi non è passato pacificamente, la CGIL – anzi la maggioranza della CGIL, che la minoranza socialista si è schierata con Craxi – ha condotto una battaglia isolata ma durissima, arrivando a portare a Roma, il 24 maggio, un milione di lavoratori. Ma alla fine il decreto è comunque passato.
Qual’è stato il risultato immediato?
I conti sono semplici, dato che l’inflazione in quel 1984 era stata del 10,6% quell’anno i lavoratori hanno perso il quattro per cento del potere d’acquisto del loro salario, sono diventati cioè, per legge, più poveri del quattro per cento.
… non ci stiamo dimenticando qualcosa?
Ah, già! La svalutazione!
Facendo i conti della serva … quattro più otto fa… dodici.
In quel 1985 i lavoratori, tutti coloro che vivevano del loro lavoro, nell’arco di pochi mesi si sono ritrovati più poveri di un buon 12%
E adesso, allora, torniamo all’inflazione, torniamo alla rigorosa politica economica di quel governo Craxi, a quella politica che ha ricondotto l’inflazione in limiti decenti.
Come mai è calata l’inflazione? E’ stata risanata l’economia? E’ stato avviato un qualche circuito virtuoso?
No, ci hanno semplicemente insaccato ben bene in un bel circolo vizioso. Gli italiani sono più poveri, consumano meno e i prodotti finiscono per essere più offerti che comperati.
Bettino Craxi, quello della Milano da bere, ci ha insegnato a suon di suppostana le virtù della frugalità, consumiamo meno e i prodotti invenduti non fanno certo aumentare i prezzi.
Ho parlato di Bettino Craxi?
Non è un caso: nel bene e nel male il 1985 è l’anno di Bettino Craxi. Solo l’anno prima il congresso del partito socialista, quello che accoglierà a fischi e pernacchi un Enrico Berlinguer che morirà di lì a qualche giorno, lo ha confermato segretario del partito per acclamazione … le votazioni sono superflue – qualcuno parla di bonapartismo – e a onor del vero, nel suo piccolo, il carattere del personaggio non rende la definizione ironica.
Certo, il 1985 è l’anno dell’ascesa al potere in Unione Sovietica di Michail Gorbaciov, che succede alla mummia imbalsamata della vecchia nomenclatura che lo ha preceduto – a 72 anni suonati – solo l’anno prima, quel tale Kostantin Ustinovic Cernienko di cui nessuno ricorda neanche la faccia.
Certo Gorbaciov di lì a pochissimo tempo rivestirà un ruolo decisivo sulla fine di un’epoca e sicuramente sulla fine del ventesimo secolo, ma il 1985 per gli italiani resta l’anno di Bettino Craxi.
Il 1985 è anche l’anno del processo e della condanna di Enzo Tortora, di quel garbato uomo di televisione, trasformato dalla “sua televisione” nel mostro da sbattere in prima pagina.
Tortora è accusato da “O Animale” di essere un camorrista ed è arrestato in diretta TV – esposto al pubblico ludibrio. Le manette ai polsi, all’alba esce dal portone della propria casa.
Tortora si professa disperatamente innocente, non gli credono e lo condannano.
Il partito radicale lo candida e Tortora viene eletto deputato al Parlamento Europeo.
Ed ecco il colpo di scena, ciò che nell’Italia dei furbi non ti aspetti, improvvisamente si verifica, come una lama di luce che fende le tenebre e ferisce gli occhi, tanto è lancinante, inaudita.
Tortora che potrebbe, avrebbe il diritto costituzionale di sottrarsi all’azione della Magistratura, rinuncia all’immunità parlamentare e sceglie il carcere – condannato - va in carcere perché è solo lì che può, ha il diritto etico e morale di professare la propria innocenza.
Gliela riconosceranno solo l’anno dopo.
Un percorso, quello di Tortora, che forse gli è costato la vita, ma che lo ha posto un palmo sopra la melma che da lì a qualche anno scompaginerà l’Italia.
Ed anche per questo, allora, il 1985 non è – nel bene e nel … male - proprio l’anno di Bettino Craxi?
Qualche esempio, partiamo da qualche suo padrinaggio politico, che ci ricorda come nascano e si consolidano certe fortune, come si concimi chi si fa da sé.
Il 16 ottobre dell’anno prima, cioè del 1984, i Pretori di Roma, Torino e Pescara avevano oscurato le TV private di Berlusconi. La ragione è semplice, Berlusconi si è impossessato abusivamente delle frequenze nazionali, non ne ha alcun diritto, nessun titolo ed è, né più né meno, un pirata dell’etere.
Ma Berlusconi ha un buon amico a Palazzo Chigi, un amico che non ci dorme la notte e prontamente, seduta stante, il tal Bettino sforna un decreto che, sapete come verrà chiamato?
“Il Salvaberlusconi.”
Ma già allora quel tal cavaliere aveva un conto aperto con la Costituzione Repubblicana … anzi, non sarà forse da allora che se l’è legata al dito e s’è messo in testa di liquidarla?
… Ma stiamo divagando. Dicevo, Craxi sforna il decreto “salvaberlusconi” ma il Parlamento il 28 novembre lo boccia per incostituzionalità.
Figuriamoci se Craxi, l’aspirante Bonaparte si lascia atterrare da simili quisquiglie!
La notte tra il 5 e il 6 dicembre riunisce il Consiglio dei ministri …
Di notte?
E per discutere di cosa? Della crisi economica, di qualche grave calamità, di una crisi internazionale che ci sta portando sull’orlo di una guerra?
No, c’è da varare il “salvaberlusconi bis” che di fatti porterà la data del 6 dicembre dell’84.
Questa volta il decreto passerà col voto del Parlamento il 31 gennaio dell’85.
Le TV berlusconiane sono salve. Berlusconi potrà riprendere a trasmettere su tutto il territorio nazionale, in attesa della legge sull’emittenza privata. Cioè si permette a Berlusconi di godere di ciò che abusivamente si è preso, consentendogli in realtà così di consolidare una posizione che nessuno, dopo, sarà in grado più di mettere in discussione.
Ma non basta.
Al Congresso di Verona – quello della rielezione per acclamazione – Craxi aveva detto:
“Occorre maggiore efficienza e maggiore garanzia nella moralità pubblica, nell’onestà di chi amministra il pubblico denaro, negli appalti pubblici del settore produttivo.
Si tratta di un’azione severa che merita di essere difesa dall’inquinamento dei falsi moralisti di professione”.
E nel 1985 ha modo di dimostrare con i fatti la serietà della sua azione. Quali siano la moralità pubblica e l’onestà di cui parla contro i falsi moralisti di professione.
Il 1985 è l’anno dell’affare SME – avete presente un certo processo, con certi imputati eccellenti coinvolti?
Chiariamo, non voglio qui rifare il processo, non mi interessa. Voglio solo ricordare nudi e crudi i fatti, senza stabilire se ci siano o meno reati da perseguire.
Siamo alla fine di maggio.
La SME è un grande gruppo alimentare dell’IRI – è insomma a partecipazione statale.
Per questa SME, già un mese prima – dunque ad aprile – era stato firmato un preliminare di vendita con De Benedetti.
La logica che aveva portato a questo preliminare di vendita era chiara: quelle della SME non erano aziende strategiche, dunque bisogna disfarsene.
Quando però venditore e acquirente s’erano già accordati, improvvisamente, da un giorno all’altro, le aziende della SME erano divenute di capitale importanza, avevano assunto una tale importanza strategica per l’economia del paese che il PSI – e cioè proprio il partito del presidente del consiglio – minacciò la crisi di governo se questa vendita non fosse stata scongiurata.
Si arrivò così a modificare le procedure d’acquisto - e da qui il processo di cui non voglio parlare – e De Benedetti non acquisì più le aziende della SME.
E’ a questo punto che si verifica l’insondabile: come De Benedetti esce di scena, per uno scherzo di quel destino che di tanto in tanto torna ad essere cinico e baro, le aziende della SME cessano di nuovo, senza una ragione apparente, di essere strategiche ed è bene che lo Stato se ne liberi. Si accollerà il “peso” di questo gruppo una nuova cordata che, una volta incamerata la SME, svanirà come neve al sole, lasciandola in mano ad un unico proprietario …
Indovinate chi?
Ripeto, il 1985 è l’anno di Bettino Craxi, nel bene e nel male.
Il 7 ottobre un commando palestinese sequestra la nave da crociera Achille Lauro nel Mediterraneo davanti all’Egitto. A bordo ci sono 454 persone.
I sequestratori si arrendono il 9, dopo aver girovagato per il Mediterraneo ed aver ucciso e gettato in mare un turista americano invalido.
Dopo la resa, l’aereo che trasporta i sequestratori, più un alto esponente dell’OLP Mohammed Abu Abbas – che ha partecipato ai negoziati che hanno portato alla rese dei sequestratori, è intercettato in volo dai caccia americani ed è costretto ad atterrare alla base NATO di Sigonella in Sicilia.
Gli americani vogliono portarsi via sequestratori e mediatore, ma Craxi non ci sta, e con l’intervento dei carabinieri, armi alla mano, impone ai soldati americani la consegna dell’aereo con i sequestratori.
L’isola è territorio italiano, non americano e gli sceriffi andassero a farli a casa loro!
L’aereo lascia Sigonella e atterra a Roma con il governo deciso a rispettare i patti di garanzia che sono stati stipulati; a rispettare, la parola data dal Ministro degli esteri Andreotti.
Reagan non ci sta e ne nasce un caso diplomatico.
Anche nel governo sorgono problemi con i repubblicani, che escono dalla maggioranza mettendola in crisi.
Ma il Bonaparte in sedicesimo se la ride.
Il 6 novembre Craxi è alla Camera, dove è stato mandato da Cossiga – l’allora Presidente della Repubblica - per il voto di fiducia al nuovo governo.
Craxi non passa, rilancia: rivendica per intero il suo operato e l’operato del proprio governo. Afferma la legittimità del ricorso alla lotta armata da parte dell’OLP, paragonando la battaglia dei palestinesi a quella condotta da Mazzini per l’indipendenza nazionale.
Non basta, afferma pure che Israele deve ritirarsi dai territori occupati dopo la guerra dei sei giorni del 1965.
I repubblicani naturalmente si dissociano, ma il governo ottiene lo stesso la fiducia della Camera e, d’altra parte, il 24 ottobre Craxi era stato a New York, alla Conferenza dei sette grandi, e a Reagan non era restato altro da fare che buon viso a cattivo gioco.
… Peccano che ai figuri di oggi manchino almeno gli attributi dei loro compari d’anello di ieri.
Devo andare avanti?
E non ho ancora detto che l’informatizzazione è agli inizi, i personal computer sono ancora una novità e la telematica è ancora una possibilità quasi futuribile. La telefonia è ancora “fissa”. Il mondo non è ancora condizionabile in tempo reale dalla tastiera di un qualsiasi computer, dal microfono di un qualunque telefonino. Cioè, in sostanza, solo venti anni fa neanche si aveva la percezione dello scenario tecnologico che di li a poco avrebbe così pesantemente determinato la gestione delle risorse e dell’economia dell’intero pianeta.
E oggi qualcuno se la sente di dirci che cosa avverrà tra venti, trenta, quarant’anni?
E’ però su simili sciocchezze – purtroppo passate, nel silenzio generale, nel senso comune delle persone, che sono state varate, a cominciare dai primi anni ’90 le cosiddette riforme delle pensioni, cioè si è innalzata l’età pensionabile, si sono eliminate le pensioni di anzianità e, soprattutto – perché è di questo che ora vi voglio parlare – si è avviata la privatizzazione della previdenza e la sua – attenzione alla parola difficile – finanziarizzazione – non vi preoccupate che spiego tutto.
Cominciamo. E’ stato Dini, nel 1995, a tagliare la pensione pubblica … Non ve ne siete accorti? Questo perché quella di Dini è una bomba a tempo: la botta, gli effetti, li subiremo tra qualche tempo, non ora, non chi è già in pensione, non chi ci sta andando ora. La subiranno gli altri, i lavoratori più giovani e quelli che ora sperano di riuscire ad avere prima o poi un lavoro decente … E quello che fa più rabbia è che il ricatto morale è stato che erano i pensionati, i vecchi, ad essere egoisti e opponendosi alla riforma, stavano togliendo le pensioni di bocca ai loro stessi figli! E infatti la riforma l’hanno fatta per i figli, cioè per assicurarsi che questi, i figli, la pensione non ce l’abbiano mai!
La riforma Dini ha stabilito che chi aveva pochi anni di lavoro (meno di otto alla fine del 1995) avrebbe avuto la pensione calcolata con il metodo contributivo e non più con quello retributivo come era stato sino ad allora. Chi ne aveva un po’ di più – sino a diciotto – avrebbe avuto un sistema misto di calcolo della pensione – quelli maturati a quella data col vecchio sistema, mentre quelli futuri con il nuovo, mentre chi aveva più di diciotto anni di contribuzione – quindi coloro che stanno andando in pensione adesso – sarebbero rimasti con il vecchio sistema.
Va bene, ma questo che significa? Il metodo retributivo era semplice, si prendeva la media delle retribuzioni del lavoratore negli ultimi anni di lavoro e la si moltiplicava per una percentuale pari al doppio degli anni lavoratori. Se in pratica uno aveva lavorato 40 anni, la pensione sarebbe stata pari all’80% della media delle sue retribuzioni, se aveva lavorato 30 anni la percentuale scendeva al 60%.
Col sistema contributivo la musica cambia e il calcolo della pensione si fa più complicato e occorre tener conto dei contributi versati, degli anni di vita che l’Istat stima restino al lavoratore al momento in cui va in pensione, e così via. Ma nella sostanza il tasso di sostituzione, e cioè quanto del proprio reddito conserverà una volta andato in pensione un lavoratore, è sceso dal 2% all’1,6% che in soldoni significa che a parità di anni lavorati e di contributi versati, i futuri pensionati avranno riconosciuta una pensione di molto inferiore rispetto a quella di chi va in pensione oggi. Per dare un’idea della cosa: quando la riforma Dini sarà a regime la prima pensione non andrà, per chi avrà lavorato 40 anni suonati, oltre il 50 – 55% dell’ultimo stipendio percepito.
Dini e il suo governo – diamo Dini quel che è di Dini e a Silvio quel che è di Silvio - hanno sacrificato il nostro futuro, il futuro dei nostri figli, lo hanno sacrificato davanti al totem dell’equilibrio di bilancio, fingendo di non sapere che quei conti, quel fare i ragionieri sulla pelle delle persone, poco o nulla c’entravano col problema delle pensioni.
Perché?
Bella domanda, non è vero?
Perché lo hanno fatto se i conti dell’INPS erano assolutamente sotto controllo? Se erano così sotto controllo da farsi tranquillamente carico pure della spesa assistenziale – che in Italia, non si sa perché, devono pagarla solo i lavoratori?
Perché hanno manomesso da oggi, che dico oggi? Da ieri, le pensioni, se loro stessi dicevano che il problema – forse – ci sarebbe stato nel 2036 … 2036 … e chi andrà in pensione vent’anni prima sarà già alla fame …
Ovvio, qualcuno dirà … per cambiare il sistema ci voleva tempo e se non avessimo cominciato a preoccuparci sin da subito, poi ci saremmo ritrovati con una mano davanti ed una di dietro.
Balle! Balle, e sapete perché? Perché le pensioni di oggi ed i contributi di oggi non c’entrano nulla, ma proprio nulla - non solo con le pensioni del 2036 - ma neanche con quelle del prossimo anno, neanche con quelle del prossimo mese!
Lo sapete come funziona la pensione pubblica, come si finanzia? Col sistema a ripartizione. Questo significa che i contributi che si versano oggi non sono messi da parte, non sono accantonati. Sono utilizzati ora, oggi, per pagare le pensioni a chi è in pensione oggi e che quando lavorava, assicurava la pensione a chi l’aveva preceduto: è la cosiddetta solidarietà intergenerazionale, un fondamento dello stato sociale.
Perché hanno manomesso le pensioni se ci sarebbe stato modo e tempo per intervenire negli anni a venire, se le capacità di produrre ricchezza si fossero rivelate insufficienti a soddisfare le necessità dei futuri pensionati?
Perché si è resa la pensione pubblica inadeguata e insufficiente?
Perché questa pensione pubblica è stata ridotta ad una sorta di sussidio di povertà per l’anziano, ad un assegno dell’assistenza pubblica – guarda caso finanziato e pagato, tanto per cambiare, dai lavoratori?
… Ho creato abbastanza suspance? E allora andiamo avanti.
“Elementare Watson”: occorreva scardinare il sistema previdenziale pubblico per sostituirlo con uno più funzionale a precisi interessi. Serviva ad aprire la strada alla previdenza privata, cioè ai fondi pensione, che, guarda caso, sono stati assunti come il vero asse previdenziale del futuro.
Come hanno presentato, come parlano dei fondi pensione?
Sentite … ce li avete nelle orecchie e sono gli stessi che ieri vi dicevano che bisognava tagliare la pensione pubblica. Sono gli stessi, e oggi, con la stessa faccia da culo, vi dicono che sono pronti a giocarsi la testa – la vostra testa – sui fondi pensione. Che i fondi pensione vi garantiranno una vecchiaia tranquilla. Che i fondi pensione sono lo strumento miracoloso che moltiplicherà i vostri contributi
… Il gioco è sempre lo stesso: basta ripetere la stessa panzana e alla fine diventerà una cosa accettata come ovvia.
Ma i fatti sono ben altri. Il futuro io non posso prevederlo – e chi vi dice il contrario è un truffatore – ma il passato qualcosa me lo può insegnare. E quello che mi dice il passato è che i rendimenti dei fondi pensione sono tutt’altro che certi e garantiti e, anzi, se dovessi prendere in esame i rendimenti ottenuti sino ad oggi dai fondi costituiti dopo la Dini, aperti o chiusi non è che cambi troppo, ne scapperei lontano. Ma voglio essere buono e dire – si - potrebbe anche essere che alla fine un fondo mi renda quanto spera di potermi rendere – chi può escluderlo? - … Attenzione, però. è anche su questo che i musicanti delle riforme giobbano. Non so se qualcuno qui faccia investimenti in borsa, ma c’è una regola economica – che in realtà è di semplice buon senso - che chi investe in borsa non può ignorare: non si fanno gli investimenti sulle sole attese di rendimento – cioè su quanto si spera di poter guadagnare – Un altro fattore altrettanto importante è quanto sia alto il rischio di rimetterci, cioè, uno può anche giocarsi al superenalotto qualche euro per sperare di diventare miliardario, ma non credo che nessuno ci si giocherebbe la casa!
E’ per questo che, per esempio, c’è chi sceglie di investire in BOT e in obbligazioni e non in azioni, perché se il guadagno è minimo, anche i rischi di perdere i propri soldi sono ridotti.
Quando ci parlano dei fondi pensione, ci parlano sempre di rendimenti sperati spacciandoli per certi e, guarda caso, si dimenticano sempre di parlarci dei rischi. In realtà, la buona regola economica vorrebbe, perché l’investimento nei fondi pensione potesse essere giudicato conveniente, che il fondo offrisse un’attesa di rendimento (e sempre di attese, di pure e semplici speranze sto parlando!) così superiori da compensare i rischi … e dato che, per esempio, il TFR e il suo rendimento sono certi e garantiti, tanto che se la ditta fallisce paga l’INPS, giudicate voi quanto ci dovrebbero promette, i fondi pensione, per preferirli al tanto bistrattato TFR …
Ma c’è una cosa, in particolare che mi manda in bestia. Ed è l’uso stesso delle parole, l’imbroglio che sta nascosto nella stessa scelta delle parole che viene fatta.
Qual è una delle cose – così, di apparente buon senso – che ci viene ripetuta?
“Bisogna pur garantire una pensione, dato che quella pubblica è stata tagliata!”
Giusto, no? Poveri noi! Ci tocca fare buon viso a cattivo gioco! Dobbiamo essere realisti e salvare il salvabile! … Parola più, parola meno, quanti ne abbiamo sentiti parlare così, magari in buona fede?
Ma i fondi pensione, nonostante il nome, non danno nessuna pensione.
Lo so che qualcuno adesso è sorpreso, che qualcuno dice: “ Ma questo che va dicendo!”, eppure è così. Datemi due minuti per spiegare quest’altro imbroglio.
Se ognuno di noi mette da parte dei soldi, cercando di farli aumentare, investendoli in una qualunque maniera, magari giocandoseli in borsa (come fanno i Fondi pensione), oppure comprando case, finanziando qualche attività o qualche progetto, acquistando titoli di Stato, e, perché no, prestandoli al proprio datore di lavoro, come succede con il TFR, alla fine avrà comunque accumulato un capitale, più o meno grande, che viene chiamato “montante”. Se prendiamo questo montante” e lo portiamo ad una qualunque assicurazione perché, pagando, ce lo trasformi in una rendita, che copra con assegni mensili gli anni che ci separano da quella che, ufficialmente, è la nostra speranza di vita, cioè quanto dovremmo aspettarci di campare, avremo comunque un assegno mensile. Un assegno che non si adeguerà né ai salari, né al costo della vita, ma sarà rivalutato solo sulla base degli interessi riconosciuti ai depositi bancari.
Avremo questo assegno comunque avremo accumulato il montante, ovvero sia ricorrendo ai Fondi pensione e … sia tenendoci il TFR!
Cioè i fondi pensione danno una pensione esattamente come può farlo il TFR.
E dunque, quando vi dicono che bisogna farsi la pensione integrativa, rispondente: Può essere. Ma quale strumento mi conviene? Il fondo pensione o il TFR? Con cosa ho più probabilità di rimetterci di meno?
Del resto quella dei fondi è così poco una “pensione”, che bisogna augurarsi di non campare troppo!
Se si ha “la faccia tosta” di campare anche un solo mese più di quello che l’Istat ci assegna, e non fossimo assicurati contro il rischio di campare troppo - non è un’ipotesi, è il decreto del governo che prevede una simile assicurazione! - non avremmo più un centesimo da chi ci ha gestito la rendita, e potremmo scegliere tra il vivere con quel che resta della pensione pubblica e …. l’eutanasia.
Ancora, con i fondi le donne sono quelle che stanno peggio. E’ ovvio, con il fatto che la loro età di pensionamento sia fissata a sessanta anni, e che la loro speranza di vita sia più alta di quella degli uomini, le donne vedranno il loro “montante” spalmato su un numero maggiore di mesi, e quindi avranno l’importo dell’assegno mensile ridotto.
E se l’Istat innalza l’aspettativa di vita?
Quel che resta del montante viene ridistribuito per quel che in quel momento viene stimato essere il nostro scampolo di vita. L’assegno in sostanza si riduce.
E questa sarebbe una pensione?
Eppure, nonostante che la stragrande maggioranza dei lavoratori di queste stramaledetti fondi non ne voglia sapere … anzi, proprio perché la stragrande maggioranza dei lavoratori non vuol sentir parlare dei fondi, arriviamo all’attuale legge con cui tentano il loro lancio con il trasferimento del TFR.
Mi ripeto: perchè?
Perché il governo, pur di farci ingollare la sbobba di questi fondi pensione, le sta pensando proprio tutte?
Perché il rendimento certo del TFR, che è risparmio dei lavoratori e, non dimentichiamo, è utilizzato dalle imprese per autofinanziarsi, dovrebbe essere tassato più del capitale che, nei fondi pensione, finisce disperso sui mercati finanziari sparsi per il mondo?
Perché il governo toglie alle imprese il TFR, sostituendolo con agevolazioni fiscali, che non risolvono il problema dell’accesso al credito delle aziende in crisi, e che noi pagheremo con meno servizi?
Come pagheremo le minori entrate da riduzione fiscale sui nostri soldi giocati in borsa?
Perché i contributi stabiliti a carico dei datori di lavoro nei contratti collettivi, divengono trasferibili “per legge” da un tipo di fondo all’altro - anche aperto o assicurativo - ma non al TFR, se il lavoratore decide di tenerselo?
“Svegliati Watson!”:
Basta sapere come funzionano, come si finanziano i fondi pensione.
Dovete sapere che tutti i fondi pensione – aperti o chiusi non fa differenza – funzionano col sistema della capitalizzazione. Questo significa che rastrellano i soldi dei lavoratori, li ammucchiano cercando di farli aumentare sempre più. Un po’ alla Paperon De Paperoni: il fondo pensione è una specie di gigantesco salvadanaio dove finiscono i soldi dei lavoratori, con qualcuno che si incarica di investirli. Questa è la differenza fondamentale rispetto alla pensione pubblica, che funziona come ho detto a ripartizione, e cioè i soldi non si accumulano ma sono impiegati per pagare le pensioni a chi è in pensione oggi.
… Devo però chiarire ancora qualcosa. Perché ripartizione, capitalizzazione, sono parole, sembrano puri e semplici tecnicismi e qualcuno può benissimo dire:”Che mi importa di come funziona un fondo! A me, in fondo, interessa che mi arrivi la pensione, comunque mi arrivi”.
Il fatto è che proprio per questo non è indifferente come si finanzia, come funziona una forma pensionistica.
Della ripartizione c’è poco da dire: se ci sono i soldi dei contributi di chi lavora – e in Italia c’erano e ci sarebbero stati almeno sino al 2036!, le pensioni si pagano senza alcun problema, anzi, è possibile legare le pensioni all’andamento dei salari, in modo che la pensione conservi nel tempo il proprio potere d’acquisto. Questo purtroppo è stato il primo attacco che ha subito la pensione pubblica in Italia, quando nel 1992 Amato ha, appunto, sganciato la pensione dai salari, lasciandola agganciata solo all’aumento dei prezzi
E’ da lontano e assolutamente bipartisan, questo sporco gioco sulle pensioni!
La capitalizzazione è invece un sistema di finanziamento estremamente rischioso: le svalutazioni – vi ho parlato delle svalutazioni della lira del 1973 e del 1985, ma non sono certo state le uniche! – E guardate cos’è successo alla fine della seconda guerra mondiale! … Ah già, non ve l’ho detto. In Italia, prima della guerra, la pensione pubblica era a capitalizzazione. Bene, alla fine della guerra, con la svalutazione che subì la lira, i contributi di una vita di chi aveva lavorato nella prima metà del secolo, si ridussero a pochi spiccioli.
Svalutazioni, dicevo, iperinflazione … Vi ricordate cosa ho detto prima? Dal 1973 al 1984 l’inflazione in Italia è stata di oltre il 10% con punte di oltre il 20%. E se si vanno ad analizzare le economie dell’intero pianeta negli ultimi centocinquanta anni, sfido chiunque a trovare un periodo consecutivo di quaranta anni – una vita lavorativa tipo – da qualunque anno si parta, di bassa inflazione! … Non capisco come qualcuno – per esempio i gestori dell’Espero, il fondo della scuola - può realisticamente ipotizzare che per quaranta anni, per i prossimi quaranta anni, l’inflazione se ne starà – evidentemente per virtù divina – sul 2% all’anno … O piuttosto lo capisco anche troppo bene: come potrebbero affermare altrimenti che conviene investire nel loro fondo?
Ma dicevo che la capitalizzazione è estremamente rischiosa: svalutazioni, iperinflazione, fallimenti e truffe … bhé vi dicono niente Enron … Parmalat … Cirio … bond argentini? E non è che sia necessario che i gestori del nostro fondo siano mascalzoni come quello della Enron … Come e di cosa potresti accusare il gestore del tuo fondo se avesse, in tutta onestà, investito i tuoi soldi in azioni Parmalat o Cirio?
Svalutazioni, iperinflazioni, fallimenti e truffe – dicevo – mettono continuamente a rischio i contributi, i risparmi di una vita – rischiano di farti trovare da un giorno all’altro in braghe di tela.
Ma questa è solo una parte del problema. D’altra c’è il fatto che, se ti è andata bene e non hai perso, o almeno non hai perso troppo del tuo capitale, con le svalutazioni, le iperinflazioni, i fallimenti e le truffe che ti possono essere capitate tra capo e collo nell’arco di quaranta anni, la pensione che avrai – e dalli!, ci casco pure io! – la rendita che avrai, sarà comunque legata all’andamento delle borse e al fatto che il tuo gestore finanziario sia stato più o meno bravo, abbia avuto più o meno fortuna, scommettendo in borsa con i tuoi soldi.
Parlare di previdenza, dovrebbe significare mettere al riparo dagli imprevisti della vita la nostra vecchiaia. La previdenza è, dovrebbe essere, l’esatto contrario di una scommessa: lavoro uno vita con la certezza che potrò godere di un dignitoso riposo quando sarò vecchio, perché è la società che me lo riconosce e me lo garantisce, come io l’ho garantito a chi mi ha preceduto.
Nella sostanza, voglio dire, è proprio per il sistema di finanziamento a capitalizzazione che i fondi pensione non sono in realtà strumenti previdenziali. Cioè, come strumenti previdenziali sono sia inefficaci e sia inidonei.
Sono altre le cose in cui i fondi pensione eccellono!
Da noi i fondi pensione sono praticamente neonati, ma andate a vedere la storia dei fondi pensione là dove esistono da decenni! Andatela a studiare la storia dei fondi americani e inglesi. E’ una lezione estremamente istruttiva.
I fondi pensione sono strumenti finanziari di straordinaria importanza sui mercati finanziari e nella speculazione. Guardate, è ovvio che lo siano, gestiscono quantità enormi di capitali rispondendo a due sole esigenze: ottenere ad ogni costo i più alti rendimenti possibili e nel più breve tempo possibile, ed avere continuamente disponibilità di liquidi, di soldi contanti.
Comprando e vendendo titoli, e ricercando sempre e soltanto il massimo profitto, i fondi pensione impongono alle aziende in cui investono i comportamenti che rendono di più. E quali sono questi comportamenti? Com’è che un’azienda aumenta i propri profitti? Ma naturalmente aumentando l’efficienza e riducendo i costi del lavoro – che significa né più e né meno aumentare lo sfruttamento e la precarietà del lavoro – procedere alle riorganizzazioni aziendali e, quindi, ai licenziamenti per riduzione del personale – fottersene dello sfruttamento, del degrado e dell’inquinamento ambientale.
Ma i fondi pensioni sono strumenti finanziari di così straordinaria importanza, che finiscono per agire ed essere usati anche per operazioni molto più in grande.
Creano o sono usati per creare e amplificare le crisi determinate dalla speculazione finanziaria. Sono usati per sconvolgere le economie di interi paesi, per ricattare i paesi poveri e costringerli alle cosiddette politiche di aggiustamento strutturale, per salvare le loro valute o ripianare i debiti.
La cosa allucinante, perversa, è che i fondi pensione costringono i lavoratori a sperare nello sfruttamento di altri lavoratori e dei più poveri per arrivare ad avere, alla fine, una rendita dignitosa.
I fondi pensione sono in sostanza una sorta di Robin Hood alla rovescia: tolgono a chi ha meno, a chi sta peggio, ai lavoratori ed ai paesi poveri, per dare a chi ha più, a chi vive di rendita e ai paesi ricchi.
Vi diranno: “Il nostro no, non è così, il nostro fondo è diverso.“
Bene, sono ancora in attesa di un fondo disposto a sottoscrivere una garanzia di eticità. Di un fondo che mi assicuri che i miei soldi non saranno investiti in fabbriche di armi o in attività che sfruttano il lavoro minorile. Che i miei soldi non saranno investiti in attività distruttive per l’ambiente, o per operazioni che strangolino questo o quel paese, costringendolo a piegarsi al ricatto degli organismi finanziari internazionali.
Sono sempre in attesa di un fondo che almeno mi garantisca che non investirà i miei soldi in azioni di aziende che licenziano i lavoratori, che non rispettano le leggi ed i contratti di lavoro, che usano e abusano della precarietà del lavoro e della vita.
Chiedetelo, chiedetelo anche voi, per iscritto, a chi vi propone il suo fondo pensione, di garantirvele queste cose. E chiedetegli anche chi è veramente che fa gli investimenti per conto del suo fondo pensione. Perché, guardate, una cosa sono i consigli di amministrazione dei fondi, altra cosa sono i gestori finanziari, quelli che cioè, fanno veramente gli investimenti e le scelte concrete, non le indicazioni di massima. Solo per fare un esempio, sapete chi erano nel 2000 (non so se ora siano cambiati) i gestori finanziari del Cometa, il fondo dei metalmeccanici? Generali, Paribas, Unicredit, Sanpaolo-IMI, Aig-Invesco e Cisalpina-Putnam. E del Fonchim, quello dei chimici? Generali, RAS, Creditrolo, Unipol-Citibank, Umi-Unionvita e, dulcis in fundo, Mediolanum-State Street. A chi è, che dobbiamo chiedere garanzie di eticità?
Dunque, i fondi pensione sono questa cosa, sono né più né meno un sistema per accumulare risorse da investire nelle operazioni finanziarie e uno strumento estremamente efficiente per le operazioni più spregiudicate ed “anonime” sui mercati di tutto il mondo. Il mondo è una grande tavola imbandita. Ma i posti, a questa tavola sono pochi ed estremamente selezionati.
Come sedersi a questa tavola? Come giocare un ruolo in questa partita? Da dove prendere le risorse?
Ma dalle tasche dei lavoratori, naturalmente!
E per fare questo era necessario, era indispensabile passare dalla ripartizione, che – lo ripeto sino alla noia – non ha gruzzolo, al sistema di finanziamento a capitalizzazione, quello di tutti i fondi pensione.
E’ chiaro adesso cosa significa “finanziarizzazione” della previdenza?
E’ chiaro quali sono state le vere ragioni, i veri scopi delle cosiddette riforme previdenziali?
Altro che riequilibrare i conti! Assicurare la pensione alle generazioni future … si, come no!
Il vero scopo di queste cosiddette riforme era la privatizzazione della previdenza, per riversare nella speculazione finanziaria una massa enorme di risorse – sentite, si parla di una cosina nell’ordine dei 13 miliardi di euro all’anno, qualcosa come 26mila miliardi di vecchie lire, una signora finanziaria! – soldi, risorse sottratte ai lavoratori ed al lavoro. Al lavoro, perché, non dimentichiamo, quei soldi fino ad oggi sono impiegati delle imprese per finanziare le attività produttive.
Certo, questa bella trovata non è certo frutto del sacco dei nostri rubagalline … Diciamo che si inscrive nel solco delle direttive che gli organismi economici internazionali hanno dettato. Rientra nel novero delle politiche neoliberiste che i nostri governi hanno accettato supinamente, bovinamente.
Così bovinamente da non rendersi evidentemente conto, almeno all’inizio, che questa operazione, in Italia, presentava un problema.
Ricordiamolo, la pensione pubblica in Italia è a ripartizione, e passare ad un sistema a capitalizzazione non è così semplice come potrebbe sembrare .. Perché? La ragione è in realtà estremamente elementare: i lavoratori, che dovrebbero accantonare i risparmi, per capitalizzare la loro pensione, devono comunque, allo stesso tempo, continuare a pagare i contributi per coloro che sono già andati in pensione.
Cioè i lavoratori devono pagare due volte. E’ così! E’ chiaro, no?
Questa è la vera ragione della vita magra e stentata dei fondi pensione in Italia fino ad oggi. Del perché le iscrizioni hanno riguardato soprattutto i lavoratori con il reddito più alto e quelli residenti nelle regioni più ricche.
Quella dei fondi è stata vista come una forma di risparmio, per quelle categorie che avevano abbastanza, che si potevano permettere di risparmiare qualcosa del proprio reddito.
E, colpo di scena, è a questo punto che entrano in scena Maroni e Berlusconi.
Come? Il miracolo della moltiplicazione della contribuzione, questi signori la nascondono dietro il furto del Trattamento di Fine Rapporto (il TFR), che vorrebbero “conferito” nei Fondi pensione con il meccanismo del silenzio assenso.
Ripeto, è un furto, un furto con destrezza, perché il TFR è salario, sono soldi dei lavoratori. Approfittando del fatto quei soldi i lavoratori li vedranno solo al momento del licenziamento, queste “mani di velluto” hanno pensato di sfilare il portafoglio di tasca alle persone confidando che queste neanche se ne accorgano.
Le chiacchiere sono sempre le stesse. La rinuncia alla liquidazione viene presentata come indispensabile, per garantire ai futuri pensionati, un reddito decoroso. Ci dicono che questo reddito sarà garantito dagli alti rendimenti dei fondi pensioni.
Ma noi sappiamo che nessun fondo pensione è in grado di garantire nulla, né, tanto meno, lo stesso rendimento garantito dal TFR.
Ci tolgono i soldi del TFR certi, garantiti e rivalutati in base all’inflazione, spacciando per “certi” guadagni, non solo immaginari, ma, a giudicare da quel che è successo nel passato, sicuramente improbabili.
Ma insomma, io lo ripeto, non posso dire cosa avverrà nel futuro, ma so per certo che quando avremo un inflazione all’1% il mio TFR sarà rivalutato – per legge – del 2,3%. Se avessimo un’inflazione al 2% il TFR mi frutterebbe il 3%. Se l’inflazione arrivasse sino al 6% il TFR non mi farebbe perdere nulla, rivalutandosi dello stesso 6%. Ed anche se l’inflazione arrivasse al 20% non ci rimetterei troppo, perché il mio TFR, ripeto per legge, sarebbe rivalutato del 16,5%.
Sfido qui, chiunque, a provarmi che un qualunque fondo pensione mi possa oggi offrire le stesse garanzie!
Certo, c’è sempre l’imbroglio della contribuzione dei datori di lavoro sui fondi pensione. Io ci metto dei soldi, ma degli altri ce li mette il datore di lavoro e dunque, a conti fatti, il gruzzolo alla fine sarà comunque abbastanza consistente.
I conti in tasca, ce li sappiamo fare tutti, no?
Premesso naturalmente che questo con la perdita del TFR non c’entra niente … Cioè se uno si vuol fare una forma di risparmio previdenziale, e questa cosa è volontaria e, magari, organizzata contrattualmente … va bene, sono fatti suoi, e delle sua coscienza – visto cosa sono i fondi pensione – ma l’iscrizione forzata e con i soldi della liquidazione è tutta un’altra cosa.
Premesso questo, vi voglio far notare una cosa. Quella contribuzione, quella dei datori di lavoro, rientra né più, né meno, nei costi che gli stessi datori di lavoro mettono in conto al momento dei rinnovi contrattuali. E allora, perché quei costi non possono e devono tradursi direttamente in salario differito dei lavoratori – in TFR per intenderci - se i lavoratori non vogliono aderire al fondo pensione?
Guardate che questa domanda non è peregrina, guardate che già più di una volta la Cassazione, anche a sezioni riunite – che è il massimo dell’interpretazione delle norme – ha dichiarato che “i trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita”.
Ma per chiudere, noi, di fronte a questo bel piattino che ci è stato preparato e che pretendono che ora ci ingolliamo, che possiamo fare.
Guardate, questa storia del TFR è particolarmente importante. Guardate, questo è uno snodo centrale ed essenziale di un processo avviato oltre dieci anni fa.
Vi rendete conto? L’intera impalcatura, l’architettura di questa gigantesca operazione finanziaria, nascosta dietro le riforme previdenziali e condotta in danno dei lavoratori e del lavoro, sta in piedi solo se ha le gambe su cui poggiarsi.
E quali sono queste gambe? Ma i soldi dei lavoratori, i nostri soldi, no!.
Tutto, ma proprio tutto, sta in piedi solo se riescono a finanziare la previdenza privata, i fondi pensione, e cioè gli strumenti privilegiati della speculazione finanziaria.
Se gli togliamo i soldi, se gli nascondiamo il bottino – 13 miliardi di euro all’anno, 26mila miliardi di vecchie lire! – si ritroveranno con una mano davanti ed una dietro.
La soluzione ce l’abbiamo a portata di mano, siamo noi che possiamo decidere, realmente … Come? Ovvio, dobbiamo impedire il trasferimento del TFR nei fondi pensione: questo è lo strumento che abbiamo oggi per fermarli.
E guardate che poi, in fin dei conti questa è la cosa comunque più intelligente e più tranquilla che si possa fare. Perché se ti iscrivi al fondo pensione non ci puoi ripensare: la rinuncia al TFR è senza ritorno e non c’è nessuna possibilità di tornare indietro una volta iscritti, volontariamente o “d’ufficio”, anche con il silenzio assenso. Il contrario, invece è sempre possibile. Cioè chi nei sei mesi previsti rifiuta di trasferire il proprio TFR nei fondi pensione, potrà comunque farlo, volendo, in un qualunque momento successivo.
E’ la cosa più intelligente anche per un’altra considerazione che non sento fare in giro. Tenersi il TFR contribuisce anche a salvaguardare il posto di lavoro.
… Che sto’ dicendo? Pensateci un momento. Quando un datore di lavoro licenzia uno o più lavoratori, deve pagare il TFR, che è salario dei lavoratori accantonato. Ma nessun datore di lavoro accantona realmente quelle somme. Tutti le impiegano per finanziare le attività dell’impresa in maniera assai conveniente: nessuna banca, infatti, presterebbe quel denaro senza richiedere nessuna garanzia e con interessi così bassi!
Quando un lavoratore viene licenziato, il datore di lavoro deve reperire le somme che il lavoratore gli ha “prestato”, magari ricorrendo al credito e ai normali tassi di mercato, con una “dolorosa” trasfusione di risorse dalle proprie casse alle tasche del lavoratore.
Quando il lavoratore rinuncia al TFR per iscriversi al fondo pensione, il datore di lavoro non ha più somme da restituire al lavoratore, con un “doloroso” salasso, e potrà licenziarlo … a “cuore più leggero”.
Insomma, che dire ancora? Impediamo il trasferimento del TFR nei fondi pensione. Un semplice: “No, grazie”, è lo strumento concreto, materiale ed efficace per difenderci da un ulteriore furto.
Certo, abbiamo la necessità di rimettere in discussione il tasso di sostituzione manomesso dalla Dini, abbiamo cioè la necessità che la pensione pubblica, quella a ripartizione, torni a garantirci una vecchiaia serena e dignitosa.
Ma per fare il primo, indispensabile passo verso una previdenza pubblica, solidale e giusta è necessario intanto rispondere “No, grazie” ai fondi pensione.

Per un sindacato partecipato

(documento predisposto per il congresso del S.in.Cobas)

INNOVARE PER RICOSTRUIRE
Il sindacalismo di base e autorganizzato era nato quasi vent’anni fa dalla crisi e dall’involuzione burocratica delle organizzazioni sindacali tradizionali. Oggi quella crisi, analoga e contestuale alla crisi di tutte le espressioni politiche e sociali del movimento operaio tradizionale, sta giungendo al suo estremo approdo, in Italia, in Europa e nel mondo.
Il capitale, uscito vincitore dallo scontro sociale e politico degli anni Sessanta e Settanta, ha imposto con le politiche della globalizzazione capitalistica un nuovo dominio che ha permeato tutti gli aspetti della vita sociale, culturale e politica e che ha provocato una gigantesca ridistribuzione del reddito e della ricchezza dal lavoro al capitale. La crescente disuguaglianza e differenziazione sociale, il diffondersi di nuove povertà ed esclusioni accanto a quelle tradizionali, l’incessante processo di precarizzazione del lavoro, del reddito e della vita, la trasformazione in merce di ogni cosa, dalla salute alle risorse ambientali, dai servizi essenziali fino al partrimonio genetico, disegnano oggi delle società profondamente diverse da quelle dell’epoca precedente.
Il proletariato, il lavoro salariato, appare oggi cambiato in profondità rispetto al periodo del secondo dopoguerra. Lungi dall’essere scomparso, il lavoro salariato è in espansione sul piano globale e allo stesso tempo è più internazionalizzato: oltre i due terzi della forza lavoro mondiale sono da considerarsi ormai integrati in un unico mercato del lavoro, ovvero esposti a concorrenza diretta tra di loro. I flussi migratori, alimentati da condizioni sociali sempre più insopportabili e dai diritti negati, modificano la composizione del proletariato specie negli USA e in Europa, rendendolo sempre di più multiculturale e meticcio. L’assalto ai diritti conquistati dal movimento dei lavoratori e della lavoratrici nel passato e la precarizzazione del lavoro ci consegnano oggi nuove e sempre più estese generazioni di lavoratori cresciuti nell’ombra della sconfitta, socialmente atomizzati, privi delle tutele giuridiche e contrattuali essenziali e tendenzialmente desindacalizzati.
La crisi del movimento operaio tradizionale si esplicita non solo nella rinuncia ad un punto di vista autonomo ed indipendente, ma altresì nella incapacità di relazionarsi con la nuova composizione della classe lavoratrice: negli ultimi decenni le organizzazioni sindacali tradizionali hanno vissuto un progressivo invecchiamento dei propri aderenti e perso quasi metà dei loro iscritti nell’area USA-Europa-Giappone.
La globalizzazione capitalistica mostra oggi agli occhi di larghi strati sociali di non essere quello che la favola neoliberista prometteva, cioè l’avvio di una nuova epoca di benessere e stabilità. Il governo globale, nella sua impossibilità di rispondere sul piano economico e sociale ai bisogni degli uomini e delle donne, integra come elementi imprescindibile il ricorso alla violenza e alla repressione sul piano nazionale e quello alla guerra come strumento normale e permanente sul piano internazionale. Gli spazi di democrazia e partecipazione si riducono sempre di più. La distruzione dell’ambiente procede senza soste sotto i colpi delle ipocrisie ufficiali e degli interessi del profitto. Laddove i processi di liberalizzazione e privatizzazione sono stati spinti alle estreme conseguenze, come in Argentina, il sistema semplicemente crolla, mentre la fase recessiva dell’economia mondiale sta travolgendo interi gruppi transnazionali.
Una situazione che non ha fatto cambiare strada alle sinistre politiche e sociali tradizionali, sempre aggrappate ad una improbabile gestione temperata dell’esistente. Le sconfitte elettorali a catena dei governi di centrosinistra in Europa e gli spazi di crescita per i movimenti xenofobi o razzisti ci parlano anzitutto dell’assenza di alternative credibili e comprensibili.
Tuttavia, negli ultimi anni sono intervenuti fatti nuovi. A partire dal sociale sono emersi nuovi movimenti, nuove generazioni hanno iniziato, seppure in modo spesso incipiente, a mobilitarsi contro le politiche neoliberiste, la guerra e il razzismo. Si tratta di un fatto di straordinaria importanza, perché dopo lunghi decenni di sconfitte ed arretramenti si intravvede di nuovo una possibilità per ricostruire un altro punto di vista.
Le mobilitazioni europee degli ultimi anni, Porto Alegre, Genova, le manifestazioni di Barcellona, Siviglia fino a quella di Firenze e la grande partecipazione agli scioperi in Italia, Spagna e Inghilterra ci dicono che qualcosa sta cambiando. Uno scenario al quale il nostro progetto di ricostruzione di un sindacalismo di classe, democratico e di massa non è estraneo; anzi la nostra internità a questi processi rappresenta la condizione sine qua non per potergli dare un futuro.
Lo stesso sindacalismo di base necessita di rinnovarsi, poiché anch’esso è strutturato anzitutto nei segmenti tradizionali della classe operaia e oggi sperimenta i suoi limiti nell’organizzazione delle nuove tipologie del lavoro. Un sindacalismo di base che dopo tanti anni non è riuscito a definire un’area sindacale capace sul piano d’insieme a rappresentare una massa critica alternativa al monopolio di Cgil-Cisl-Uil. Un sindacalismo di base caratterizzato da una pluralità di soggetti, orientamenti e storie non facilmente riducibile ad uno mediante fusioni, come ha dimostrato anche il fallimento del processo di unificazione con la Confederazione Cobas, decretato definitavamente dalla sua assemblea nazionale di giugno e sul quale avevamo investito tutta la nostra organizzazione e la nostra convinzione.
Eppure, proprio oggi, quando i nodi vengono al pettine, quando il sistema collaborazionista e perdente della concertazione sta vivendo la sua profonda crisi, non solo in Italia, ma in tutta Europa, il patrimonio di resistenze, lotte e esperienze accumulate dal sindacalismo di base è assolutamente imprescindibile per poter dare alla fase uno sbocco positivo per il movimento dei lavoratori.
Ma occorre innovare, dare priorità alla costruzione nei nuovi settori del proletariato, ricercare modalità unitarie nuove di piattaforma, lotta e mobilitazione con tutte le forze anticoncertative e antiliberiste del mondo sindacale, a partire dal sindacalismo di base e autorganizzato, contaminarsi con i movimenti sociali e giovanili, sperimentare nuove forme di organizzazione, costruire presenza sul territorio e nel sociale e rafforzare la nostra capacità di tenuta e offensiva nei posti di lavoro e nelle categorie.
Il Congresso del S.in.Cobas è chiamato a rispondere a queste sfide, per poter affrontare proficuamente un anno che sarà di grande conflitto, ma anche di grande opportunità.
DALLA CONCERTAZIONE AL PATTO PER L’ITALIA
Il processo di trasformazione del mercato del lavoro e della nozione stessa di lavoro, iniziato a partire dagli anni ottanta ma organicamente strutturato tra il 1991 e il 1993 con la sottoscrizione degli accordi interconfederali che, sulla base della subordinazione del salario alla competitività sui mercati (la nefasta politica dei redditi), hanno avviato la stagione della concertazione, ha subito con l’avvento del governo Berlusconi una decisa accelerazione attraverso la pubblicazione del libro bianco, concepito dai precedenti governi di centro-sinistra ed elaborato da “esperti” di estrazione confederale (Cisl in primo luogo, ma non solo), dalla presentazione del disegno di legge contenente le deleghe in materie di lavoro e, da ultimo, dalla sottoscrizione del Patto per l’Italia.
Dieci anni di concertazione sono costati ai lavoratori la perdita di almeno il 10% del valore reale dei salari e la proliferazione delle forme cosiddette atipiche di lavoro che altro non sono se non lo scippo legale dei diritti sociali e sindacali di fatto perpetrato ai danni di una fascia sempre più ampia di lavoratori. Dieci anni in cui le responsabilità di Cgil, Cisl e Uil e delle forze politiche di quel centro-sinistra che ha partorito il pacchetto Treu – pietra miliare della precarietà – non sono distinguibili da quelle del padronato e della destra con cui condividono un unico quadro di riferimento, quello dell’Europa di Maastricht e dei vincoli di bilancio, fondato sulla primazia indiscussa e apoditticamente indiscutibile della competitività sui mercati, sul primato dell’economia, non più scienza ma ideologia giustificatoria del libero mercato, sulla politica.
Ciò è stato possibile, ma in questa fase di profonda crisi del mercato mondiale, di fronte al crollo di autorevolezza e credibilità delle illegittime e arbitrarie istituzioni poste al formale governo dell’economia mondiale, dal FMI alla BM, dal WTO al G8, di fronte ai drammatici effetti delle politiche neo liberiste evidenti in Argentina non meno che in Brasile e Paraguay, di fronte ai bancarottieri che terremotano i mercati finanziari, non è possibile per il grande capitale, che scatena la guerra economica, sociale e militare, lasciare alcun margine all’illusione di una gestione temperata del liberismo e, liquidata in Europa ogni ipotesi di terza via si avvia, sulla base dei trattati di Lisbona, Barcellona e Siviglia, sulla base della carta regressiva di Nizza che è il fondamento della Carta Costitutiva dell’U.E. che verrà varata, a smantellare nell’intero continente la stessa idea di stato sociale, di solidarietà quale valore fondante la coesione sociale.
LA LEGGE BOSSI-FINI
Con il Governo Berlusconi si registra un’accelerazione dei processi, dettati dalla natura stessa del quadro politico al governo e dai suoi diretti referenti economici non meno che dalle esigenze dettate dall’esterno, sul piano europeo e mondiale, imposte dalla fase. Ma se l’azione del Governo Berlusconi deve essere inquadrata quantomeno in un ambito europeo questo non significa che non si tinga di inquietanti specificità. Se del tutto anomala nel quadro generale è la situazione italiana sul piano dell’informazione e della legalità, una specificità particolarmente grave deve essere registrata con il varo della legge “Bossi-Fini” dove i diritti fondamentali della persona vengono subordinati ad un contratto privato introducendo nella legislazione italiana una sorta di moderna nozione di schiavitù non dissimile dalle forme di schiavitù altrettanto “moderne” diffuse oggi nel mondo. Da sempre lo schiavo ha tratto un proprio status, una forma di tutela sociale, la titolarità di alcuni diritti dall’essere proprietà, bene intangibile del padrone cui lo Stato garantiva la salvaguardia del patrimonio costituito, appunto, dallo schiavo. Cos’altro è ora la persona che se viene licenziata o se decide di dimettersi, deve abbandonare cose e persone e andarsene pena l’arresto, l’espulsione e la proscrizione? Cos’è la persona condannata a servire un padrone pena la perdita del diritto stesso a vivere nella comunità? Questo non è un paradosso retorico, anzi, la condizione classica dello schiavo era per alcuni versi invidiabile rispetto alle attuali condizioni: se nelle forme storiche di schiavitù il padrone doveva comunque farsi carico del sostentamento dello schiavo in quanto questi costituiva, al pari di un terreno o di un immobile, una proprietà di valore, nelle forme moderne di schiavitù, come quella istituita dalla Bossi/Fini, mentre si realizza la totale dipendenza dello schiavo, l’eccedenza di “risorse umane” disponibili (e quindi la loro sostituibilità a costo zero) riduce ai minimi termini il valore dello schiavo sollevando il padrone dalla necessità di garantirne la sussistenza e la stessa sopravvivenza. Con la Bossi/Fini il governo Berlusconi precipita l’Italia nella più oscura barbarie, apre una ferita ulcerosa nel tessuto sociale della comunità nazionale e riattualizza nel terzo millennio una nozione servile del lavoro con cui dovranno fare i conti e misurarsi tutti i lavoratori a prescindere dal luogo in cui sia stato dato loro in sorte di nascere. Un fatto di così inaudita gravità deve essere rigettato e combattuto con ogni mezzo a cominciare dalla pratica della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza per tutti coloro che a qualunque titolo, anche nei posti di lavoro pubblici e privati, si intersecano con gli effetti di questa legge xenofoba, razzista e schiavista.
LA LEGGE DELEGA
I processi di trasformazione del mercato del lavoro e della nozione stessa di lavoro, così come sono perseguiti dal governo Berlusconi, sono schematizzabili in tre fasi, complessivamente descritte nel libro bianco.
La prima fase è costituita dalla legge sulle deleghe al lavoro in cui si realizzano immediatamente, ovvero una volta varati i decreti governativi definiti nelle deleghe:
il completamento della trasformazione del mercato del lavoro con la definita riduzione del lavoro da diritto a merce attraverso la liberalizzazione e deregolamentazione di ogni attività di mediazione ed intermediazione, consentita anche in termini imprenditoriali; attraverso la soppressione di ogni strumento regolatore pubblico, concepito come impaccio alla piena efficienza del libero mercato (incontro tra domanda e offerta); attraverso la definizione di un regime cogente per il “godimento” dello status di disoccupato subordinato alla condizione soggettiva di occupabilità, ovvero di merce acquistabile/affittabile sul mercato;
la legalizzazione, attraverso il proliferare di ogni ulteriore forma atipica di lavoro, di qualunque forma di sfruttamento, sia sul piano del costo del lavoro che delle sue condizioni di fornitura, rendendo in tal modo superfluo il ricorso a forme di lavoro nero, non visto come vulnus sociale, ma interpretato come freno allo sviluppo economico, ovvero come limite all’espansione del profitto, in una logica che marginalizza e sottomette qualunque nozione di diritto sociale all’interesse dell’impresa assunto come unico e totalizzante bene comune;
la revisione degli ammortizzatori sociali dalla difesa del lavoro a calmiere sociale dell’aumento di licenziabilità, attraverso lo spostamento delle risorse, programmaticamente invariate nell’entità totale e, anzi, progressivamente ridotte a seguito dell’annunciata riduzione della pressione contributiva sulle imprese, dagli istituti quali la cassa integrazione e la mobilità ad un’indennità di disoccupazione pensata senza alcun riferimento ad una nozione di salario sociale ma, anzi, concepita in senso punitivo per un disoccupato obbligato ad alimentare e finanziare l’”affare” - per i gestori, privati, padronali e sindacali che siano, del collocamento - delle “politiche attive per il lavoro”. In questo ambito il Patto per il Lavoro riesce ad andare oltre le stesse previsioni del Libro Bianco quando, differenziando i contributi per settori merceologici, ovvero determinando l’entità della contribuzione a carico delle imprese sulla base dell’effettivo ricorso all’indennità di disoccupazione del settore merceologico di appartenenza, sposta la nozione di questo istituto dal piano previdenziale, ovvero della protezione sociale di cui si fa carico l’intera comunità (anche se con i soli soldi dei lavoratori e non per il tramite della fiscalità generale) al piano assicurativo, per quanto al momento obbligatorio al pari dell’assicurazione Inail, ovvero ad un piano tendenzialmente privatistico in cui il rischio di disoccupazione verrebbe coperto dietro il pagamento, da parte dei soggetti direttamente interessati (singolo datore di lavoro e lavoratore), di una polizza la cui entità sarebbe direttamente proporzionale alle probabilità che l’evento assicurato si verifichi. Tendenza questa affatto aleatoria alla luce della nozione di lavoro e di contratto di lavoro quale mero negozio giuridico contenute nel libro bianco;
l’attacco alla magistratura del lavoro in favore di una giurisdizione domestica in deroga alle leggi e alla contrattazione collettiva, sia attraverso l’introduzione dell’arbitrato di equità e sia attraverso l’istituto della certificazione in cui una pattuizione imposta dal contraente forte il negozio giuridico - cui viene ridotto il contratto di lavoro - rovescia le fondamenta della legislazione sociale introducendo vincoli e salvaguardie ad esclusiva tutela dello stesso soggetto forte del negozio, ovvero del datore di lavoro;
l’organizzazione del bussines della disoccupazione attraverso le cosiddette politiche attive per il lavoro a partire dalla formazione permanente che coinvolge l’intera vita delle persone, subordinando saperi, conoscenze e cultura agli interessi e alle finalità del profitto; derubricando l’istruzione a formazione in un unicum affatto teorico ma pervicacemente e concretamente perseguito a partire dalla controriforma della scuola della Moratti in cui le persone non sono che risorse umane da coltivare ai fini di una più efficace competizione dell’impresa sui mercati.
IL PATTO PER L’ITALIA
La seconda fase si è realizzata con la sottoscrizione del Patto per l’Italia, con il quale il governo ha attuato l’uscita da destra dalla concertazione, ponendo in atto la pratica della “consultazione” e negando, con questo, le funzioni ed i poteri di cogestione nel governo della società – all’interno dei limiti invalicabili delle compatibilità economiche del mercato – alle parti sociali e, tra queste, alle organizzazioni sindacali confederali sino ad ora chiamate, in cambio, a garantire il consenso e la pace sociale.
La consultazione, nel momento in cui svapora ogni illusione di una gestione temperata della presente fase storica, denuncia le politiche basate sul consenso sociale, per un’idea plebiscitaria ed autoritaria della politica, in cui il governo trae la legittimità a legiferare esclusivamente dal consenso elettorale assunto, appunto, come mandato plebiscitario, cui i soggetti sociali oggetto dei provvedimenti governativi devono soggiacere senza essere sostanzialmente legittimati ad opporsi (e da qui al progressivo attacco allo stesso diritto di sciopero e alla criminalizzazione del dissenso il passo è breve).
A questo ulteriore e progressivo deficit di democrazia si accompagna la mutazione genetica di Cisl e Uil, non più organizzazioni sociali compartecipi e corresponsabili della gestione di un sistema-paese concordemente accettato da governo-padroni-confederali, ma strutture che traggono la loro legittimazione e il loro sostentamento (enti bilaterali, commissioni arbitrali, gestione delle formazione permanente, mercato del lavoro) direttamente dall’accettazione delle politiche governative, nella forma di un nuovo modello corporativo. E’ in ciò che si realizza la reale rottura di queste organizzazioni con una Cgil, al contrario, ferma ad una visione ed un ruolo concertativi, costretta da un lato al conflitto ed incapace nella pratica di ogni giorno di superare i limiti di una prassi cui si sono formati tutti i suoi quadri ad ogni livello. Nella sostanza elemento dell’attuale conflitto non è un mutamento di rotta di questa Cgil pervicacemente concertativa, bensì la comparsa di questi soggetti neo-coorporativi, legittimati dal governo e non dal consenso dei lavoratori (cui si soprassiede con l’uso brutale della coppia di potenza informazione / repressione), sempre meno sostentati dalle quote sindacali – e quindi dalle adesioni dei lavoratori – e, al contrario, finanziati, quali agenzie governative, con i soldi dei lavoratori per la gestione del mercato dell’occupabilità o, meglio, della licenziabilità.
LA LIQUIDAZIONE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Terza fase di questo processo sarà, come chiaramente descritto sul “Libro Bianco”, la liquidazione del Contratto Nazionale di Lavoro, e della stessa contrattazione collettiva, con la riduzione del contratto di lavoro a mero negozio privato lasciato, in quanto tale, alla libera contrattazione delle parti, intese come datore di lavoro e singolo lavoratore. Sarà la liquidazione di ogni residuo di legislazione giuslavoristica fondata sulla tutela del contraente più debole del contratto di lavoro, il lavoratore. Sarà la liberalizzazione dei trattamenti economici e normativi dei lavoratori, che saranno subordinati alle “condizioni economiche” del territorio, ovvero al profitto. Sarà, con lo “Statuto dei Lavori”, la cancellazione della stessa nozione di “lavoro dipendente” per una giungla di figure contrattuali non determinate dalle reali caratteristiche delle prestazioni fornite e delle modalità con cui vengono fornite in una interdipendenza tra loro che le orienta o verso il lavoro subordinato o verso il lavoro autonomo, bensì da un’astratta dichiarazione definitoria, cui si accompagnerà un quadro sempre più ristretto di diritti, giuridicamente non comunicante con le altre analoghe figure contrattuali inerenti il negozio della merce “lavoro”.
ART.18 E DIFFERENZIAZIONE TRA CGIL E CISL-UIL
In un quadro di siffatta natura e gravità la questione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha assunto ed assume valenze e significati che vanno ben al di là della pur significativa rilevanza tecnica della manomissione della norma. Governo e Confindustria da una parte, Cgil dall’altra, hanno strumentalmente caricato la vertenza sull’articolo 18 di un valore simbolico straordinario perseguendo, gli uni, la denuncia della politica della concertazione e l’imposizione della stagione della “consultazione”, gli altri, la difesa, senza revisioni e senza autocritiche, del quadro sociale concertativo. Gli obiettivi di Governo e Confindustria si sono palesati con la sottoscrizione del Patto per l’Italia. Mentre i reali confini della mobilitazione della Cgil si sono evidenziati nell’avversione al Referendum per l’estensione delle tutele e dei diritti sindacali alle imprese con meno di 16 dipendenti, non meno che nella concreta prosecuzione della pratica concertativa ogni qual volta le controparti lo hanno consentito, sia a livello nazionale e sia a livello aziendale.
La simbolicità dell’oggetto dichiarato del conflitto non ha reso però meno reale lo scontro in atto e la convinzione, pure diffusa, di un rientro nei ranghi prossimo venturo di una Cgil chiamata a cavalcare strumentalmente un conflitto a fini meramente di politica interna ai DS, non ha reali fondamenti: la Cgil è e resterà costretta al conflitto da un quadro socio economico che la esclude in quanto sindacato concertativo e, se una condizione di questo genere non potrà che ingenerare al suo interno dinamiche di diversa e opposta natura, un suo “rientro nei ranghi” non potrà che essere subordinato ad una mutazione genetica di questa organizzazione al pari di quelle subite da Cisl e Uil.
ART.18 E SINDACALISMO DI BASE
Di fronte ad una simile situazione l’insieme del sindacalismo di base (e in questo la produzione di documenti e materiale informativo da parte del S.in.Cobas, tendente ad introdurre elementi di conoscenza e riflessione sulla reale portata e dimensione dell’attacco governativo e padronale, non ha potuto e saputo essere né adeguata né sufficiente a modificare la situazione) il più delle volte non è riuscito ad andare oltre ad un profilo sostanzialmente subalterno e minoritario, assumendo acriticamente la cornice simbolica (l’articolo 18) della vertenza e caratterizzandosi in definitiva nel rifiuto della concertazione (naturalmente con quel che questo sottende in termini più generali) quale elemento distintivo rispetto ad una Cgil comunque assunta come termine unico di paragone della propria soggettività e della propria alterità.
L’incapacità, per l’insieme del sindacalismo di base, di produrre in questa fase adeguate analisi, elaborazioni, informazioni e conseguenti parole d’ordine che attrezzassero i lavoratori a sostenere i veri termini ed i reali obiettivi dello scontro, ha fatto sì che non sia stato possibile cogliere per intero le possibilità che la straordinaria riuscita dello sciopero e della manifestazione del 15 febbraio 2002 offrivano e hanno reso comunque marginale se non irrilevante, qualunque sia stata la scelta operativa assunta da ogni singola organizzazione, il suo ruolo nel momento delle mobilitazioni confederali, quando, al contrario, sarebbe stato possibile intercettare la grande massa dei lavoratori, certamente disponibili al conflitto in termini ben più generali rispetto a quelli che la Cgil può e vuole offrire.
Lo stesso fatto che soltanto alcune organizzazioni del sindacalismo di base hanno saputo cogliere il messaggio politicamente chiarificatore e dirompente del quesito referendario per l’estensione dell’art.18 riconferma questa analisi.
In questo senso le carenze del sindacalismo di base hanno pesato in maniera determinante anche sulla mobilitazione e sulla partecipazione del “movimento dei movimenti” quando, al deficit di analisi e di proposta politica, si sono sommate le spinte centrifughe delle diverse reti. Questo ha finito per svuotare di significato la pur sacrosanta parola d’ordine della generalizzazione dello sciopero, ottenendo di rendere spesso e volentieri subalterna e in qualche misura acritica, se non vissuta in termini di mera solidarietà alla mobilitazione confederale, la partecipazione di un movimento che, con la propria, lunga, capacità di mobilitazione e lotta, ha avuto un ruolo determinante nel rendere possibile lo sviluppo di questo conflitto.
Le grandi mobilitazioni dell’anno 2000, la rinnovata ed entusiasmante disponibilità al conflitto dimostrata dalla grande massa dei lavoratori, come ad esempio nella vertenza FIAT, rischiano allora di essere vanificate se nelle mobilitazioni e nelle lotte non verranno posti al centro dell’agenda socio-politica i grandi temi del lavoro, non merce ma bene comune inalienabile della comunità, e dei diritti dei lavoratori, quali vincoli interni intangibili dal profitto imprenditoriale; se non si avrà la capacità di disegnare una idea complessiva, speculare ed opposta al progetto governativo e confindustriale architettato nel Libro Bianco.
Questa è la sfida che ci troviamo di fronte ed è su questo terreno che il S.in.Cobas sarà chiamato a ricercare l’unità d’azione del sindacalismo di base ed a creare, dal basso, a partire dai luoghi di lavoro e dalle R.S.U., il più ampio fronte di resistenza alle politiche neo-liberiste, connettendosi e contaminando l’intero movimento dei propri contenuti anticapitalistici.
In questo ambito particolare importanza assumono il referendum per l’estensione delle tutele agli occupati nelle imprese sino a 15 dipendenti, non a caso avversato dalla Cgil di Cofferati, che, portatore di un’idea di universalità dei diritti, ha costituito uno strumento forte, discriminante, nella costruzione dell’opposizione sociale. Il referendum può ancora svolgere un ruolo essenziale in vista del voto nella prossima primavera, a patto che si inscriva in un’idea più generale e complessiva di diritti intangibili del lavoro e dei lavoratori, di diritti costituenti la condizione cui deve essere subordinato il profitto imprenditoriale. Di diritti fondati sul primato della politica sull’economia. Di diritti che ridisegnino un primo assieme di beni comuni sottratti dall’interesse pubblico, collettivo, alla speculazione dei mercati. Nella sostanza è necessario, mutuando la parola d’ordine del movimento, che all’attacco complessivo cui governo e Confindustria sottopongono il mondo del lavoro, si contrapponga non solo una strenua difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, ma un’idea possibile e praticabile di un altro mondo, più giusto e più equo, la cui costruzione può concretamente essere avviata a partire dalla vittoria nella votazione referendaria.
Altrettanto fondamentale sarà una effettiva generalizzazione delle lotte e della mobilitazione che superi la persistente idea che lo scontro sulle deleghe al lavoro e sul libro bianco riguardi direttamente i soli occupati, o meglio, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato. La trasformazione del lavoro e del suo mercato è cosa che riguarda e tocca tutti, direttamente, nelle reali condizioni di vita e di lavoro presenti e future e solo parzialmente, in buona misura collateralmente, riguarda i lavoratori tradizionalmente intesi anche sul piano della sindacalizzazione. In questo senso il coinvolgimento diretto ed immediato dei soggetti sociali, in buona misura giovani, che da Genova a Genova per arrivare a Firenze hanno segnato l’irrompere sulla scena politica e sociale del movimento, è elemento essenziale che il S.in.Cobas dovrà perseguire sia attraverso il dibattito, il confronto politico e la capacità propositiva in una logica unitaria ed includente e sia attraverso il ripensamento del proprio divenire verso la costruzione di un sindacato di tipo nuovo.
IL MOVIMENTO DEI MOVIMENTI
Le giornate di Genova del 2001 non erano un’eccezione italiana, ma parte di un processo sociale e politico di carattere internazionale che vede l’entrata in scena di nuovi movimenti sociali, di nuovi soggetti e di nuove generazioni, le cui mobilitazioni sono riuscite ad infrangere il cosiddetto pensiero unico, cioè l’egemonia culturale del capitale, diffondendo dopo lunghi anni in settori più ampi della società di nuovo una critica, un’opposizione, al dominio degli interessi padronali.
Un “movimento dei movimenti” che si è sviluppato sia negli USA e in Europa, che nei paesi dipendenti. Nel primo caso esprimendosi soprattutto in occasione dei vertici degli organi di governo della globalizzazione capitalistica, da Seattle in poi, e nel secondo con lo sviluppo di nuovi movimenti sociali, com’è il caso dei movimenti contadini organizzati nel coordinamento internazionale di Via Campesina.
È un dato di straordinaria importanza quello della dimensione internazionale del movimento. Questo si manifesta su almeno due piani: in primo luogo, la centralità della critica di questa “globalizzazione”, ovvero l’incipiente consapevolezza del carattere sovrannazionale dell’avversario, e, in secondo luogo, la ricerca di luoghi e momenti di dialogo e incontro sul piano globale. Con la realizzazione del Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel 2001 si segna un fatto politico dirompente, mostrando per prima volta l’esistenza di una convergenza, nella critica alla globalizzazione neoliberista, tra movimenti e soggetti diversi, di diverse regioni del mondo.
Con le mobilitazioni contro il G8 di Genova si apre anche in Italia un nuovo spazio politico, dal basso e da sinistra. Ci sono almeno tre elementi a sostegno di questa ipotesi interpretativa.
Anzitutto, l’irruzione di una nuova generazione sulla scena del conflitto sociale e politico, come hanno evidenziato la grande partecipazione giovanile sin dalle iniziative preparatorie di Genova (ma si potrebbe citare anche la partecipazione di giovani operai alle iniziative di lotta dei metalmeccanici nella fase precedente Genova) e soprattutto il dato che oltre il 50% dei manifestanti di Genova erano persone non organizzate, cioè nuove.
In secondo luogo, il fatto che per prima volta dopo decenni si realizza una mobilitazione di tale dimensione e capacità di incidere sulla vita politica nazionale, non solo al di fuori degli apparati tradizionali ed egemoni della sinistra italiana, bensì contro di essi. Infatti, sia i DS che la Cgil erano ostili ed estranei a questa mobilitazione.
In terzo luogo, nella mobilitazione di Genova è confluita una grande pluralità di soggetti, modi di essere e motivazioni, ma nel loro insieme hanno espresso senza ombra di dubbio una critica antiliberista, una radicalità, che la separava nettamente dalle posizioni subalterne agli interessi dominanti della sinistra sociale e politica moderata. Non a caso, il luogo di coordinamento e di organizzazione del controvertice genovese, il GSF, ponenva in originale alleanza tra di loro organizzazioni, reti e aree le più diverse.
Infine, si potrebbe aggiungere un quarto elemento, leggendo gli avvenimenti in controluce. Il livello repressivo senza precedenti negli ultimi anni imposto dal governo Berlusconi, in accordo con i servizi di sicurezza dei paesi del G8, dall’omicidio di Carlo Giuliani fino ai pestaggi squadristi della Diaz e di Bolzaneto, hanno mostrato un timore reale, tutto politico, dei governi di fronte alla crescita di movimenti non riducibili alle compatibilità. Anche in questo caso non si tratta di un’eccezione italiana, pur tenendo presente le caratteristiche proprie della coalizione governativa di centrodestra, considerato che pochi mesi prima la polizia svedese era arrivata fino al punto di utilizzare armi da fuoco, ferendo gravemente un manifestante, per contrastare la contestazione del vertice europeo di Goteborg.
Genova non era un fatto effimero, come avrebbero dimostrato i mesi successivi. Dopo l’11 settembre molti invocavano la morte del movimento, ma non fu così, anzi questo si trasformò in movimento contro la guerra, aggiungendo a quella antiliberista una seconda discriminante, quella contro la guerra.
La fase che va dalle giornate genovesi fino alla mobilitazione contro la Bossi-Fini di gennaio a Roma, che si trasformò nella più numerosa mobilitazione di migranti mai avuta in Italia, dato che circa metà degli oltre 100mila manifestanti erano migranti, vedeva il movimento capace di imporre la propria iniziativa politica, “monopolizzando” di fatto le piazze.
L’esempio più ecclatante fu la manifestazione contro la guerra del 10 novembre a Roma. Quel giorno il Governo cercò di mobilitare una piazza a favore della guerra, con il “USA Day”, mobilitando non più di 30mila persone, il movimento contro la guerra portò in piazza 150mila manifestanti, mentre il centrosinistra, che appoggiava la guerra, si ridusse a fare un’invisibile conferenza stampa in una base militare in Puglia.
In sintesi, la fase che va da Genova fino a gennaio 2002 confermava l’esistenza di questo nuovo spazio politico, delimitato dal no “senza se e senza ma” al liberismo, alla guerra e al razzismo. La sinistra moderata era costretta alla difensiva, ancora stordita dalla “sberla di Genova”, il movimento esprimeva capacità di egemonia, seppure limitato ai momenti di mobilitazione di piazza.
Questa capacità di egemonia si traduceva anche nella partecipazione molto larga al secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre (febbraio 2002), dove erano presenti tutti coloro (area DS, fondamentalmente) che l’anno primo avevano deriso il FSM e osteggiato il controvertice di Genova, assumendo ora il FSM come luogo di proprio legittimazione politica, dichiarando “anch’io faccio parte del movimento”, seppure avessero ancora le mani insanguinate dal loro vota a favore della guerra.
Fu in questa fase che nascevano e si diffondevano i Social Forum, come luoghi empirici di raccolta e iniziativa comune tra le organizzazioni che avevano partecipato al processo di Genova e la nuova partecipazione, anche di singoli, che si era data da Genova in poi.
Questa prima fase termina di fatto con il mese di gennaio. A partire da febbraio, con il dispiegarsi del conflitto sociale attorno ai progetti padronali e governativi di attacco generale ai diritti dei lavoratori e con il nuovo protagonismo della Cgil, il movimento perde il “monopolio della piazza” e l’iniziativa politica.
Due sono i terreni problematici di questa fase.
Anzitutto, il fatto che l’entrata in scena del conflitto sociale propriamente detto ha costretto tutte le aree del movimento a fare i conti con esso. Dalla critica generale del neoliberismo bisognava passare alla lotta concreta contro di esso. Il dibattito interno al movimento ha fatto sicuramente dei passi in avanti, come ha dimostrato l’assemblea nazionale del movimento di Bologna che ha assunto il “no alla concertazione” come una sua parola d’ordine. Ma è altrettanto vero che il movimento si è diviso sulle scelte concrete da fare in alcuni passaggi significativi, come in occasione del 23 marzo e del 16 aprile, mostrando così una difficoltà reale.
In secondo luogo, la nuova fase ha proposto un nuovo protagonismo della Cgil e, data la natura del gruppo dirigente e dell’apparato della Cgil, ridato ossigeno alle posizioni di centrosinistra, per nulla cambiate sulle questioni fondamentali, come il neoliberismo e la guerra.
L’azione congiunta di questi due elementi ha prodotto ciò che alcuni hanno chiamato crisi del movimento, confondendo, spesso in modo interessato, i reali termini della questione con le apparenze, come poi avrebbero dimostrato i 150mila scesi in piazza nel primo anniversario dell’omicidio di Carlo Giuliani.
Ma c’è sicuramente anche un altro elemento di crisi reale, rappresentato dall’irrisolto problema del rapporto tra “gruppi dirigenti” del movimento e movimento, tra soggetti organizzati nazionalmente e persone non organizzate, che costituiscono poi l’autentica novità e ricchezza e che anche a Genova nel 2002 hanno rappresentato la presenza maggioritaria.
Il Forum Sociali locali erano stati un tentativo empirico per rispondere a questo problema, ma ci sono di fatto riusciti soltanto per un periodo limitato, specie nella grandi città, mentre nelle realtà più periferiche continuano spesso a svolgere ancora oggi una funzione importante.
Dall’altra parte, i luoghi di coordinamento nazionale, di fatto luoghi di direzione politica, hanno evidenziato una grave inadeguatezza del “gruppo dirigente”, il più delle volte incapace di andare oltre alle mere mediazioni politiche e di sviluppare un elaborazione di prospettiva di medio periodo.
Si prospetta dunque un futuro immediato in cui le componenti del movimento tenderanno a valorizzare maggiormente la pluralità e in cui aumenterà la competizione tra aree diverse. Mentre rimane aperto il problema di come organizzare una riflessione di insieme, fuori dalle contingenze, e di quali forme sperimentare per definire una partecipazione più reale delle nuove generazioni.
SINDACATO E MOVIMENTI
Nella sua giovane storia di organizzazione, il S.in.Cobas ha ripetutamente incrociato la dimensione internazionale e i nuovi movimenti sociali che stavano emergendo. Avevamo sostenuto, anche con progetti di carattere economico, il movimento zapatista in Messico, cogliendovi gli elementi di novità, per alcuni versi anticipatori di quello che sarebbe venuto dopo. Abbiamo partecipato sin dal primo istante alla costruzione dell’esperienza della Rete delle Marce europee contro la disoccupazione, la precarietà e l’esclusione e alle mobilitazioni europee. Ed è stato per noi quasi naturale partecipare al primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre nel 2001 e poi all’organizzazione del controvertice di Genova.
Questa nostra esperienza, anche se c’è il problema di farla diventare di più patrimonio dell’insieme dell’organizzazione, facilita senz’altro la discussione sul rapporto tra sindacati e movimenti, che ormai attraversa settori sindacali sempre più ampi.
I nuovi movimenti sociali sono i primi segnali di controtendenza da lunghi anni, coinvolgendo soggetti colpiti dalle politiche liberiste, nuove generazioni e settori nuovi del proletariato che spesso si sentono estranei alla politica tradizionale e alle organizzazioni sindacali tradizionali, comprese quelle di base. Essi hanno proposto momenti di riapertura di conflitto sociale, individuando la dimensione internazionale spesso come naturalmente immediata e rappresentando una possibilità concreta di interlocuzione, di contatto, con lavoratori precari e migranti.
Un progetto di costruzione di un nuovo movimento sindacale non può che basarsi sull’incontro tra le figure tradizionali (contratto a tempo indeterminato, azienda medio-grande) del lavoro e quelle nuove, tendenzialmente maggioritarie. I movimenti rappresentano uno dei luoghi privilegiati dove tale incontro può realizzarsi, dove rivendicazioni unificanti possono essere definite.
Per questi motivi, il S.in.Cobas deve considerare come parte integrante del lavoro sindacale propriamente detto la cura e la costruzione di rapporti, interlocuzioni e alleanze con i movimenti sociali antiliberisti.
Va ricercata la contaminazione sul campo, nella costruzione di mobilitazioni e vertenze. Unico modo per sperimentare modalità di partecipazione e organizzazione capaci di organizzare i segmenti del nuovo proletariato. Questo implica altresì l’abbandono di ogni concezione verticale, gerarchica, nel rapporto tra sindacato e altri movimenti sociali.
L’intuizione della “generalizzazione” dello sciopero, anche se finora realizzata più sul piano delle parole che su quello della pratica, risultando de facto piuttosto un tentativo di alleanza tra qualche area di movimento e la Cgil, va nella giusta direzione e deve trovare nuove sperimentazioni.
Il S.in.Cobas deve darsi maggior capacità di operare sul territorio, di essere soggetto presente nella società, non solo nel posto di lavoro. L’organizzazione dei lavoratori precari e dei lavoratori migranti è spesso quasi impossibile solo all’interno dell’azienda a causa dell’assenza completa di tutele e diritti. Infatti, l’attivazione e la mobilitazione di questi lavoratori si dà spesso sul territorio, su questioni non immediatamente legati al posto di lavoro, anzi spesso di carattere generale.
È per noi prioritario nella prossima fase assumere come uno degli assi centrali la costruzione nel quadro del movimento di iniziative, rapporti e alleanze, orientate verso la definizione di un’area sociale che assuma la centralità del conflitto sociale e la costruzione di un’iniziativa sui terreni del precariato e dei diritti, della loro estensione a tutti e tutte, fissi e precari, nativi e migranti, uomini e donne.
SINDACATO E POLITICA
Confermiamo l’idea fondante del S.in.Cobas nato per contribuire alla ricostruzione di un sindacato democratico, di classe e di massa. Di un sindacato e non di un partito o di un’organizzazione politica, perché diverso è il ruolo di chi organizza il quadro militante in un progetto complessivo di trasformazione della società e di chi, avendo un progetto complessivo di trasformazione della società, organizza e attrezza i soggetti sociali in quanto tali, in quanto oggetto di una condizione sociale determinata dalla dicotomia capitale/lavoro e non in quanto politicamente orientati.
Partito/organizzazione politica – sindacato sono forme di organizzazione a nostro giudizio antitetiche ed inconciliabili e anche su questa differenza di fondo si è consumato il fallimento del progetto di unificazione nella Confederazione Cobas.
L’unità di azione va perseguita sempre e comunque e questo è un patrimonio originale del S.in.Cobas, purtroppo niente affatto condiviso spontaneamente all’interno del sindacalismo di base, come tanti episodi ci dimostrano, ma l’unità non la si trova mai a scapito della politica.
Il progetto del S.in.Cobas è la ricostruzione di un moderno sindacato democratico, di classe e di massa, ovvero, il suo campo di azione è l’organizzazione, sulla base di un’idea di trasformazione sociale complessiva, del lavoro comunque aggettivato (stabile, precario, che non c’è) nello scontro con il capitale. E’ questo e non altro. E’ questo, con tutte le relative implicazioni politiche e culturali, e non di più e non di meno. E’ il luogo dove agiscono collettivamente tutti i lavoratori e le lavoratrici comunque aggettivati sulla base delle loro condizioni sociali e non dei rispettivi convincimenti politici, culturali ed ideologici, nella consapevolezza che quella che una volta si definiva coscienza di classe ed oggi delle volte viene chiamata autoeducazione popolare, si origina e trae nutrimento dalle lotte concrete che spingono in avanti i rapporti di forza con la controparte.
In questo senso il S.in.Cobas non è un’organizzazione totalizzante, non può e non vuole supplire all’assenza o alla carenza della politica, pena il fallimento del proprio progetto. Si sente ed è parte di un qualcosa di più generale e intende interloquire con quanto di altro da sé si organizza e si muove contaminandolo e facendosene contaminare. Questo, nella consapevolezza che un altro mondo sarà realmente possibile quando e se diverrà un bisogno condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione. Le tentazioni delle avanguardie, i gesti esemplari sono scorciatoie che non portano da nessuna parte e la rivoluzione, quella vera, o la si fa con chi ha il mutuo della casa o le tasse universitarie da pagare o non la si fa.
I limiti della “politica” non devono indurci in errori di supplenza: come sindacato contribuiremo in senso positivo al quadro politico generale solo facendo bene il nostro mestiere.
Essere sindacato d’altra parte non può e non deve significare estraneità ed assenza dai processi politici in atto, anzi, l’attività “politica” esercitata da Genova 2001 in poi esemplifica il giusto e corretto rapporto che un’organizzazione sindacale deve avere con i processi politici ed i movimenti di massa. In questo senso le dissonanze registrate con i compagni della Confederazione Cobas è esattamente il termine di paragone che discrimina la divaricazione e la diversità dei rispettivi approcci politici: un sindacato pervade trasversalmente i fenomeni politici contaminandoli della specificità della contraddizione capitale/lavoro, non si fa parte politica in essi.
Su questo terreno a livello territoriale il S.in.Cobas sconta però gravi ritardi di una parte del quadro militante che riduce nei fatti l’attività sindacale a compiti rigorosamente rivendicativi e vertenziali giudicando più o meno consapevolmente l’azione politica ne più e ne meno come una sottrazione di forze ed energie ai compiti “istituzionali” dell’organizzazione.
Anche a questo si possono far risalire i limiti di “aziendalismo” che dobbiamo registrare nell’azione del S.in.Cobas a livello di buona parte dei Coordinamenti Provinciali e dei singoli Cobas aziendali.
Questo, nonostante che origine e soluzione di quelle stesse condizioni, lotte e vertenze “aziendali” non possano più essere individuate in “azienda” ma vadano ricercate in un quadro sociale, politico ed istituzionale ampio. Limiti di ”aziendalismo” che finiscono spesso per offrire agli stessi lavoratori niente di più dell’idea di una resistenza priva di prospettive.
Non siamo negli anni cinquanta e sessanta, in una fase espansiva del capitalismo e con una politica economica di allargamento della spesa pubblica; siamo alla guerra permanente e alla globalizzazione finanziaria dei mercati, siamo nell’era della Banca Europea e ai vincoli esterni imposti dai mercati. Le decisioni, tutte le decisioni che vengono assunte in ogni singola azienda, sono prese, imposte, condizionate altrove. E questo “altrove” è un cancello che deve essere “picchettato” oggi se si vuole offrire ai lavoratori un’ipotesi di liberazione!
E’ questo il senso e il ruolo politico che il S.in.Cobas non può esimersi dall’assumersi compiutamente anche in ogni territorio ed in ogni azienda, a partire dall’elaborazione di un progetto complessivo che scaturisca dall’analisi sociale, economica e politica del territorio e si ponga nell’ottica della ricostruzione di quel movimento operaio indispensabile per qualunque ipotesi di un altro mondo.
Se a prima vista questo obiettivo può apparire troppo ambizioso per le nostre esigue forze ed in particolare per l’ancora troppo esiguo quadro militante, la verità è che o si ha la consapevolezza che questa è l’unica strada che ci è dato di seguire (certo, passo dopo passo) o il destino della nostra organizzazione è segnato dall’incalzare fuori dai cancelli della nostra azienda dell’azione politica, sociale ed economica del grande capitale.
Rivendichiamo dunque in tal senso l’obiettivo strategico su cui è nato il S.in.Cobas e ci poniamo il problema della verifica delle ipotesi politico-organizzative fondanti il sindacato, in primo luogo l’autorganizzazione, l’intercategorialità e la centralità politica delle rappresentanze elette sui luoghi di lavoro, alla luce della complessità dell’attuale fase.
ESAURIMENTO DELLA SPINTA ALL’AUTORGANIZZAZIONE
E’ indubbio che la spinta all’autorganizzazione che aveva dato vita alle esperienze del sindacalismo di base sia oggi in larga misura esaurita. Le RSU, lungi dal divenire reali strumenti di democrazia vengano progressivamente spogliate di reali poteri a vantaggio degli apparati sindacali concertativi, mentre la nostra impostazione intercategoriale - nonostante la nostra disponibilità ad un suo temperamento sancita nell’assemblea congressuale di Fiuggi, temperamento in realtà di fatto già avviato sin dal Congresso di Mondragone con la strutturazione dell’organizzazione in settori - è risultata essere elemento non secondario di conflittualità, di discrimine e, comunque, di non comprensione con i compagni della Confederazione Cobas.
L’idea dell’autorganizzazione, certamente “ideologicamente” giusta e politicamente suggestiva, presa di per sé, dimostra dopo oltre un decennio di pratica alcuni limiti intrinseci.
In primo luogo non è sufficiente proclamare l’autorganizzazione perché i lavoratori vi facciano effettivamente ricorso. Perché l’autorganizzazione sia una reale pratica vi è la necessità di un “quadro operaio” formato, ovvero di un ambiente in cui le pratiche sindacali e di lotta siano un patrimonio diffuso. Poiché la condizione sociale di per sé non ha mai fornito né una coscienza di classe né tanto meno gli strumenti politici per tramutare la coscienza di classe in capacità di organizzazione e di lotta, questo significa che l’autorganizzazione è possibile realmente di fatto solo là dove preesista un patrimonio di lotte di lungo periodo che abbiano già formato un adeguato “quadro operaio”.
Quando il sindacalismo di base è nato ha fatto incetta del “quadro operaio” formatosi nelle stagioni di lotte precedenti ma dopo, nei anni ’90, sulla base di quali lotte avrebbero dovuto formarsi i nuovi “quadri” indispensabili al proliferare dell’autorganizzazione?
Nella stragrande maggioranza dei casi i lavoratori, attratti dalla radicalità e dalla capacità di resistenza dei Cobas, si sono avvicinati all’organizzazione vivendola non quale supporto ad una volontà di autorganizzazione ma con l’intento di delegarle la propria rappresentanza. Ovvero, sempre più spesso, i Cobas sono chiamati a rispondere non più alla domanda di un luogo di organizzazione delle lotte, bensì a quella che dice “risolvimi il mio problema”. Una logica della delega che infine pervade anche parte della nostra militantanza e dei nostri delegati e delegate.
Nella pratica dell’autorganizzazione, poi, si riscontra un altro limite: il minoritarismo.
I lavoratori autorganizzati sono l’avanguardia, il nocciolo duro che, con una pratica ed un’elaborazione “esemplari”, indicano alla grande massa dei lavoratori un punto di vista diverso ed antagonista a quello concertativo. Ma se a livello di singola azienda l’autorganizzazione ha portato e può portare alla gestione vincente di singole lotte e vertenze, a livello complessivo si è dimostrata incapace di farsi proposta politica credibile, ipotesi maggioritaria alternativa per il complesso dei lavoratori, autorelegandosi al ruolo minoritario di “resistente”. Se i “numeri“ sembrano non lasciare scampo ed alternativa a questo ruolo minoritario è a nostro parere anche vero che l’esiguità di questi “numeri” la si debba addebitare proprio in buona misura all’incapacità dell’autorganizzazione di parlare alla stragrande maggioranza dei lavoratori così come oggi si presentano, di prospettare loro non semplicemente un punto di vista alternativo ma un percorso di partecipazione e pratica e degli obiettivi concretamente perseguibili.
L’INTERCATEGORIALITÀ’
Nella fallita vicenda dell’unificazione, alla disponibilità del S.in.Cobas a temperare la logica e la pratica intercategoriale è stato sistematicamente contrapposto da parte dei compagni dei Cobas, Confederazione dei Comitati di Base, un modello confederale fatto della proliferazione di improbabili organizzazioni di categoria strutturalmente e legalmente impossibilitate ad una reale azione sindacale e di tutela dei lavoratori (soppresso). Un modello organizzativo che peraltro lasciava irrisolte le questioni delle modalità di comunicazione tra categoria e categoria e di costruzione partecipata delle decisioni a livello confederale, finendo per delegare de facto queste ultime ad un ristretto numeri di compagni, come aveva evidenziato anche la querelle autunnale sull’esecutivo confederale.
Se le diverse origini e storie delle due organizzazioni giustificano e chiariscono le differenti impostazioni, nel merito, l’analisi della fase e delle concrete modifiche delle condizioni dello scontro capitale/lavoro cui siamo chiamati a dare risposte efficaci ed efficienti ci impongono un’analisi attenta al fine di dotarci degli strumenti e delle strutture, appunto, più efficaci e più efficienti per attrezzare allo scontro i lavoratori.
In questo senso, se l’esigenza di temperare l’intercategorialità attraverso l’organizzazione dei tre settori (pubblico, privato e trasporti) nazionali in grado di supportare le strutture territoriali ed aziendali in termini di informazione, formazione, condivisione, elaborazione e coordinamento – sancita nel congresso di Mondragone - conserva tutta la sua validità, l’opzione intercategoriale diviene oggi, ancor più di ieri, fondamentale.
Il processo di riorganizzazione del lavoro e della produzione si fonda, come è a tutti noto, sulla loro parcellizzazione in soggetti giuridici diversi chiamati a gestire il singolo processo e/o servizio interconnesso al conseguimento dell’obiettivo produttivo del committente, pubblico o privato che sia e in figure lavorative caratterizzate da negozi giuridici individuali (contratti di lavoro) differenti. Questo fatto comporta che in pratica in ogni sito produttivo, in ogni amministrazione pubblica, convivano lavoratori dipendenti da soggetti giuridici diversi chiamati ad applicare CCNL differenti e lavoratori con contratti di lavoro individuali di tipologia diversa. Se questa organizzazione del lavoro e della produzione è funzionale agli interessi datoriali non può esserlo per gli interessi dei lavoratori il cui primo obiettivo non può che essere la pratica della solidarietà sociale discendente dalla ricomposizione della classe. All’azione datoriale di parcellizzazione deve corrispondere allora una pratica sindacale di riconoscimento e ricomposizione speculare ed opposta. In questo quadro l’intercategorialità diviene strumento imprescindibile a livello di ogni singolo sito produttivo e di ogni amministrazione e deve andare a conformare gli stessi Cobas. Ma nel momento in cui l’obiettivo dichiarato di governo e Confindustria è la riduzione a merce del lavoro e lo sfruttamento sul territorio della risorsa lavoro al pari delle risorse naturali, è ancora l’intercategorialità la risposta più efficace per attrezzare i lavoratori nella lotta per sottrarsi alla condizione di merce a livello territoriale. Rivendichiamo dunque la validità dell’impostazione intercategoriale del S.in.Cobas consegnandone le ragioni come patrimonio di ogni futura interlocuzione.
LE R.S.U. E LA QUESTIONE DELLA RAPPRESENTANZA
Il S.in.Cobas aveva individuato come strumento prioritario le R.S.U. quale mezzo “imperfetto” attraverso il quale praticare la democrazia e la partecipazione dei lavoratori prendendo, con questo, anche realisticamente atto dei margini “istituzionali” realmente esistenti nel quadro della negazione dei diritti sindacali alle OO.SS. non concertative e perseguendone l’ampliamento attraverso la consultazione dei lavoratori nelle decisioni e richiedendo l’introduzione di forme realmente democratiche di costituzione anche attraverso l’emanazione di un’apposita normativa.
Allo stato dei fatti, di contro, ben lungi dal prospettarsi un’evoluzione in senso democratico delle rappresentanze, il complesso dell’azione del governo e delle parti sociali marcia in direzione decisamente opposta puntando allo svuotamento delle reali funzioni delle rappresentanze stesse demandandole agli apparati delle organizzazioni sindacali “che ci stanno”.
Da una parte, le materie oggetto di contrattazione da parte delle rappresentanze aziendali vengono sempre più ristrette dai contratti nazionali e, dall’altra, si assiste ad una crescente pressione da parte di Cgil-Cisl-Uil di limitare l’agibilità sindacale dei delegati e delle delegate, nella misura in cui questi mostrano spazi di autonomia rispetto a alle indicazioni degli apparati concertativi. Infatti, non solo permane il burocratico e antidemocratico 33% di rappresentanza negata al voto dei lavoratori in larga parte del privato, ma in diversi comparti del P.I. è in atto una offensiva confederale per sottrarre i diritti ai singoli delegati eletti, per assegnarli invece alla componente maggioritaria della RSU.
A questa valutazione sulla funzionalità dello strumento va aggiunta una ben più grave considerazione politica: di fronte alla frammentazione dei lavoratori di uno stesso sito produttivo sia in senso orizzontale (appartenenza a soggetti giuridici diversi tra loro) che in senso verticale (condizione giuridica individuale di ogni singolo lavoratore) le R.S.U. finiscono, nel migliore dei casi, per assumere una rappresentanza meramente “putativa”, cioè neanche delegata, di una fetta sempre più ampia se non maggioritaria del complesso dei lavoratori effettivamente occupati nel sito produttivo e comunque nel complesso dei siti produttivi intrinsecamente interconnessi al diretto conseguimento degli obiettivi produttivi di un unico committente.
Queste considerazioni non preludono ad un’ipotesi di denuncia della pratica di ricorso allo strumento delle R.S.U. - che è e resta sia da un punto di vista giuridico che da quello pratico il margine “istituzionale” dato per il godimento di una serie indispensabile di diritti e la finestra istituzionale attraverso la quale porre sul tavolo il punto di vista dei lavoratori – ma ne pongono in discussione il ruolo strategico centrale che sino ad ora il S.in.Cobas ha attribuito loro di strumento adeguato al perseguimento della democrazia sindacale.
La questione della rappresentanza e della democrazia sindacale non si limita alle sole rappresentanze aziendali o al solo diritto negato di esprimere mediante il libero voto il proprio orientamento sulle piattaforme sindacale o sulle intese firmate. È oggi imprescindibile riaprire la questione della democrazia sindacale complessivamente poiché la situazione discrimina e soffoca sempre di più le OO.SS. non filopadronali.
Con il Patto neocorporativo per l’Italia si intravvede un nuovo salto di qualità negativo su questo piano, avendo subito in alcuni casi la stessa Cgil o settori più esposti di questa, come la Fiom, un trattamento escludente. Ciò non ha fatto cambiare linea minimamente alla Cgil, che quanto prima pratica la discriminazione burocratica nei confronti delle OO.SS. di base o di rappresentanze aziendali non allineate, ma senz’altro rende il problema più sensibile politicamente e pertanto richiede una nostra iniziativa forte.
L’urgenza di un’iniziativa è peraltro una questione che non riguarda soltanto la questione democratica. La stessa necessità di attivare e reggere livelli di conflitto più adeguati allo scontro innescato da Governo e padroni, esige forme di partecipazione e coinvolgimento più estese dei lavoratori e delle lavoratrici. Non ci può essere conflitto delegato!
IL METODO PARTECIPATIVO
Riteniamo pertanto che il progetto del S.in.Cobas debba, a partire dalla condivisione della valutazione complessiva della fase, rifondarsi sulla definizione di una serie di obiettivi strategici nell’ambito di un’ipotesi organizzativa e politica innovativa che si costituisca su alcuni punti:
L’autorganizzazione non è un dato di fatto ma un obiettivo - una conquista politica: la ricostruzione di un movimento operaio maturo - che deve essere perseguita attraverso un’opportuna azione sindacale, sociale e politica.
Non vi è coincidenza tra l’autorganizzazione dei lavoratori e l’organizzazione sindacale che la promuove, la progetta e la supporta. Il sindacato non è la sommatoria dei Cobas ma lo strumento attraverso il quale i Cobas perseguono l’obiettivo strategico dell’autorganizzazione ponendo in campo gli strumenti politici e organizzativi funzionali al raggiungimento di detto obiettivo. In questo ciò che discrimina il segno di ogni scelta deve essere la pratica generalizzata della democrazia e della trasparenza all’interno di un quadro di regole condiviso e non il simulacro di un’autorganizzazione semplicemente proclamata da un quadro militante autoreferenziale.
O l’autorganizzazione è di riferimento al complesso del movimento operaio, e quindi trova gli strumenti di ricomposizione della classe, superandone la frantumazione orizzontale e verticale cui si faceva cenno prima, o si riduce ad un mero strumento di resistenza destinato ad un’inevitabile sconfitta.
In questo senso, rivendicata la validità e la funzionalità dell’impostazione intercategoriale del S.in.Cobas, va superato il concetto di Cobas aziendale/categoriale per un’idea di Cobas più adeguata alle attuali realtà sociali e produttive. Nella pratica si dovranno sperimentare strutturazioni:
a livello di sito produttivo o amministrazione, ovvero ricomprendenti al loro interno l’insieme dei lavoratori concorrenti al conseguimento dell’obiettivo produttivo di un unico committente quale che sia il soggetto giuridico da cui formalmente dipendono e quale che sia la natura giuridica del singolo contratto di lavoro individuale;
a livello di territorio riconducibile ad un quadro unitario in termine di gestione delle risorse. Dove le “risorse umane”, ridotte, al pari di quelle naturali, a merce dalla trasformazione del mercato del lavoro in atto, possano organizzarsi per imporre attraverso l’affermazione di un complesso di diritti sociali non negoziabili, il vincolo interno del territorio all’attività economica, produttiva ed amministrativa.
In questa quadro importanza strategica avranno il reale avvio e sviluppo delle Camere del Lavoro e dei Diritti sino ad ora accettate meramente in via di principio ma viste come “aggiuntive” rispetto ad un’attività quasi totalmente centrata a livello aziendale.
Un’organizzazione sindacale che si ponga l’obiettivo della ricostruzione di un sindacato democratico, di classe e di massa attraverso la promozione dell’autorganizzazione dei lavoratori, ovvero attraverso la ricostruzione di un movimento operaio maturo, deve avere la capacità, al di là della propria parzialità organizzativa, di esprimere una pratica “maggioritaria”, ovvero capace di proporsi al complesso dei lavoratori, e non ai soli “quadri operai” e alle realtà aziendali “storicamente” attrezzate, con proposte e percorsi di democrazia credibili e concretamente realizzabili.
Questi percorsi dovranno continuare ad avere come sbocco “istituzionale” le R.S.U., ma non potranno fondarsi semplicemente sull’idea, peraltro attualmente perdente, di una progressiva democratizzazione delle stesse (comunque da perseguire così come è da respingere la loro esautorazione dalle decisioni reali).
La coscienza di classe, ovvero l’elemento necessario ed indispensabile per avviare una reale processo di autorganizzazione dei lavoratori o è frutto di un’intensa e prolungata stagione di lotte o la si può conquistare solo attraverso un costante processo di autoeducazione che mostri ad ogni lavoratore l’indispensabilità di quelle lotte per il concreto miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro.
In questo senso l’esperienza della democrazia partecipativa, assunta come metodo e non come modello, costituisce un’ipotesi di lavoro concreta e praticabile sia in termini di strutturazione interna dell’organizzazione e sia quale proposta e percorso di democrazia per l’intero movimento operaio.
Questa ipotesi di metodo, nel momento in cui la fuoriuscita da destra dal quadro della concertazione si concretizza nella liquidazione dello stesso concetto di “consenso sociale” su cui si fondava la necessità dell’accordo con le organizzazioni “maggiormente rappresentative” e di quello stesso simulacro di democrazia sindacale che lo supportava, diviene l’elemento forte, alto, di una proposta politica da lanciare a 360 gradi come ipotesi di patto, ambito di consultazione, percorso di lavoro sia nei confronti del sindacalismo di base, che dei settori sensibili della Cgil e della Fiom.
Un sindacato è partecipativo se pur sostenendo il punto di vista dei lavoratori che in esso si organizzano, riconosce la titolarità vincolante non solo delle decisioni ma anche della definizione dei bisogni e delle priorità al complesso dei lavoratori facendosi carico del rispetto delle decisioni. Nella sostanza una forma partecipativa di attività sindacale non è uno strumento per creare consenso ma per trovare i meccanismi che rispondano all’immensa maggioranza dei lavoratori, di inventare nuove istituzioni attraverso scelte e rotture che facciano si che le decisioni che impegnano l’avvenire siano assunte dal numero più grande.
Una forma partecipativa di attività sindacale non è un passo indietro rispetto al concetto di autorganizzazione: nel momento in cui il S.in.Cobas prende atto dell’impraticabilità in termini generalizzati di questa modalità, individua il percorso necessario alla sua conquista.
Alla base della partecipazione vi è un semplice concetto: i lavoratori sono abilitati a fare una diagnosi delle loro condizioni di lavoro, sono i lavoratori che possono esprimere meglio i loro bisogni ed avanzare le proposte per risolvere le loro difficoltà. E’ sempre possibile e necessario coinvolgere i lavoratori, e questi sono pronti a mobilitarsi se vedono concretamente i risultati delle loro scelte. Dunque le scelte, tutte le scelte, da quelle contrattuali a quelle “politiche”, spettano ai lavoratori e non sono appannaggio di una élite intellettuale e politica.
Questo concetto fonda la democrazia sindacale, permette il riconoscimento dei lavoratori e legittima la loro parola. Questo concetto fa si che i lavoratori prendano in mano il loro futuro, che debbano organizzarsi (autorganizzarsi) per far valere le proprie proposte, perché in una democrazia partecipativa il lavoratore deve riconoscersi ed è riconosciuto in quanto membro di un contesto sociale, di una classe e non in quanto portatore di una soggettività contrattuale. E’ così, attraverso l’emersione di un lavoratore più cosciente, più critico, più esigente, che un sindacalismo partecipativo può rappresentare la concreta modalità di una risposta alla sfida posta dalla parcellizzazione del lavoro.
Per il S.in.Cobas il sindacalismo partecipativo non è solo una forma di gestione dell’attività di organizzazione e di tutela dei lavoratori in cui i lavoratori partecipano a decidere l’attività stessa (ma la partecipazione non sostituisce le forme di rappresentanza: è una maniera di elaborare, attraverso la democrazia diretta e l’autorganizzazione, la linea e la pratica sindacale cui dovranno attenersi le stesse R.S.U.), è anche strumento di trasformazione sociale: è attraverso la diretta gestione delle questioni concrete che riguardano i lavoratori che questi acquisiscono la consapevolezza che i loro problemi non possono essere risolti tutti al semplice livello della gestione aziendale e che occorre lottare per trasformare le strutture della società. Nella sostanza il sindacalismo partecipativo si articola costantemente tra gestione e mobilitazione, che non sono in antinomia ma in cui la prima e di educazione all’altra sulla base di una prassi fondata su una gestione del possibile che alimenti la coscienza delle lotte che devono essere condotte e che possono essere vincenti.
Se un sindacalismo di tipo partecipativo non ha la pretesa di offrire una risposta definitiva, è comunque un processo aperto, un programma politico-sindacale di portata potenzialmente rivoluzionaria.