domenica 2 dicembre 2007

Emerald - Capitolo 1

Ardo di sete e mi consumo
Or via
ch'io beva della fonte perenne
a destra
là dov'è il cipresso
Chi sei tu?
Donde sei?
Figlio di Geo son io
e di Uranòs stellato
(laminetta funeraria orfica ritr. 1893 Eleutherna - Creta)

EMERALD: terzo pianeta della stella Uraneo
(Jµ6^ - 70X/-12Y/48Z/34 par/sec)
Gravità 0.923
temperatura media 291 °K
rotazione 22.476 ore standard
tempo di rivoluzione 392 giorni e 13 ore pari a 367
giorni e 14,57 ore standard
atmosfera tipo terrestre
FATTORE HOLTZEN O.945
esplorazione: 21.9 standard 2267
concessione: Mines & Stars Co. (2353)
Inizio colonizzazione: 2357
(dalla "Scheda informativa" della Marina della Confederazione - anno 2382)


Ora che l'astronave s'era interposta tra Uraneo e il pianeta, Emerald appariva come una gemma incastonata nel panno scuro degli spazi siderali.
- Suggestivo, non è vero? – il signor Ciang, l'ometto dagli zigomi sporgenti lo riscosse dai propri pensieri con la sua voce dall'accento cantilenante - L'effetto dallo spazio è stupefacente. Peccato che dalla superficie lo sia un po' meno. Mi chiederà il perché signor? ...
- Temple. Arthur Temple - rispose l’uomo neanche quarantenne, spostando, solo per un attimo, i suoi grandi occhi marroni, dall’immagine del pianeta.
- Signor Temple. Verde, null'altro che sfumature di verde. Tempo due giorni e ne avrà piene le tasche, glielo garantisco. Cielo verde, screziato di nubi d'un verde cupo, che si congiungono all'orizzonte con un mare verde brillante, o con le vette di verdi montagne spruzzate di neve - indovini un po' - verde. Una nausea, le garantisco che non si vomita solo per il terrore che anche il vomito sia verde - sorrise - Lei è convinto che io stia esagerando. Sono della compagnia mineraria ed ogni anno standard vengo per un'ispezione. E lei, come mai arriva a Emerald?
- Archeologia - rispose dopo un attimo, girando verso l’altro il volto, incorniciato da una curata barba castana, che voleva dare un minimo di autorevolezza a quel viso, ancora troppo giovanile.
- Archeologia? Su Emerald? - Il signor Ciang allungò il collo per osservarlo in viso – Ma, a quanto mi risulta, il pianeta è stato colonizzato da non più di venticinque anni e non vi è alcuna traccia di civiltà indigene.
- Altrimenti voi sareste i primi ad essere informati, non è vero, signor Ciang?
- La prego di non considerare le nostre due attività in contrapposizione, signor Temple. La compagnia è consapevole delle leggi della Confederazione.
- Si rassicuri, sono qui per incontrare un collega.
Arthur prese ad ostentare un esclusivo interesse per l'insolito panorama spaziale, sperando che il signor Ciang si ritirasse in buon ordine.
- Non crede anche lei, signor Temple - riprese invece il signor Ciang, con una vena di ossequiosa petulanza, o almeno tale l'avvertì Arthur - che la monocultura economica sia l'unico strumento realistico per una colonizzazione nella fase iniziale?
- Non sono un esperto in economia - si schernì Arthur.
- Ma converrà con me che i costi dei viaggi e dei trasporti interstellari sono tali da rendere più che legittimo l'esclusivismo economico...
- Intende quel che di fatto fa la Confederazione affidando ad una compagnia come la sua la totale gestione di un pianeta?
- Ma solo fin tanto che le strutture del pianeta non divengano autosufficienti.
- E nell'attesa, società come la sua, signor Ciang, incamerano profitti astronomici.
- Anche i costi lo sono, signor Temple. Nella fase pionieristica, come quella in cui si trova Emerald, chi e come dovrebbe sobbarcarsi i costi per il trasporto di decine di migliaia di entusiasti, disperati e sognatori dai più sperduti angoli della Confederazione? Come potrebbe qualche centinaio di migliaia di coloni rendere tecnologicamente autosufficiente il pianeta?
- Mi sta dicendo che la Mines & Stars è un'organizzazione filantropica?
- Gli immensi giacimenti di metalli pesanti di Emerald sono un adeguato incentivo per la compagnia, signor Temple - rispose sorridendo il signor Ciang - Mi permetta di diffidare di incentivi più altruistici o, forse, semplicemente più nascosti.
- Le ho già detto di non intendermi di economia, signor Ciang. Ma da profano, se vuole da studioso di cose inutili come è la storia...
- La prego di non attribuirmi una simile frivolezza - lo interruppe il signor Ciang.
- Ma si figuri, sono io, che sentendola parlare, mi domando in quale razionale e perfettamente ragionevole formula economica, sia possibile collocare la spesa d'una spedizione archeologica. Sfruttamento turistico del sito? Indotto editoriale e universitario che su se stesso, come una sorta di uroboro, finisce per creare un circuito virtuoso e virtuale che ...
- Non si prenda gioco di me.
- Non è mia intenzione, signor Ciang. Ma poco fa mi sono venuti in mente ... direi quasi che ne abbia sentito la protesta nelle orecchie, quelle decine di pianeti esplorati e abbandonati in questi tre secoli di nostri vagabondaggi nel cosmo. Pianeti abitabili, più o meno gradevoli, dal fattore Holtzen tanto alto da costituire da solo un irresistibile spot pubblicitario ...
- Emerald ha un fattore altissimo, 0.945, prossimo all'unità. E se si esclude questo curioso ma fisiologicamente innocuo viraggio al verde della luce ...
- Ma quanti Emerald sono stati scartati, perché non erano altrettanto allettanti per i profitti immediati di questa o quella compagnia?
- Non si può prescindere dal rapporto costi/benefici - scosse la testa il signor Ciang.
- Mi spiace, ma non possiamo capirci, mio caro signore - sospirò Arthur - Vede, lei sembra affetto da quella malformazione degli occhi che, se non erro, un tempo si chiamava miopia e non consentiva di vedere le cose lontane. Mentre io, da buono storico, sembro affetto dalla malattia contraria, la ipermetropia, e non riesco a vedere le cose vicine. Lei si preoccupa di chiudere il bilancio in pareggio ogni sera. Mi perdoni l'ardire di questa rozza metafora economica. Mentre io, sarà perché per mestiere mi sono scelto d'andare a spulciare i bilanci delle aziende cessate, sono interessato tutt'al più al bilancio annuale. Anche se, a dire il vero, di bilanci non me ne frega niente. E comunque - continuò fermando le proteste dell'interlocutore - il condizionare all'immediato ritorno economico, l'avvio di un processo di colonizzazione, che nel futuro potrebbe apportare incalcolabili ricchezze ideali, mentali ed anche economiche all'intera umanità, attraverso la complessità e la diversità di un'intera società umana, non è semplicemente economicistico, rozzo, innaturale, ingiusto. E' fondamentalmente stupido.
Il sorriso del signor Ciang si spense e, questi, dopo un cenno di formale inchino, si ritirò.
Arthur si rimproverò d'aver perduto la pazienza, ma con sollievo poté tornare ai propri pensieri e all'enigma che era alla base di quel suo viaggio.
La sua sorpresa era stata grande quando aveva ricevuto a New Yale quello strano messaggio di Jhob Crhistiansen, il suo amico e collega all'Istituto di Archeologia dell'università, un biglietto sibillino: "Ho trovato la torre nell'uovo di Phanes".
E poi quel testo di una laminetta funeraria orfica dell'antica Grecia di Terra, il pianeta originario, da cui l'umanità s'era affrancata due secoli prima, colonizzando già, al momento, una ventina di pianeti.
Per lui, che considerava come genialità l'apparente stravaganza dell'amico, si era rivelata una sorpresa che era stata sufficiente a convincerlo ad imbarcarsi in quell'impresa che, al momento, appariva senza un capo ed una coda.

Emerald - Capitolo 2

Discese sul pianeta con la navetta dell’astronave.
La cinquantina di poltrone dell’area passeggeri erano pressoché totalmente occupate da tecnici e amministrativi della Compagnia.
E in realtà, se si comprendeva anche il gruppetto di scienziati - reclutati anch’essi dalla compagnia per un progetto, che Arthur non aveva ben compreso, né si era curato di comprendere - egli sembrava essere il solo turista. Il solo, comunque, senza un legame di dipendenza con la concessionaria del pianeta.
Emerald City si trovava nella zona temperata, al centro d'un ampio golfo della costa occidentale del grande continente, Pangea, che da solo rappresentava una buona metà dell'intero pianeta e di fatto la totalità delle sue terre emerse.
Osservando la città dall’oblò, mentre la navetta planava dolcemente, credette di intuire la ragione della propria unicità: il panorama non poteva certo dirsi invitante.
- Quella alla sinistra – disse il signor Ciang, protendendosi in avanti verso l’oblò, e facendo mostra d’aver dimenticato la scortesia di Arthur - è la zona residenziale, con a sud, nella zona dello spazioporto, il quartiere amministrativo e degli ospiti, dove potrà trovare un alloggio. Mentre quella a destra è la zona produttiva. Guardi laggiù – ed indicò delle grandi torri e tralicci, che si stagliavano in lontananza – dove si vedono quelle grandi strutture metalliche. Lì ci sono gli ingressi dei pozzi estrattivi. Avanti si vedono gli impianti di lavorazione dei metalli grezzi e lì, sul lato commerciale dello spazioporto, quelli sono i magazzini per le spedizioni.
- Un’organizzazione molto razionale – fece Arthur, cercando di essere cortese, mentre uno sgraziato cargo commerciale si sollevava dalla sezione commerciale della sterminata piattaforma di cemento dello spazioporto.
- Ci sono ventisei corridoi aerei – riferì soddisfatto il signor Ciang - che consentono il trasferimento, da un qualsiasi punto della città ad un altro, in meno di sette minuti standard. Tutti gli impianti produttivi e tutti gli isolati residenziali sono dotati della loro mensa. Per la Mines & Stars – concluse soddisfatto – è un punto d’onore ottimizzare i tempi e gli spazi.
- Non lo metto in dubbio – sussurrò Arthur, sgomento alla vista di quella congerie di strutture senza grazia.
- Come c’è finito, Jhob? – pensò – E, soprattutto, cosa ci ha trovato?
Aspettò diligentemente che i passeggeri dinanzi a lui liberassero il corridoio e, seguendo il signor Ciang, si avvio al portello.
Sui primi gradini della scaletta si fermò, sconcertato dalla strana luce del pianeta.
- L’avevo avvertita – gli disse il signor Ciang, che s’era girato e gli sorrideva – Non si preoccupi, ci si fa rapidamente l’abitudine. Come del resto a tutto, non è vero signor Temple?
Gli ripose con un cenno della mano, mentre assaporava l’aria, impercettibilmente, ma inequivocabilmente diversa e, comunque, gradita dopo l’asettica atmosfera dell’astronave.
Discese guardandosi attorno.
La navetta s’era posata nei pressi del terminal passeggeri, con i suoi grandi finestroni ogivati e polarizzati.
Avviandosi al terminal, si rese conto che quell’area rappresentava solo una piccola zona dello spazioporto.
Un piccolo spicchio separato, da una parte, dall’area commerciale, dove fervevano le operazioni di carico di almeno cinque mastodontici carghi, e, dall’altra, da un’area delimitata da campi di energia, che emanavano lungo il perimetro fasci di luce verdognola.
Incuriosito, stava per chiederne la ragione al logorroico signor Ciang, quando, con un’elegante parabola, che ne contraddiceva la struttura, un cargo piombò dal cielo, per posarsi al centro di quell’area.
Nel giro di pochi secondi sei mezzi di superficie planarono a circondare il cargo e ne discesero alcune decine di uomini in divisa nera, completa di casco integrale, e storditori alla cinture.
Il ventre del cargo si aprì, rivelando una larga passerella, dalla quale iniziarono a discendere, incerti, uomini, donne, bambini.
- Immigrati – informò Ciang – con ogni nave ne arrivano circa tremila. Quel cargo dovrà fare cinque, sei viaggi per sbarcali tutti.
Arthur si fermò a guardare.
Gli uomini in nero gridavano ordini e, con gesti imperiosi, invitavano quella gente a fare in fretta.
Nel giro di pochi secondi qualche centinaio di esseri umani era raggruppato in un angolo ed il cargo, richiamata la passerella, si sollevò con una rapida accelerazione.
Uno degli uomini in nero, con una pompa, spruzzò una nebbiolina gialloverdastra su quella varia umanità. Un bambino iniziò a piangere.
- Ma cosa?!
- Disinfestazione – l’informò il signor Ciang – Lei non può capire la quantità di germi che si riproducono nelle stive delle astronavi, con migliaia di individui che, per settimane, convivono in così poco spazio. Una volta nel terminal immigrazione, prima della selezione, verranno sottoposti ad una doccia più radicale.
Gli uomini in nero gridavano ora nuovi ordini e il gruppo degli immigrati si divise, non senza deboli resistenze, con gli uomini su un lato e le donne con i bambini sull’altro.
Incolonnati, i due gruppi si avviarono a piedi verso il terminal di quel settore, distante un centinaio di metri.
- Cosa sono quei fasci di energia?
- Campi di forza – rispose il signor Ciang – per evitare sconfinamenti.
- In che senso, sconfinamenti?
- Non si preoccupi, signor Temple, non sono mortali – lo prevenne sorridendo il signor Ciang – Servono a prevenire l’immigrazione clandestina. Chiunque arrivi per lavoro su Emerald, deve aver sottoscritto un contratto preliminare con la Mines & Stars, che si fa carico delle spese di viaggio. Col preliminare, ogni individuo impegna se stesso ed eventualmente i propri familiari minori, ad un periodo di lavoro non inferiore a cinque anni standard per conto della compagnia, nel servizio scelto, a loro insindacabile giudizio, dai selettori della stessa compagnia.
- E poi?
- Chi ha onorato il contratto ed ha saldato i debiti con la compagnia per il viaggio, il vitto e l’alloggio, è libero di fare quel che più gli aggrada – sorrise con un lieve inchino il signor Ciang
- Anche di ripartire da Emerald?
- Se ha i crediti per pagarsi il viaggio – rispose con un’alzata di spalle il signor Ciang.
- Ma chi impedisce a una persona di andare per i fatti suoi, una volta superata la dogana?
- La compagnia è autorizzata ad inserire in ogni individuo un segnalatore radio subcutaneo, in grado di indicare in ogni momento, al sistema di controllo centrale, la posizione di quell’individuo. Prima che sia uscita dal terminal immigrazione, ognuna di quelle persone, mi creda signor Temple, avrà il suo bravo segnalatore.

Emerald - Capitolo 3

Entrato nel terminal "passeggeri", s'avvio alle cabine doganali d'identificazione, con il disagio tipico del viaggiatore occasionale.
L'attesa fu solo di un attimo, poi la porta si rivelò scorrendo sulla sinistra
- Prego s'accomodi - la voce digitalizzata dell'unità di controllo parve soccorrere la sua indecisione.
Arthur entrò e la porta si richiuse alle sue spalle.
- Prego si sieda.
Arthur si sedette inquieto.
- Nome
- Arthur Temple
Lievi ronzii gli rivelarono che le macchine esperivano sommessamente gli accertamenti e i rilievi previsti
- Pianeta e data standard di nascita
- Terra 3.1.2344
- Provenienza
- New Yale - Continente universitario
- Professione
- Docente Universitario
- Specializzazione
- Archeologia terrestre
- Motivo della visita
- Visita ad un collega
- Nome
- Jhob Crhistiansen
Più che terminata, l'indagine parve ad Arthur interrotta sul nome dell'amico e, dopo alcuni secondi di completo silenzio, la voce riprese a parlare, mentre contemporaneamente una porta si apriva alla sua destra.
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla doppia riga, grazie.
Un lieve senso d'allarme lo percorse: per quanto non fosse un viaggiatore abituale, si rendeva conto che quella non era la procedura ordinaria.
- Cosa, cosa è avvenuto?
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla doppia riga, grazie.
- Sono un libero cittadino della Confederazione ed esigo ...
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla doppia riga, grazie.
- Senti coso - sibilò- io già non sopporto questa sorta di stupro elettronico ...
- Prego, professor Temple, segua il corridoio delimitato dalla doppia riga, grazie.
- All'inferno! - sbottò Arthur, dandosi dello stupido per quel suo discutere con una voce sintetica e s'avviò, coprendo con la rabbia il senso d'inquietudine.
Il corridoio si snodava, lungo.
Ebbe il tempo di pensare agli immigrati, accalcati in attesa della selezione.
Tra i campi di forza, quella biblica moltitudine pulsava in attesa, come un grande animale ferito e sofferente, dopo un viaggio, in condizioni subumane, nei ponti inferiori dell'astronave.
Arthur mitigò la propria rabbia, con la consapevolezza della condizione privilegiata di turista, tanto che, giunto al termine del corridoio all'ingresso d'un ufficio, all'inquietudine s'accompagnava ormai l'indignazione.
Entrò deciso.
- S'accomodi, Professor Temple. Sono il capitano Gile.
Un uomo sulla cinquantina, dall'altro lato di una scrivania, l'invitava a sedersi su una poltrona.
- Senta lei, io sono un libero cittadino della Confederazione e non intendo tollerare che la polizia privata di una compagnia mineraria qualsiasi, dopo avermi intimamente profanato nelle mie caratteristiche e nelle mie miserie - Cristo, va bene, lo ammetto, sono un essere transitorio e temporaneo, va bene? - mi ...
- Si calmi Professor Temple, e si sieda. Le chiedo scusa personalmente e a nome della Mines & Stars, ma ora si sieda.
Dopo un ulteriore attimo di indecisione, Arthur si sedette.
- I nostri metodi di identificazione sono i metodi standard approvati dalla Confederazione e la nostra polizia opera sulla base dell'atto di concessione rilasciato della stessa Confederazione.
- Nell'interesse di chi? Della Confederazione o della Compagnia?
- Su Emerald, professor Temple, i due interessi coincidono.
- E cosa mi dice di quei poveri disgraziati.
- Gli immigrati?
- Già, come li ha definiti un vostro ispettore? Entusiasti, disperati, sognatori. Che ora se ne stanno lì, inquadrati come animali da macello, su questa sorta di Rupe Tarpea...
- Prego?
- Lasci perdere. Se ne stanno lì e ora i loro sogni, i loro ricordi, le loro ferite, il pulsare stesso di quel grumo di carne e sangue che sono, non conta nulla, nulla. È tutt'al più un fattore di rendimento per giudicare la loro qualità di carni da miniera. Voi non siete altro che un'estensione meccanico-contabile di un consiglio di amministrazione. E questo sarebbe l'interesse della Confederazione? Dell'umanità? Ma si rende conto di quanta forza vitale si disperde scaraventata giù da questa rupe?
- Non siamo così orribili, professor Temple.
- Infatti, è vero. Sant'Iddio, siete solo realisti, tragicamente realisti da compromettere tutte quelle possibilità.
E la sua indignazione si spense nel vago gesto rivolto oltre la porta.
- Lei è un archeologo, professor Temple, uno studioso. Pensi alle memorie dei suoi computer e lasci a noi, individui poco raccomandabili, le miserie quotidiane - Arthur represse una dura risposta - Lasci invece che le dica il motivo per il quale l'abbiamo convocata non appena è stato identificato. Lei ha dichiarato di essere giunto su Emerald per incontrare il professor Crhistiansen, un suo collega.
- Esatto.
- Ebbene, professor Temple, benché lei abbia or ora espresso un giudizio così poco lusinghiero sui nostri sistemi di identificazione e controllo. Che a quanto mi è parso di capire, giudica eccessivamente, come dire, polizieschi. Debbo informarla che il professor Crhistiansen è scomparso senza lasciare alcuna traccia di sé da circa tre mesi, tempo di Emerald, si intende.
- Come ... scomparso?
- Il Professor Crhistiansen godeva, come lei, di un permesso di soggiorno turistico, professore, e pertanto, al di là del segnalatore radio subcutaneo, non era tenuto ad alcun altro sistema di identificazione e ricerca. Per quanto ne sappiamo, si era recato nella regione di Aither...
- Aither?
- Si, è una regione dall'altra parte di Pangea, sulla costa orientale dell'emisfero australe. Una costa molto frastagliata, ricca di scogliere e fiordi.
- Chronos fabbrica nel seno di Aither l'uovo da cui nasce Phanes ... – borbottò, socchiudendo gli occhi Arthur
- Dice?
- Niente, solo memorie che escono dai miei computer.
- La zona è estremamente pericolosa Sia perché in buona parte poco conosciuta e sia perché soggetta, come del resto tutta la costa orientale, a violente tempeste, cicloni ed altre amenità del genere.
- Ma perché si è recato in quel posto?
- Questo, mio caro professore, non siamo in grado di dirglielo. Perché, per quanto pensiate male di noi, il professor Crhistiansen e lei, nessuno di voi è tenuto a dirci perché si reca in questo o quel luogo di Emerald. Certo è che una volta usciti dalle aree delimitate dalla Compagnia, non si gode più della sua protezione complessiva.
- La regione di Aither è fuori delle aree della compagnia?
- I nostri insediamenti sono al momento tutti sul lato occidentale della dorsale di Pangea. Principalmente per il fattore climatico. Ma è comunque possibile raggiungere la costa orientale con qualche trasportatore indipendente. Ce ne sono molti a Emerald City, con le loro vecchie carrette. Il Professor Crhistiansen aveva affittata quella di un certo Klaus Berensky, un tipo esperto della costa orientale.
- Cos'è successo?
- Non lo sappiano. Circa tre mesi fa, come le ho detto, sia il suo segnalatore radio, che quello del Berensky, hanno cessato di trasmettere il segnale.
- Non potrebbero essersi guastati?
- Contemporaneamente? E comunque non sono stati neanche estratti. Questo avrebbe causato la variazione della frequenza del segnale. Hanno semplicemente cessato di trasmettere.
- Come è possibile?
L'uomo alzò le spalle:
- Allo stato non ci sono spiegazioni. La compagnia ha inviato una spedizione di ricerca, ma senza alcun risultato. Del suo collega e della sua guida non è stata trovata alcuna traccia.
- Capisco.
- Cosa intende fare, professor Temple?
- Adesso non so. Devo capirci qualcosa, Ma se non avete altro da dirmi, penso che finirò per affittare un mezzo e raggiungere la regione di Aither.
L'uomo sorrise.
- La Compagnia, oltre che avvisarla, non può fare altro. Non può impedirle di porre a repentaglio la sua vita. L'informo, comunque, che quella del suo collega è la settima scomparsa recente avvenuta in quella zona. Se ha ancora intenzione di continuare, buona fortuna professore.
Appena il professor Temple uscì dal suo ufficio, il capitano Gile digitò un codice interno alla consolle. Qualcuno gli rispose.
- E’ appena uscito dal mio ufficio.
- E il segnalatore? – chiese l’immagine.
- Soprassediamo – rispose Gile ed aggiunse, quasi a spiegare a se stesso – Non è il caso di irritarlo ulteriormente. Lasciamogli credere di potersi muovere liberamente. Questo ci porterà più facilmente a qualcosa.
- Bene.
- Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, per agire – e chiuse la comunicazione.
Rilassò le spalle contro lo schienale della sedia. Incrociò le dita delle mani, giunte dinanzi alla bocca. Osservò un punto oltre la porta del suo ufficio e si concesse un mezzo sorriso.
Le cose iniziavano a muoversi.

Emerald - Capitolo 4

Arthur perdette ancora quasi un’ora standard per completare le procedure doganali.
Quando, finalmente, uscì dal terminal passeggeri dell’astroporto, nel piccolo, anonimo piazzale, non c’era più nessuno.
Si guardò intorno, inquieto, chiedendosi che fare, quando:
- Finalmente, signor Temple. – il piccolo signor Ciang lo sorprese sbucando alle sue spalle – Ce ne avete messo del tempo!
- Oh, è lei! – esclamò Arthur - Come mai ancora qui?
- Un semplice dovere di cortesia – rispose l’altro con un lieve inchino – Non vedendola ho capito che avrebbe perso la navetta per l’albergo e, considerato che, per lei, questo è il primo viaggio sul pianeta, ho deciso di attenderla, per accompagnarla all’Emerald’s Door, l’albergo degli ospiti.
- Davvero molto gentile – disse Arthur, sinceramente sollevato – Spero che la cosa non le sia di troppo disturbo.
- Si figuri – lo rassicurò il signor Ciang – E’ anche il mio recapito, quando sono a Emerald City – e chinandosi verso Arthur, con un mezzo sorriso complice, aggiunse – Non che del resto ci siano alternative.
- Come? – scherzò Arthur – mi sembra di sentire dalle sue labbra una sorta di critica alla Mines & Stars!
- Il lavoro è il lavoro, signor Temple. Ma diciamo che, potendo scegliere, conosco destinazioni decisamente più gradevoli. Vogliamo andare? L’albergo è a poche centinaia di metri e, nell’attesa, mi sono permesso di farci precedere con la navetta dai bagagli.
- Faccia strada – rispose Arthur e s’avviarono.
Uraneo, in un fulgore verde smeraldo, s’avviava al tramonto.
I due camminavano tranquilli, in un largo viale che correva tra due teorie di edifici tozzi e squadrati d’un grigioverde sporco.
Non c’era nessuno sulla strada e gli edifici, sbarrati e senza luci, sembravano disabitati.
- Sono uffici – spiegò il signor Ciang – Dopo l’orario di chiusura, da queste parti passano solo i mezzi della sorveglianza.
Arthur assentì con la testa, mostrando di aver capito, ma si sentiva a disagio.
Come aveva detto il signor Ciang, dopo poche centinaia di metri, la luce del monogramma della Mines & Stars, su una vetrata polarizzata, annunciò il loro arrivo all’Emerald’s Door.
L’edificio, dall’esterno, era del tutto simile agli altri della zona e, quando varcarono la soglia, si ritrovarono in un vasto atrio anonimo e spartano.
Alla reception li accolse una donna attempata dall’aria scialba che, salutato come una vecchia conoscenza il signor Ciang, ebbe un guizzo di curiosità all’indirizzo di Arthur.
- Lei deve essere il signor Arthur Temple. – disse – Abbiamo avuto l’avviso del suo arrivo dallo spazioporto. Ho fatto portare i suoi bagagli nella stanza. La 228 – e gli porse la tessera magnetica - Mi auguro che si possa trovare bene sul nostro pianeta. Per lei, signor Ciang, abbiamo la solita camera, la 128.
- Salve Annie – fece il signor Ciang, prendendo la scheda magnetica della sua camera – Ti trovo in forma. Ma non eri in scadenza di contratto?
- Ho sottoscritto un’altra cinquina – rispose la donna con un mezzo sorriso sulle labbra – Del resto, ormai, non saprei dove andare. Questa è la mia vita – Concluse con un’alzata di spalle.
- E la Compagnia è una grande famiglia – aggiunse il signor Ciang.
- Che lei sappia – chiese Arthur alla donna, cogliendo l’occasione al volo per avere qualche notizia – un certo Jhob Crhistiansen, ha alloggiato qui?
- Il professore? Ma certo. – rispose la donna – Un uomo così simpatico e una così brava persona! Una tremenda disgrazia! Lo conosceva?
- Sono suo amico. Sono qui praticamente su suo invito – rispose Arthur – Ma perché parla di disgrazia? Allo spazioporto mi hanno detto che non si hanno notizie, non che sia avvenuta una disgrazia.
La donna parve confusa e quasi balbettò:
- Ma un viaggio nell’Aither … e con una carretta …
Il signor Ciang s’intromise con discrezione:
- Quel che Annie ha voluto dire, se interpreto bene il senso delle vostre parole, è che è estremamente probabile che la ragione della mancanza di notizie del suo amico, sia da attribuire a qualche incidente. I luoghi e le condizioni climatiche dell’Aither possono solo avvalorare questa ipotesi. Naturalmente, c’è da augurarsi un’altra e meno traumatica ipotesi. Comunque, – aggiunse premuroso, con l’ennesimo, breve inchino – se in questa circostanza posso esserle d’aiuto, signor Temple, io sono a sua disposizione.
Arthur lo ringraziò e tornò ad interrogare la donna:
- Ricorda qualcosa, un particolare qualsiasi, di quando è partito per quel viaggio.
- Non so – rispose la donna – Sono passati diversi mesi. Non era la prima volta che il signor Crhistiansen partiva con quel Berensky. No, non mi sembra che sia successo qualcosa di particolare … Ricordo che, nell’uscire, mi avvertì che sarebbe rimasto fuori diversi giorni … nient’altro. Mi dispiace.
- E’ possibile vedere la sua stanza? – chiese ancora Arthur.
- Dopo tutti questi mesi? – fece la donna, sinceramente stupita – Ma è stata liberata qualche settimana dopo la scomparsa – e quasi a scusarsi con Arthur – Sono le procedure standard della Compagnia.
- Certamente, Annie, è ovvio – si intromise nuovamente il signor Ciang - Ma gli effetti personali dell’amico del signore – chiese – saranno pur stati trattenuti?
- Oh, certo, sono conservati qui, dietro la reception – rispose prontamente la donna, come a sottolineare l’irreprensibilità del servizio.
Il signor Ciang guardò sorridendo Arthur:
- Desidera dar loro un’occhiata?
- Ve ne sarei davvero grato.
- Annie, crede che potremmo usare questa cortesia al signor Temple?
- Se ne assume lei la responsabilità? – chiese la donna, appena tentennante.
- Naturalmente – rispose l’uomo.
La donna, rassicurata, attraversò una porta che si apriva dietro la reception, per ricomparire poco dopo con un contenitore plastico di non grandi dimensioni, che depose sul banco. Prelevò dalla rastrelliera alla sua destra una chiave magnetica e la porse al signor Ciang, che la prese con un lieve inchino.
Sistemarono il contenitore su un basso tavolino della sala, al momento completamente deserta, e il signor Ciang fece scattare la serratura.
Arthur iniziò ad esaminare il contenuto, mentre il signor Ciang si teneva in disparte, con discrezione.
A parte alcuni indumenti ed oggetti di uso comune, vi era ben poco.
Evidentemente Jhob si era portato computer e memorie dietro, nella spedizione.
Oltre ad una storia di Emerald su supporto elettronico del Centro Studi Emeraldiani della Mines & Stars Co., c’erano solo alcuni oggetti, inusitati e inusuali per i più, ma non per l’amico, come ben sapeva Arthur.
Erano le copie anastatiche, realizzate su indistruttibile sintocarta, di alcune pagine di libri, la cui stampa doveva risalire ad almeno tre secoli prima.
C’era una ricostruzione delle rapsodie orfiche operata dal Lobeck, sulla base del racconto di Damascio, un neoplatonico del VI secolo avanti cristo.
E un frammento di Pausania riferito a Onomacrito, ovvero a colui cui è attribuita l’introduzione dei misteri orfici in Atene, al tempo di Pisistrato.
Vi era, infine, il Pentemuchos di Ferecide di Siro.
Quello non era il settore di competenza di Arthur, specializzato in civiltà andine precolombiane, ma ne sapeva abbastanza per esserne ancora più sconcertato.
Perché l’amico s’era portato in quel viaggio, a Emerald, quelle preziose copie, che sarebbero state certamente più al sicuro nei suoi uffici, all’università, su New Yale?
A cosa gli servivano quei testi, che ricostruivano le diverse cosmogonie orfiche ed i miti fondativi di quella religione misterica sorta, cresciuta ed estintasi da quasi due millenni, a 34 parsec di distanza da Emerald?
- Ha trovato qualcosa? – chiese discretamente il signor Ciang alle sue spalle.
- Non so … Sinceramente non capisco – rispose Arthur
- Se non sono indiscreto – insistette, sommessamente l’altro – Cosa sono quelli?
- Riproduzioni di documenti. Jhob è specializzato in alcuni settori della Grecia classica, sulla Terra. E’ materiale di lavoro – si tenne sul generico Arthur.
- E che ci fa con quel materiale su Emerald?
- E’ quel che vorrei capire – rispose Arthur – Vorrei esaminarli con calma, se possibile.
- Credo di poter convincere Annie – fece il signor Ciang sorridendo – A patto che mi tenga informato delle sue scoperte. Qualche piccolo mistero è quel che ci vuole, per ravvivare la grigia vita di un povero ispettore.
- E’ stato così gentile, che non potrei rifiutarle nulla – rispose Arthur, a tono con l’interlocutore.
Annie si lasciò convincere abbastanza facilmente e Arthur si avviò all’ascensore con in mano i preziosi documenti e, in aggiunta, la Storia del pianeta, cui contava di gettare prima o poi un’occhiata.
Il signor Ciang scese al primo piano:
- Ceniamo insieme, signor Temple?
-Perché no? - rispose Arthur – Ma vorrei dare un’occhiata alla città. Conosce qualche buon posto dove mangiare?
- Buon posto? – il signor Ciang parve preso alla sprovvista – Buono su Emerald mi sembra una parola impegnativa … Ma qualche posto decente penso di poterlo individuare. Ci vediamo all’ingresso tra un’ora?
- Va bene, tra un’ora.

Emerald - Capitolo 5

Il signor Ciang si era procurato un piccolo mezzo a cuscino d’aria, su cui spiccava, in fiammanti lettere verde-oro, il monogramma della Mines & Stars Co. Così come sulla tuta ad un pezzo dell’autista.
- Lei, signor Ciang – disse Arthur – è un uomo pieno di risorse.
- Nei limiti del possibile – si schernì l’altro.
- Ho l’impressione che, su Emerald, un mezzo come questo sia riservato ai grossi papaveri.
- Ai quadri della Compagnia – lo corresse il signor Ciang – Un piccolo vantaggio per chi viene dalla sede centrale e alla sede centrale tornerà, con un resoconto da riferire – precisò esibendo il suo sorriso.
Ciang diede la destinazione all’autista e il mezzo si mosse con una dolce accelerazione.
Arthur si rilassò sul suo sedile, gettando uno sguardo alle strade che attraversavano risalendo la città.
Usciti dalla zona degli uffici, il mezzo prese un largo viale che svoltava a sinistra, per poi progressivamente piegare costantemente verso destra.
Ricordando la visione della città avuta dalla navetta, Arthur intuì che il viale seguiva l’andamento della parte residenziale della città, tenendosi ai suoi margini, in quella che si sarebbe detta la sua fascia periferica.
Gli edifici non erano dissimili da quelli che aveva già visto, solo un po’ più piccoli, ma sempre di quel triste grigio-verde.
Poche le persone in strada, quasi inesistenti i veicoli.
Tutto era illuminato da una luce fredda.
- E’ tutto così allegro, a Emerald City? - chiese
- Deve capire che qui, venticinque anni fa, non c’era nulla – ripose il signor Ciang – Non c’era neanche nessun colono. E’ stato costruito tutto dal nulla e la maggior parte delle cose sono state trasportate dallo spazio, dai pianeti interni. E’ chiaro che si è pensato per prima cosa all’indispensabile.
- Ma la cultura, la bellezza – chiese quasi a se stesso Arthur – sono superflue?
- Emerald City ha un’ottima biblioteca e un buon canale olografico con ottimi programmi, anche culturali, signor Temple. I programmi di istruzione per i ragazzi sono forzatamente di carattere prevalentemente tecnico. Hanno la necessità di cominciare ad autoprodurre i quadri intermedi. Ma l’istruzione è sostanzialmente completa.
- Beh, immagino – fece Arthur, con una venatura caustica – che per un po’ di memorie, lo spazio, addirittura qualche decina di centimetri cubici, su quelle piccole astronavi mercantili, la Mines & Stars, sia riuscita a ricavarlo.
- Non sia ingiusto, signor Temple. In venticinque anni su Emerald sono arrivati quasi centocinquantamila coloni. E’ stata costruita questa piccola città, in cui abitano circa quarantamila persone. Sono stati realizzati venti impianti estrattivi con altrettanti insediamenti, più piccoli di Emeral City, ma sostanzialmente autosufficienti. E’ stato realizzato un sistema di trasporti sub orbitale tra gli insediamenti e l’astroporto e trentotto fattorie, in cui lavorano più di ventimila coloni, per provvedere alle necessità alimentari dell’intera popolazione di Emerald. Non crede che dovrebbe concedere alla Mines & Stars quantomeno il tempo di completare il suo lavoro, prima di emettere sentenze definitive?
- Mi arrendo, signor Ciang – esclamò Arthur, sollevando scherzosamente le braccia - Chiedo scusa alla Mines & Stars e al suo onorevole consiglio di amministrazione.
- Accetto la sua resa – rispose a tono l’altro – A patto che sia senza condizioni.
Sorrisero
- Siamo quasi arrivati – fece il signor Ciang, guardando fuori dal finestrino.
Il mezzo si fermò dinanzi al solito edificio anonimo, con il luminoso monogramma della Compagnia, fiammeggiante, sul vetro polarizzato dell’ingresso.
Come per l’Emerald’s Door, anche in questo locale, non vi era alcuna insegna che l’identificasse.
- Nessun insegna, nessun nome? – chiese, Arthur
- Come? – rispose perplesso l’altro.
- Come fa, qualcuno, a sapere che questo è un ristorante?
- Capisco. Lei deve tener ben presente che su Emerald non capitano molti … turisti. Mi scusi, mi veniva da dire, estranei. E tutti qui sanno che questo è il ristorante di Emerald City.
- Il…?
- Già, questo è l’unico ristorante di tutta Emerald City. Gli abitanti, anche i quadri, normalmente usufruiscono delle mense. Il cui menù sarà poco fantasioso, ma è comunque sostanzioso e, soprattutto, economico. Una cena alla carta al ristorante è una follia da fare nelle grandi occasioni.
- Mi sta preoccupando. Lo stipendio di un professore universitario non è certo da nababbi.
- Non si preoccupi di questo – si affrettò a rassicuralo il signor Ciang – Lei questa sera è mio ospite.
- Ma non posso permettere …
- Addebiterò i costi sulle spese di rappresentanza. Del resto, è ormai divenuto un punto d’onore, per me, farla ricredere sulle buone intenzioni del mio datore di lavoro – non potendo profondersi nel solito inchino, fece una breve flessione del capo - che si accollerà di buon grado la copertura della spesa.
- Se le cose stanno così – rispose Athur – sono ben felice di accettare.
- Non si faccia troppe illusioni – sussurrò in un sospiro il signor Ciang, varcando la soglia.
Il locale, confortevole, per gli standard che Arthur aveva ormai attribuito al pianeta, era quasi deserto.
Nella luce discreta e diffusa, solo un paio di tavoli erano occupati da coppie, che mangiavano chiacchierando sommessamente.
Si sistemarono in un tavolo, adeguatamente distante rispetto a quelli occupati, e persero qualche minuto per fare le ordinazioni sul menù elettronico.
Mentre attendevano che la cucina sfornasse i piatti, il signor Ciang avviò la conversazione.
- Lei è venuto su Emerald per il suo amico, ho sentito.
- Già – rispose Arthur – è proprio così.
- Anche il suo amico è professore universitario, un archeologo – aggiunge il signor Ciang, come a ricostruire i dati in suo possesso, per poi continuare – Scusi la mia curiosità, ma sono sinceramente perplesso. Non capisco come un archeologo possa avere interesse in un pianeta che non ha e non ha mai avuto una civiltà di un qualunque tipo, anzi, che non ha mai sviluppato alcuna forma di vita animale autoctona. Perché lo sa, non è vero signor Temple, che su Emerald, le uniche forme di vita che si sono sviluppate sono tutte vegetali?
- Si, l’ho letto – rispose Arthur.
- Non credo, come non lo crederà neanche lei, dopo queste poche ore ad Emerald City, che il suo amico possa aver deciso di prendersi un periodo di vacanza proprio qui. E allora, che ci faceva su Emerald
- Vorrei saperlo anch’io – rispose Arthur – Ma non ne ho la minima idea.
- Ma ha risposto ad un suo invito – protestò con tono lieve.
- Si, ma era una cosa alla Jhob … Diciamo che il mio amico è un eccentrico, che ama parlare per enigmi ed allusioni. Mi ha inviato citazioni del suo campo di ricerca … gliel’ho detto, la Grecia del primo millennio avanti Cristo, ma senza una riga di spiegazione.
- Però è stato sufficiente a farla partire. E a tentare di raggiungerlo in questo posto sperduto dell’universo.
- Jhob sarà un eccentrico, ma è anche una persona eccezionale. Se mi ha inviato quel messaggio, c’è sicuramente una ragione seria, anche se non sono in grado di dire quale sia.
- Pensa che quello che abbiamo trovato tra i suoi oggetti personali possa aiutarla?
- Al momento non vedo come, ma non mi sembra di avere altro.
- Le ripeto, se le posso essere utile, in qualunque modo, faccia pure affidamento su di me.
Mangiarono una cena … mangiabile continuando a parlare.
Il signor Ciang si mostrò particolarmente interessato al lavoro di Arthur.
E affascinato dagli elementi di archeologia che finivano in un discorso, punteggiato di domande, che Arthur trovava sorprendentemente pertinenti in quell’omino, cortese e cerimonioso, ma dagli interessi e dalla cultura apparentemente così distanti dalla sua.
Dopo un’ora, si avviarono all’uscita, in attesa del mezzo, che il signor Ciang aveva richiamato.
Sulla porta, l’attenzione di Arthur fu attratta da un uomo, che correva sull’altro lato della strada.
D’improvviso l’uomo, con una tuta verde scuro, scartò in mezzo alla strada, dirigendosi nella sua direzione.
Dall’angolo del palazzo, nella direzione da cui arrivava l’uomo, in quel momento, sbucarono in corsa tre uomini in nero.
Mentre dal fondo della strada planava veloce un mezzo, anch’esso nero.
Il signor Ciang si frappose tra Arthur e l’uomo, che lo caricò con una spalla, scaraventandolo violentemente al suolo.
Arthur, impietrito, fu afferrato per il braccio che aveva alzato ad estrema difesa, e due occhi allucinati, o disperati, gli ansimarono:
- Fuggi, rainbowed, è una trappola!
Gli uomini della sicurezza gli furono addosso e lo strapparono dal braccio di Arthur, costringendolo a sdraiarsi a terra ed a restare immobile.
Lo colpirono ripetutamente con calci e con gli storditori.
Altri uomini scesero dal mezzo e furono addosso all’uomo. Altri, ancora, si chinavano sul signor Ciang, che appariva stordito.
Tutto avveniva nel silenzio più completo e questo sconvolse Arthur più della violenza, che gli appariva assolutamente gratuita.
- Fuggi, rainbowed, è una trappola! – quell’avvertimento gli tornò in mente e una paura irrazionale lo invase e lo stravolse.
Si allontanò arretrando, senza che nessuno gli prestasse attenzione.
Poi, vinto da un istintivo terrore, si mise a correre fuggendo.
Si allontanò cambiando ripetutamente strada, col terrore di sentire passi che l’inseguissero, o che un veicolo gli planasse dall’alto, come un gigantesco rapace.
Quando fu senza fiato si fermò, ansimando, scrutando alle sue spalle.
Al di là del raspare del suo respiro, non si sentiva alcun rumore e nessuno si vedeva al suo inseguimento.
Con uno sforzo cercò di ragionare.
Ora non capiva cosa gli fosse successo. Perché fosse fuggito.
Certo, non era un uomo d’azione e quell’esplosione di violenza, peraltro gratuita, l’avevano certamente turbato.
Ma che cosa c’entrava lui, col vaniloquio - perché altro non poteva essere quell’avvertimento - di quel povero cristo?
Perché s’era fatto prendere dal panico?
E un senso di vergogna lo pervase, al pensiero del povero signor Ciang, che aveva tentato di difenderlo, e che lui aveva abbandonato, magari ferito.
Ora avrebbe voluto tornare sui propri passi.
Si guardò intorno, ma la teoria dei palazzi, sempre uguali a sé stessi, gli disse che si era perso.
Non aveva la benché minima idea di dove fosse il ristorante e, se era per quello, neanche l’albergo.
Si decise a cercare qualcuno per chiedere informazioni.
Si incamminò lungo la strada deserta e dopo qualche centinaio di metri, girò su una strada più stretta sulla destra.
La struttura sempre uguale e sempre anonima dei palazzi lo opprimeva, ma, all’ennesima svolta, qualcosa cominciò a cambiare impercettibilmente.
Le case erano più addossate.
I muri, pur se di quell’opprimente grigio-verde, erano segnati qua e là da qualche screpolatura, da qualche macchia lasciata dal tempo e dagli uomini.
Qua e la, sulla strada, qualche rifiuto, qualche segno, testimoniava della vita di qualcuno.
Si addentrò speranzoso.
Improvvisamente vide un paio di persone, in fondo alla piccola strada in cui ora si trovava, entrare in un portone sul lato opposto.
Accelerò il passo e si avvicinò alla porta.
Notò che non era chiusa e dall’interno usciva il riverbero d’una luce.
Si risolse e, con circospezione, spinse con la mano la semplice anta di una porta su cardini e sbirciò dentro.
Con sorpresa si rese conto che quello era una specie di locale.
C’erano tavoli con sedie ed una sorta di bancone, dietro cui un barista umano mesceva qualche liquore.
Entrò.

Emerald - Capitolo 6

Il locale era decisamente più popolato degli ambienti sino ad allora frequentati da Arthur su Emerald.
Uomini e donne di età diverse, ma tutti con l’onnipresente tuta verde scuro, se ne stavano seduti ai tavoli, bevendo e chiacchierando sommessamente.
Arthur si avvicinò al banco, e diverse occhiate lo seguirono senza molta discrezione.
Il barista lo guardò con un mezzo sorriso.
- Prende qualcosa? – gli chiese
- Che avete?
- Poco per un rainbowed. Un paio di liquori distillati negli impianti della compagnia. Uno più forte, ma amaro ed uno più leggero, ma amabile.
- Mi dia quello forte – disse Arthur, aggiungendo – Come è che mi ha chiamato? Rainbowed?
- Beh, straniero – spiegò l’uomo – E’ il nome che diamo agli stranieri qui su Emerald. E lei, anche solo per come è vestito, non è dei nostri, o sbaglio?
- No, non sbaglia - rispose Arthur, dando un sorso al liquore denso, che l’altro gli aveva versato e che gli procurò un attacco di tosse.
- Le avevo detto che era forte – disse il barista
- E amaro – concluse in una smorfia Arthur – Senta, mi sono perso, sa indicarmi la strada per l’Emerald’s Door?
- Beh, è parecchio fuori strada – rispose l’uomo – Del resto, è ben difficile vedere un rainbowed da queste parti.
- Perché, che parti sono?
- Oh, niente di particolare, ma è difficile che in centro, così vicino all’inferno, si vedano quadri, figuriamoci rainbowed.
- Inferno?
- Già, la parte industriale di Emerald City. Questa è una zona da miners, di inchiodati al contratto della signora e padrona Mines & Stars – e fece per versargli un altro bicchiere di liquore, ma Arthur lo fermò.
- Proviamo l’altro – disse – Mi sembra di notare una lieve critica verso la concessionaria, nelle sue parole.
- Ragazzi – fece in barista rivolto agli avventori seduti ai tavoli – C’è questo rainbowed che vuole saperne qualcosa di più sulla nostra cara Mines & Stars.
Le conversazioni si fermarono e tutti gli sguardi andarono su Arthur.
Non lo guardavano con curiosità.
Più che altro ebbe l’impressione che lo stessero soppesando, mentre sorseggiava il liquore, secondo il barista, amabile.
- E che vuole sapere? Come ci tiene al laccio? Come s’è comprata la nostra esistenza per un pugno di crediti? – disse una donna dai capelli grigi raccolti a crocchia sulla nuca, mentre era tornata a fissare il fondo del bicchiere, che stringeva con le due mani sul tavolo dinanzi a lei.
- Sono ventitre anni che sono qui – fece un uomo sul fondo del locale – La nostra è una condanna a vita. Vattene, rainbowed, finché puoi farlo.
Una mezza risata generale – che ad Arthur, suonò un po’ di scherno - chiuse la faccenda e tutti tornarono alle rispettive occupazioni.
- Come vede – fece il barista ad Arthur – la lieve critica, non è esattamente personale.
- Va bene, però siete liberi di criticare, almeno.
- Oh, certo, parlare, la Mines & Stars, ce lo lascia fare tranquillamente. Non violerebbe mai un diritto fondamentale della Confederazione. Come, del resto, non consente a noi di violare l’obbligo del rispetto delle clausole contrattuali. Che, le assicuro, è un dovere ancora più fondamentale per la Confederazione.
- Ma il contratto con la Mines & Stars non è di cinque anni?
- Già, ma con i crediti della paga, tolti, come da contratto, i soldi per il vitto e per l’alloggio, pure se non ti concedi neanche un bicchiere di zankor, quand’è che metti da parte il crediti per un viaggio interstellare? Fuori dalla Compagnia, su questo maledetto pianeta, non c’è niente. E che puoi fare allora? O usi quel poco che hai per comprarti una carretta e fare il cercatore indipendente. O sottoscrivi un nuovo contratto con la Compagnia. Lavori sempre per la Mines & Stars. La sola differenza è che da indipendente, se sei fortunato, scopri un nuovo giacimento e con il gruzzolo che ottieni riesci a partire per le stelle. Se sei sfortunato, e nove volte su dieci è così, ci rimetti la pelle. Certo, puoi sempre diventare un greenfree …
- Un cosa? – chiese Arthur
- Un greenfree, uno che se ne va a vivere per Emerald, chiudendo ogni legame con la Compagnia. Ce n’è qualche migliaio. Ma è una vita selvaggia e soprattutto pericolosa. Questo pianeta non ci ama, rainbowed.
- Insomma, mi sta dicendo che nessuno è ripartito da Emerald?
- Nessuno proprio no. Ma di noi miners, in vent’anni, non se ne sono andati più di mille, forse duemila.
- Ma lei, qui…
- Piccola libera iniziativa tollerata – rispose l’uomo - Io lavoro ai magazzini dell’astroporto e la sera raggranello qualche credito extra. Ce ne sono molti di locali così, in centro. Gli uomini in nero ci lasciano fare, credo che serva anche alla Compagnia allentare un po’ la corda del guinzaglio.
- Senta – si risolse a dire Arthur – Poco fa, ero al ristorante …
- Accipicchia, deve avere un signor credito.
- Ero invitato – si spiegò Arthur – Quando stavo uscendo con il mio ospite, ci è corso incontro un uomo, credo un miner, era vestito come voi. Mi si è aggrappato al braccio e mi ha detto qualcosa su una trappola che non ho ben capito. Poi è stato preso e scaraventato a terra da un gruppo di agenti della Compagnia. Lo hanno colpito a calci e con gli storditori. Io mi sono spaventato e sono fuggito. Ecco come mi sono perso.
- Accidenti – fece il barista - Quel poveraccio finirà nei pozzi estrattivi, a quattromila metri sottoterra. Gli uomini in nero sanno essere cattivi.
- Mi ha detto di fuggire e probabilmente questo mi ha sconvolto. Ma perché è venuto da me?
- Non so. Forse l’ha riconosciuta come rainbowed e le ha voluto dire di stare alla larga. Di non farsi incastrare – scrollò le spalle.
- Ma io sono su Emerald solo per un amico, un mio collega! Io sono un professore di archeologia – protestò Arthur
Il barista lo guardò, d’improvviso attento.
- Qual è il nome del suo amico?
- Jhob, Johb Crhistiansen. Perché me lo chiede?
In quel momento sulla porta si affacciarono due uomini in nero.
Scrutarono il locale dove, alla loro comparsa, l’aria s’era fatta impercettibilmente più rarefatta, e puntarono il loro sguardo su Arthur.
L’uomo in nero alla destra parlò sottovoce, chinando il capo verso destra.
Poco dopo sulla porta apparve il capitano Gile, in completa tenuta nera.
Ignorò completamente i presenti e si avvicinò sorridendo ad Arthur.
- Buona sera, professor Temple. Felice di rivederla. E’ qualche minuto che la cerco. Ho saputo che è stato coinvolto in uno spiacevole incidente e sono venuto per riaccompagnarla in albergo.
- Più che ad un incidente, capitano, direi di aver assistito ad un brutale pestaggio – rispose Arthur.
- Una disdicevole circostanza. – commentò il capitano Gile - Ma i miei uomini mi hanno riferito che quella persona, per inciso, mentalmente disturbata, aveva già aggredito il suo accompagnatore e le era addosso.
- Come sta il signor Ciang?
- Fortunatamente bene. E’ già stato riaccompagnato in albergo, nella sua stanza. Vogliamo andare?
Ad Arthur suonò quasi un ordine.
- Quanto devo? – Chiese al barista, prendendo tempo.
- Lasci – rispose questi – Offre la casa. Dovere di ospitalità - e gli offrì la mano in un gesto di saluto.
Arthur rispose al gesto e, nel contatto, avvertì che il barista gli stava passando un foglietto di carta, tenendolo nascosto col dorso della mano.
Guardò negli occhi l’uomo e strinse il pugno, stringendo il biglietto.
Si volse e con un cenno del capo assentì al capitano, che gli fece segno di precederlo.
Uscì dal locale con gli uomini in nero ai fianchi e il capitano Gile alle sue spalle. Con la spiacevole sensazione di non essere libero.
Un mezzo della sicurezza li attendeva in strada e Arthur salì sul retro, al fianco del capitano Gile.
Nel trambusto riuscì a far sparire il foglietto in una tasca dei pantaloni.
- Mi spiace che sia stato coinvolto in questo spiacevole incidente la prima sera che è da noi – disse il capitano – Le posso assicurare che, in genere, Emerald City è assolutamente sicura e tranquilla. Anzi, troppo tranquilla. Direi noiosa. L’unico diversivo è il mugugno, come avrà avuto modo di apprezzare in quella bettola.
- Non è nulla, capitano – rispose Arthur, che desiderava soprattutto liberarsi di quella scorta.
- Il mugugno è una sorta di sport nazionale, qui su Emerald. E, naturalmente, è rivolto contro l’amministrazione. Potremmo sintetizzarlo con un antico detto della Terra … com’è? A già, “Piove governo ladro”.
- Non è un esempio molto felice – non riuscì a trattenersi Arthur.
- Che vuole dire?
- Il detto che ha citato ha un fondamento storico. Per molto tempo il sale utilizzato in cucina, il cloruro di sodio, è stata una materia indispensabile e preziosa, che non era così facilmente disponibile. In Italia, una penisola dell’Europa nel bacino del mar Mediterraneo, la produzione, il trasporto e la vendita del sale erano a cura dell’autorità, che vi applicava pesanti tasse. In caso di pioggia, il sale si inumidiva ed aumentava di peso, ma i governanti lo vendevano allo stesso prezzo, facendo pagare oltre al sale, l’acqua che vi era contenuta. Dal che si ricava che il detto popolare aveva fondamenti e giustificazioni più che reali.
- Non sapevo questa storia – disse il capitano Gile, che aveva ascoltato Arthur con gli occhi socchiusi a due fessure.
- A ben cercare, un qualche fondo di verità lo si trova sempre nei detti, nelle leggende, nei miti popolari.
- Molto interessante, ma, al momento, la mia preoccupazione è evitarle ulteriori, spiacevoli incidenti. Potrei suggerirle di farsi installare il segnalatore radio subcutaneo? – gli chiese il capitano, ed aggiunse sorridendo – Non vorrei impegnare la metà dei miei uomini ogni volta che si perde.
Arthur si irrigidì e il capitano si affrettò ad aggiungere:
- E’ solo un consiglio, professor Temple. Non ho intenzione si imporglielo, almeno fino a che non mi darà troppi grattacapi.
- Cercherò di stare attento, capitano. Ma preferirei evitare quell’aggeggio. Nella mia famiglia abbiamo un vero e proprio culto per la privacy.
- Come vuole – rispose, rassicurante, il capitano – Siamo arrivati.
Il mezzo si fermò dinanzi al luminoso monogramma della Compagnia e Arthur discese, salutò il capitano e, rapidamente, guadagnò l’interno dell’albergo.
Alla reception c’era ancora Annie, che lo salutò con un cenno del capo, cui lui rispose con la mano.
Andò, senza fermarsi, agli ascensori e salì in camera.
Quando si fu chiusa la porta alle spalle, prese il foglietto dalla tasca, lo stese e lo lesse.
C’era una scritta ad inchiostro, realizzata manualmente e con una grafia affrettata:
“La Società dei Naufraghi del Chronos si riunisce domani alle 21, nella sala del Mendelevio”.
Rimase a lungo ad osservare quel pezzetto di carta, chiedendosene il significato.
Evidentemente, sotto la superficie, Emerald City era meno tranquilla di come il capitano Gile faceva mostra di credere.
Quella aveva tutta l’aria d’essere una sorta di società segreta, probabilmente il frutto di un bisogno di rivalsa di quei poveri … miners, come si chiamavano.
Ma quello che lo colpiva era in particolare quel nome “Chronos”. Non poteva essere un’altra coincidenza.

Emerald - Capitolo 7

Recuperò i documenti prelevati tra gli effetti di Jhob e se li mise davanti.
C’erano due cose che l’avevano colpito. Il nome della regione in cui s’erano perse le tracce di Jhob, Aither, ed ora, appunto, quel nome, Chronos, adottato da un’improbabile setta di quella povera gente.
Erano entrambi due nomi della cosmogonia orfica e non poteva certo trattarsi di un caso.
Del resto, lo stesso nome della stella, Uraneo, non era un’altra coincidenza improbabile?
Uranòs era il termine celeste di quel binomio cielo-terra, riportato nel testo della laminetta funeraria orfica che Jhob gli aveva inviato.
D’altra parte, l’altro fattore della coppia, Geo, non aveva la stessa desinenza di Pangea, il continente, la terra emersa di Emerald?
Certo, Pangea era anche un riferimento al continente originario della terra, prima che la deriva dei continenti ne frantumasse l’unità. Ma questo non toglieva nulla alle straordinarie coincidenze di quella toponomastica astrale.
Esaminò prima il Penthemuchos.
Come ricordava, in questa versione della cosmogonia orfica, il mondo ordinato sarebbe stato un antro dai cinque fondi, ovvero i cinque elementi dell’universo: acqua, aria, terra, fuoco e tartaro.
Il cosmo si sarebbe sviluppato da un caos primitivo, per virtù di impulsi successivi, dovuti a figure divine, che rappresentavano i valori filosofico morali, che erano alla base del pensiero orfico.
Tre erano le essenze primordiali che avevano operato l’ordinamento del mondo: Zas, che era il principio della vita, Chtoniè, il principio della materia e, appunto, Chronos, principio del tempo.
Era Chronos – appunto, Chronos, sottolineò a sé stesso Arthur - che aveva lottato e sconfitto Ophioneus, il serpente, che era il principio del caos.
Arthur, rifletté sui termini di questa lotta.
Certo, essa era paragonabile alle tante altre battaglie raccontate dalle più diverse mitologie terrestri, combattute dalle entità divine ordinatorie della luce e del bene, contro le forze generatrici delle tenebre e del male.
Ipotizzò che il serpente Ophioneus potesse identificarsi, per i miners, nella Mines & Stars e che in quel Chronos, di cui si dichiaravano naufraghi, fosse racchiusa tutta l’idea della grande lotta di liberazione che sognavano, per poter solo sperare in un’altra vita, rispetto a quella cui erano condannati.
Ma perché quei poveri cristi avrebbero dovuto ricorrere proprio a quella particolare simbologia?
E, soprattutto, come poteva essere arrivata fin lì dalle nebbie del passato e da 34 par/sec di distanza?
Passò allora alla ricostruzione del Lobeck e alla cosmogonia tratta dalle rapsodie orfiche.
In questo caso i tre elementi primordiali erano Chronos, Aither e Chaos.
Arthur ebbe un brivido di impazienza, come si poteva parlare di coincidenze?
Chronos aveva fabbricato nel seno di Aither un uovo, da cui era nato Phanes, il Brillante.
Il messaggio di Jhob aveva un riferimento preciso e diretto in quell’uovo.
Ma che significava, quando affermava di averci scoperto “la torre”?
Quale torre?
E poi, cos’era quest’uovo?
Qualunque cosa fosse – considerò Arthur – doveva comunque trovarsi nell’Aither, in quella misteriosa regione di Emerald.
Assentì col capo e continuò la ricostruzione del mito.
Phanes si era accoppiato con Nyx, la notte oscura, generando la coppia terra-cielo, cioè Geo-Uranòs, da cui era nato il vecchio Krono, che aveva generato Zeus, il quale a sua volta aveva generato, da Persefone, Dioniso.
Dioniso riceveva nell’orfismo il nome particolare di Zagreo, cioè diveniva il gran cacciatore di anime che travolgeva ogni cosa.
Era in sostanza una divinità ctonia, come la discendenza da Persefone, del resto, lasciava intuire.
Zagreo aveva ricevuto, da suo padre Zeus, il dominio sul mondo.
Ma i Titani, figli della Terra, elemento scuro e tenebroso, aizzati dalla gelosa Hera, avevano deciso di ucciderlo.
Zagreo - che era un bambino ingenuo - giocava nei campi, quando i Titani, utilizzando diversi oggetti, lo trassero in inganno.
Accortosi del pericolo, Zagreo aveva cercato di sfuggire alla presa cambiando forma.
Ma i Titani erano riusciti a catturarlo, proprio quando aveva assunto quella di toro.
Lo avevano fatto a brani e lo avevano divorato crudo.
Ma Athena aveva salvato il cuore del dio bambino, portandolo a Zeus.
Il quale lo aveva trangugiato, generando poi, da Semele, un nuovo Dioniso, gloriosa resurrezione dell’antico.
I titani, per la loro empietà, erano stati colpiti dalla folgore di Zeus.
Dalle loro ceneri era nato il genere umano, nel quale, perciò, si trovavano riuniti i due elementi, il bene e il male, il titanico e il dionisiaco, fusi insieme.
Tutta la disciplina orfica consisteva, appunto, nella liberazione dell’elemento luminoso, celeste, dionisiaco, che era l’anima, dall’elemento oscuro, materiale, titanico, che era il corpo.
Arthur non vedeva in questa parte del mito un nesso necessario con i segnali che Jhob gli aveva mandato.
Ma si chiese se quella Società dei Naufraghi di Chronos non potesse essere una sorta di confraternita orfica. In cui l’elemento “titanico”, da cui gli iniziati dovevano liberarsi con una vita irreprensibile, era costituito dalla Mines & Stars, con le sue clausole contrattuali, che li teneva inchiodati in quella sorta di verde Tartaro.
Già, ma l’orfismo presupponeva una colpa originaria di cui liberarsi.
E quale colpa potevano attribuirsi quelle, che non erano altro che vittime ingenue – come quel dio bambino – di quel mostro, perfettamente razionale e realistico, che considerava “normale” la loro condizione?
Per gli orfici, infatti, l’anima era divina ed il corpo era una tomba, in cui l’anima era precipitata in seguito ad una colpa primordiale.
La distanza tra questa prigione oscura e la sede beata a cui l’anima anelava di risalire, si poteva abbreviare e sopprimere solo a prezzo di una purificazione.
La purificazione aveva due possibili strade.
Una passava per il ciclo delle rinascite.
La seconda passava per la purificazione nell’Ade, luogo di terrore o di delizie, ma dove l’anima, per gli orfici, non trovava la propria pace.
Questa era possibile solo nella ricongiunzione nell’unico Zagreo.
E il testo, inviatogli da Jhob, di quella laminetta, che un orfico si era portato nella tomba, era una sorta di promemoria, di istruzioni per l’uso, per il viaggio nell’Ade.
All’ingresso avrebbe trovato due strade.
Una infausta, contrassegnata da un pioppo. Che conduceva al Tartaro.
E una buona, contrassegnata da un cipresso. Che conduceva, prima alla fonte Mnemosina, la fonte dell’oblio e, dopo, ai Campi Elisi. Dove, ben giudicato da Persefone, avrebbe atteso la ricongiunzione all’unico Zagreo.
Arthur ricordò in proposito la definizione che davano i neoplatonici, cresciuti nel solco del pensiero orfico.
“Nell’Uno che soffre e si perde effondendosi nella pluralità delle creature”.
Perché Jhob gli aveva inviato quelle istruzioni?
Quale percorso gli aveva voluto indicare?
C’era una strada che avrebbe dovuto evitare?
E quale?
Era perplesso ed ora si sentiva stanco.
La giornata era stata intensa e la notte era ormai fonda.
Si ricordò che il giorno emeraldiano era un po’ più corto di quello standard e che l’alba sarebbe arrivata prima di quanto il suo corpo prevedesse.
Si spogliò e si stese sul letto, cercando di svuotare la mente.
Non aveva abbastanza elementi per fare un’ipotesi sensata e non aveva senso far galoppare la fantasia.
Alla fine una spiegazione razionale sarebbe saltata fuori e, con essa, sperò sbadigliando, anche Jhob.
Si stava addormentando con un’unica decisione presa.
Il giorno dopo avrebbe fatto di tutto per essere presente alla riunione della Società dei Naufraghi del Chronos.
- Del?
Quella preposizione articolata gli stonò nella testa.
Si rialzò e andò a controllare il foglietto.
Si, non ricordava male, era un “del” e non un semplice “di”.
Si ridistese sul letto, tornato lucido.
Quell’articolo mutava il senso o, almeno, lo ampliava.
Quel Chronos poteva rappresentare il nome di qualcosa e non già l’identificazione mitica.
Poteva ricordare un reale naufragio, magari di una nave spaziale che portava quel nome.
Certo, ma restava il problema di quel nome dato ad una nave spaziale, o a cos’altro fosse, e del suo legame con Emerald e la sua stella Uraneo, con tutti quei riferimenti ad un’antica religione misterica.
Niente, l’unica soluzione era rendersi conto direttamente di che cosa si trattasse.
Ma con discrezione.
Non era il caso che il capitano Gile ne venisse, in una qualche maniera, a conoscenza.
La mattina dopo avrebbe cercato di ottenere qualche informazione su come muoversi per la città, senza l’assistenza del signor Ciang che, del resto – pensò – dovrà pur fare il lavoro per il quale è venuto su Emerald!
Si sentì ancora una volta in colpa, per aver abbandonato quel gentile omino a terra, davanti al ristorante, e considerò, con imbarazzo, il momento in cui si sarebbero incontrati.
Avrebbe dovuto fargli le sue scuse.
Finalmente s’addormentò.

Emerald - Capitolo 8

Incontrò il signor Ciang davanti alla reception.
Cercò di scusarsi del suo comportamento la sera prima.
Ma l’altro fece mostra di non dare alcun peso alla cosa e si comportò come se nulla fosse successo.
- Cosa conta di fare, questa mattina?
- Vorrei conoscere un po’ meglio la città, con calma. Capire come è organizzata.
- Dopo l’impatto, come possiamo dire … - il signor Ciang sembrò cercare le parole – problematico di ieri sera, mi sembra un’ottima apertura di credito, da parte sua.
- Dove posso trovare una cartina della città, in modo da non rischiare di perdermi ogni cinque minuti? – chiese, per poi spiegare - Sa, non vorrei diventare un ospite ingombrante per la Sicurezza. Da quando sono arrivato, ho avuto modo di ricevere le attenzioni di un ufficiale, un certo capitano Gile, già due volte.
- Spero sia stato trattato come si conviene
- Per carità! – fece Arthur – Nulla da dire. Diciamo che sono io, a non voler passare per un piantagrane. … Lei crede che possa avere una piantina?
- Credo che il posto migliore sia proprio la reception.
Il signor Ciang si volse verso il giovane impettito che, dietro il banco, sostituiva quella mattina Annie.
- Il professor Temple vorrebbe una piantina della città.
Il giovane si chinò e recuperò sotto il banco una piantina, che porse con un sorriso ad Arthur.
- La ringrazio molto – disse Arthur, mentre dispiegava il materiale plastico della cartina.
La pianta della città sembrava sufficientemente particolareggiata.
Arthur notò che erano indicati sia l’Emerald’s Door, che il Ristorante ed una serie di edifici, sedi di uffici.
Ebbe il tempo di notare come la parte sinistra della città, quella residenziale, fosse un ordinato reticolo di strade che si infittiva, restringendosi, verso il centro.
Senza mai allargarsi in un qualcosa di simile ad una piazza.
Mentre la parte destra, quella produttiva, sembrava suddivisa in blocchi quadrangolari di diverse dimensioni.
- Signore – il giovane stava richiamando la sua attenzione. Si voltò – La penna – e gli porse un piccolo cilindro affusolato, con una estremità appuntita.
- E’ per l’uso della carta – il signor Ciang soccorse il suo imbarazzo – Una piccola invenzione dei laboratori della Compagnia – spiegò - Se lei posa la punta della penna su un punto qualsiasi della carta, su questa si disegna il percorso più opportuno per raggiungere quel punto. Provi. Tocchi il Ristorante e vedrà.
Arthur eseguì e sulla carta comparve un tratto d’un verde brillante, che dall’Emerald’s Door arrivava al Ristorante, seguendo il percorso che, a senso, Arthur ricordava aver fatto la sera prima.
- La piantina – aggiunse il signor Ciang - è dotata di un sensore in grado di individuare automaticamente il punto di partenza. Cioè dove si trova in quel momento la piantina. Purché si trovi all’interno della città.
- Veramente notevole – mormorò Arthur.
- Ho una proposta da farle – cambiò discorso il signor Ciang – Il mio lavoro quest’oggi consiste in un giro d’ispezione, diciamo così, ufficioso. Prima di cominciare i controlli, ho bisogno di rendermi conto dello stato di attuazione dei programmi, come dire … dal vivo – sorrise – Ho più fiducia nel mio naso, che delle fredde cifre dei bilanci, signor Temple. E questo, dovrà riconoscerlo, è un punto a mio favore.
Arthur rimase per un attimo interdetto. Ma poi ricordò la discussione del giorno prima sull’astronave e sorrise a sua volta.
- Lei non mi perdona nulla, signor Ciang.
- Che dice, signor Temple, vuole venire con me?
Arthur valutò che, al seguito del signor Ciang, avrebbe avuto maggiori probabilità di individuare quella sala del Mendelevio in cui, quella sera, si sarebbe riunita la Società dei Naufraghi del Chronos e fu felice di accettare la proposta.
- Con piacere – rispose – Ma ho ancora un favore da chiedere.
- Prego – disse il signor Ciang – sono a sua disposizione.
- Potrei avere un abito locale? Ieri ho capito di essere un … rainbowed, e preferirei cercare di passare il più possibile inosservato.
- La posso capire – disse comprensivo il signor Ciang – Anche se rainbowed non è un’offesa, la posso capire – e tornò a voltarsi verso la reception.
Dopo dieci minuti il signor Ciang, nel suo abito da quadro della Compagnia e il signor Temple, nella sua tuta verde scuro da miner, uscivano dall’Emerald’s Door. Fuori salivano su un piccolo mezzo a cuscino d’aria, su cui spiccava, in fiammanti lettere verde-oro il monogramma della Mines & Stars Co.
Il mezzo sfrecciò deciso in direzione del centro della città.
Quella mattina la città si presentava decisamente più animata.
Sulle strade si vedevano quasi esclusivamente grossi mezzi di trasporto collettivo.
Mentre un brulicare di pedoni verde scuro entrava e usciva dagli edifici grigio verdi degli uffici, con un passo veloce.
Gli unici individui fermi erano quelli alle fermate dei mezzi, che planavano veloci, caricando e scaricando i passeggeri, per poi risalirsene in volo.
I mezzi neri della sorveglianza, dall’alto, scandagliavano, lenti, quella scena.
Passarono nella zona residenziale.
Qui gli individui verde scuro sembravano avere una sola direzione.
- E’ l’ora del secondo turno – spiegò il signor Ciang – Gli ingressi al lavoro sono scaglionati in quattro turni, sfalsati di un’ora tra loro. E’ la soluzione più semplice per spostare due volte al giorno venticinquemila persone da una parte all’altra della città. Tutte quelle persone stanno raggiungendo i terminal dei trasporti, che le porteranno al loro posto di lavoro.
L’auto seguì il flusso di quella marcia ed, in breve, raggiunse un largo viale, dove erano in attesa dei grossi veicoli allineati.
Le persone verde scuro, senza alcuna esitazione, raggiungevano un preciso veicolo salendo a bordo.
Ogni qualche secondo, come seguendo il ritmo di una silenziosa musica, un veicolo d’improvviso levitava nell’aria, per poi avviarsi, con un’armonica accelerazione, in direzione della zona produttiva della città.
- Ci sono altri quattro terminal come questo. Ogni terminal serve un’area specifica della zona produttiva e, naturalmente, la Compagnia assegna gli alloggi in modo che ogni persona risieda nella vicinanze del proprio terminal.
- Ma da questa parte della città non rimane nessuno? – chiese Arthur
- Bambini e studenti vengono trasportati nella zona uffici, dove ci sono nidi e scuole. Mentre i malati sono ricoverati nel centro medico, che è sempre nella zona meridionale. Restano solo gli indipendenti, se pagano l’affitto del loro alloggio.
“Formiche”, questo era il pensiero che Arthur aveva stampato nella mente, mentre guardava quell’ordinato e perfettamente razionale affaccendarsi.
Ogni individuo era perso, dissolto in quel mostruoso “essere alveare”.
In quel formicaio che, con insensibile intelligenza, cresceva, nutrendosi del lavoro di ognuna di quelle singole formiche operaie verde scuro.
Nutrendosi del suo lavoro e schiacciandone sogni, speranze, desideri …
- Ma gli esseri umani non sono formiche! – si disse Arthur, osservando i vigilanti neri, che volteggiavano in alto.
Passarono nella parte produttiva della città.
Arthur notò che le due parti avevano una separazione fisica.
Una lunga fila di pali collegati da fasci di luce verdognola.
E il signor Ciang gli confermò che si trattava dello stesso tipo di campi d’energia, che avevano osservato allo spazioporto.
Lo informò, quindi, che vi erano dodici varchi pedonali, sorvegliati da uomini della sicurezza.
Arthur registrò la cosa, valutando che avrebbe avuto un problema in più quella sera.
Il giro nella parte produttiva fu, contrariamente a quanto si era aspettato Arthur, interessante.
I pozzi avevano larghe bocche, sulla cui circonferenza si ergevano gli immensi bracci di gigantesche gru e i robusti tralicci degli impianti di trasporto, che consentivano il trasferimento del personale dalla superficie al fondo dei pozzi, ad oltre quattromila metri di profondità, ed il loro ritorno.
Si, i pozzi estrattivi avevano un orrido fascino
Mentre l’improvviso affiorare dei cassonetti carichi del materiale grezzo estratto, sparati dal fondo dei pozzi, con un’accelerazione che nessun umano avrebbe potuto mai sopportare, era uno spettacolo affascinante.
Seguirono il percorso del materiale grezzo che, mediante nastri trasportatori, raggiungeva gli impianti di lavorazione ed una serie di queste fasi lavorative.
Tra i diversi metalli pesanti il signor Ciang ad un tratto citò il mendelevio.
Arthur fu subito attento, quasi incredulo della sua fortuna.
Si era, infatti, lambiccato il cervello su come avere qualche informazione su quella produzione senza destare sospetti.
Chiese, sperando di sembrare il più naturale possibile, qualche notizia in più ed il signor Ciang fu, come al solito, estremamente cortese.
Mentre illustrava quel ciclo, propose ad Arthur di osservare direttamente i diversi impianti.
Ovviamente Arthur accettò.
La produzione di ogni metallo pesante avveniva negli edifici di uno specifico quadrilatero.
Questa era la ragione della particolare suddivisione dell’area produttiva della città.
Visitarono i diversi edifici in cui si articola il flusso produttivo del mendelevio, sino a giungere ad un locale dove, finalmente, veniva raccolto il metallo raffinato.
Entrando nel locale, il signor Ciang disse:
- E questa è la sala del mendelevio.
Arthur ebbe un salto al cuore e, facendo mostra di ascoltare quel che diceva il signor Ciang, si guardò intorno in cerca di qualche conferma.
La sala, un rettangolo senza finestre, che Arthur valutò di venti metri per dieci, era vuota, a parte il cassone di raccolta del metallo posto sul fondo.
Arthur, per l’ennesima volta – aveva avuto cura di ripetere l’operazione innumerevoli volte, come fosse un gioco, per non destare, al momento opportuno, sospetti nell’interlocutore – controllò la posizione sulla mappa, evidenziando il percorso sino all’Emerald’s Door.
La sala non era distante dallo spazioporto, in un punto che Arthur non avrebbe fatto fatica a raggiungere a piedi.
Cercò di memorizzare sulla cartina il punto esatto da cui partiva il percorso. Quello era il punto dove avrebbe dovuto piazzare la penna quella sera.
Ripiegò la cartina e continuò a discorrere amabilmente con il signor Ciang, che non fece mostra di essersi accorto di nulla.
Si lasciarono che Uraneo tramontava.
Arthur disse di sentirsi stanco, rifiutando l’invito a cena del signor Ciang.
- Credo che andrò subito a dormire
- Faccia sogni d’oro – disse con un inchino il signor Ciang, mentre la porta dell’ascensore si chiudeva.

Emerald - Capitolo 9

Entrato in camera, aprì sul letto la cartina e mise la punta della penna sulla sala mendelevio.
Studiò il percorso che si disegnava.
Avrebbe dovuto raggiungere lo spazioporto e risalire il suo perimetro verso nord.
Passato il terminal immigrati, giudicò in alcune centinaia di metri, comunque in non oltre un chilometro, la distanza che lo separava dal varco di ingresso alla zona produttiva.
Lì ci sarebbe stato il problema della sorveglianza, ma lo avrebbe affrontato sul momento.
Passato il varco, avrebbe dovuto continuare in linea retta, per un altro chilometro, lasciandosi alla destra la recinzione dello spazioporto e superando, sulla sinistra, due quadrilateri.
Quindi doveva svoltare a sinistra e a poche centinaia di metri, alla fine del primo quadrilatero, si sarebbe trovato di fronte, sulla destra, la sala del mendelevio.
Ripeté più volte il percorso mentalmente per fissarselo nella memoria. Dopodichè guardò l’ora, erano passate le diciannove e mezza.
Valutò che a passo tranquillo, tale da non destare sospetti, avrebbe raggiunto la sala in un’ora e decise di prendersi un buon margine per i possibili imprevisti e, quindi, di cominciare ad avviarsi subito.
Ripiegò e si mise in tasca la cartina e si guardò allo specchio.
Per quanto ne capiva, poteva essere scambiato per un qualunque miner di Emerald.
Soddisfatto lasciò la stanza.
Salutò con un sorriso Annie, che aveva ripreso il suo servizio quella sera, ed usci in strada.
Come fu uscito, Annie compose un numero sulla consolle della reception.
La sera era gradevole, come una serata di tarda primavera su New Yale, e per Arthur non fu difficile simulare un’innocente passeggiata.
Raggiunse rapidamente lo spazioporto e si incamminò verso nord.
Passò dinanzi all’ingresso del terminal immigrati, che era sbarrato e buio, e proseguì.
La strada era deserta. Solo in lontananza si vedeva qualche veicolo sfrecciare veloce.
Finiti gli edifici dei terminal, costeggiò la recinzione dell’astroporto, da dove si vedeva a distanza, all’altro capo del piazzale di cemento, il movimento di grossi mezzi di trasporto, intorno ad un paio di carghi spaziali. Evidentemente una nave mercantile era in orbita intorno al pianeta e le operazioni di carico non si fermavano neanche la notte.
Arrivò alla fine della recinzione e si trovò al varco.
Era un semplice spazio tra due pali.
Libero dalla luce verdognola, che congiungeva la teoria dei pali, che si susseguivano da quel secondo palo in direzione nord.
In corrispondenza del secondo palo c’era una sorta di garitta chiusa.
Il posto di controllo della sorveglianza, penso Arthur.
Con l’aria più innocente che gli riuscì di assumere, si avvicinò alla garitta, ma non gli riuscì di scorgere nessuno.
Incredulo dell’opportunità che sembrava presentarglisi, provò a proseguire oltre il varco.
Nessuno lo fermò.
Nonostante cercasse di imporsi il contrario, accelerò progressivamente l’andatura, finendo quasi per correre.
Solo dopo almeno un centinaio di metri riuscì a rallentare e a riassumere l’andatura tranquilla che s’era ripromesso.
Con la coda dell’occhio tentò di gettare uno sguardo alle sue spalle, temendo d’essere stato individuato e magari inseguito.
Ma tutto era tranquillo.
Respirò profondamente e proseguì.
Non vide e non incontrò nessuno, fino a quando non arrivò in vista della sala mendelevio.
Guardò l’ora.
Aveva quasi mezz’ora di anticipo sull’orario della riunione.
Decise di attendere al riparo di una grossa attrezzatura, piazzata all’esterno di un capannone un po’ discosto rispetto all’ingresso della sala.
Voleva farsi un’idea del partecipanti osservandoli arrivare.
Dopo un quarto d’ora iniziarono ad arrivare alla spicciolata dei miners, uomini e donne, tutti nella tuta verde scuro, tutti silenziosi.
Arrivavano e, contrariamente a quanto s’era aspettato Arthur, senza alcun rituale, aprivano la porta della sala ed entravano.
L’unica particolarità era il grosso fagotto, che uno dei primi miners aveva portato con sé entrando.
Arthur attese che fossero quasi le ventuno.
Fino a quel momento aveva contato in una cinquantina i partecipanti alla riunione e, fra questi, aveva riconosciuto il barista della sera prima.
A quel punto si risolse e, uscito dal suo riparo, si avviò alla porta della sala ed entrò.
Il barista lo riconobbe quasi subito, gli andò incontro con un sorriso cordiale e gli parlò all’orecchio.
- Speravo che arrivasse. Da quel che ha detto il capitano Gile, avevo capito che non aveva il rivelatore radio e poteva unirsi a noi
- Perché, voi non l’avete?
L’uomo sorrise e piegò la testa mostrando la base del collo, dove si vedeva il segno di una piccola cicatrice.
- Liberati – disse.
- Ma, mi è stato detto che se si estrae …
- Questo è quello che pensa la Mines & Stars – lo interruppe l’uomo – Ma noi abbiamo trovato il modo di spegnerlo. Così – e aprì, come petali di un fiore, le dita che aveva stretto, congiungendo i polpastrelli.
Ad Arthur brillarono gli occhi.
- Ma allora anche Jhob …
- Si – lo prevenne l’uomo, assentendo con il capo.
- Sono suo amico. Sono qui perché lui mi ha scritto – cercò di chiarire Arthur.
- Fratello – l’uomo aveva richiamato, con discrezione, l’attenzione di uno dei presenti – Quest’uomo è un rainbowed e un amico di Crhistiansen.
L’uomo, un anziano con una corona di capelli candidi intorno ad una vasta pelata, lo guardò intensamente.
- Ma Jhob, dov’è? Come sta? – chiese Arthur.
- Non lo sappiamo - rispose l’uomo – E’ partito tre mesi fa
- Lo so, per la regione di Aither.
- E, come ci aveva preannunciato, ha interrotto ogni contatto – continuò il barista – La Compagnia, con gli uomini in nero, gli stava troppo addosso.
- Pensano che abbia avuto un incidente.
- Più che altro lo sperano – disse in un sussurro una donna dalle forme generose, che s’era accostata, sempre con discrezione, insieme ad un piccolo gruppo di altre persone.
- Sentite – chiese Arthur – non capisco. Ma non c’è un sistema di sorveglianza satellitare, un sistema di controllo con videocamere? Come può essere sufficiente disattivare il rilevatore radio, per svanire nel nulla?
Lo guardarono con sorrisi indulgenti.
L’uomo anziano si incaricò di rispondergli.
- Evidentemente non le hanno illustrato compiutamente le caratteristiche del nostro sole, Uraneo, combinate con le caratteristiche dell’atmosfera di Emerald. Le sue radiazioni non hanno solo l’effetto ottico che colpisce tanto voi rainbowed. Hanno anche altre caratteristiche. In particolare quella di interferire con le onde elettromagnetiche, rendendo praticamente inutilizzabili i segnali che non siano trasmessi via cavo. La Compagnia ci sta lavorando, ma, per il momento, non si è neanche avvicinata alla soluzione del problema. Non è riuscita neanche ad organizzare un sistema di telecamere per controllare la città e deve accontentarsi dei segnalatori radio.
Tutto quel conciliabolo s’era svolto nei pressi della porta del locale, ma ora stava accadendo qualcosa.
Una donna anziana, con i capelli grigi raccolti in una crocchia sulla nuca, batté due volte le mani.
Tutti assunsero un’espressione seria e, disponendosi in fila indiana, iniziarono a sfilare dinanzi alla donna.
Questa, dopo averne indossata una, prendeva dal fagotto che aveva ai piedi, una tunica d’un verde chiarissimo, che Arthur valutò come bianco candido, sotto la luce di un altro sole, e rivolgeva una serie di domande alla persona che aveva davanti.
- Sei puro tra i puri?
- Io vanto di appartenere alla stirpe beata – era la risposta rituale
- Cosa ti è accaduto?
- Il destino e la folgore mi hanno inaridito.
- Perché ti è accaduto?
- E’ la punizione inflitta a causa di opere non giuste.
- Cosa desideri?
- Essere condotto alla sede dei pii.
A questo punto la donna aiutava l’altro ad indossare la tunica e, reclinando il capo, recitavano in coro:
- Io meno una vita santa, indosso bianchissime vesti, fuggo le tombe e mi guardo dal cibarmi di esseri animati.
Dopo questo rituale, ognuno dei partecipanti si spostava, lasciando il posto al successivo nella fila, per andare a posizionarsi in modo da formare un circolo intorno alla donna.
Arthur osservava affascinato e perplesso quel rituale, in cui riconosceva inequivocabili simbologie orfiche.
Il barista l’invitò con un sorriso a disporsi nella fila dinanzi a lui.
Arthur ebbe solo un attimo di esitazione, se voleva saperne di più, doveva adeguarsi di buon grado.
Si mise in fila, e quando fu il suo turno, rispose con sufficiente precisione alle domande della donna.
Raggiunse il proprio posto nel cerchio con la sua tunica e attese il seguito.
Quando il cerchio fu completo, la donna parlò con voce sommessa.
- Fratello Samuel, informa i puri tra i puri.
Un uomo dalla corta barba castana alzò il capo e, passato uno sguardo sul cerchio, disse:
- Il fratello Jhob è vicino al Chronos e alle prove della colpa, lo sappiamo. Eppure, mai come in questo momento, la Compagnia e gli uomini in nero sono pericolosi. Essi ci danno la caccia. Sanno che devono farci tacere. Sanno che noi possiamo svelare all’universo intero la loro colpa. La colpa che, tramite loro, abbiamo su di noi. La colpa che ci siamo impegnati ad espiare. Nelle prossime settimane dovremo diradare i nostri incontri. Dovremo triplicare le nostre precauzioni nel contattare i fratelli perduti, a cui illuminare la via, con la fiaccola della rivelazione. Dovremo …
- Siete circondati – una voce amplificata li aggredì dall’esterno – Uscite con le mani alzate!
Nella sala la confusione esplose improvvisa.
Nel parapiglia Arthur si senti prendere per la mano e tirare verso il cassonetto del mendelevio.
La piccola figura che lo tirava, sollevò una grata dal pavimento e si calò all’interno, facendo segno ad Arthur di seguirla.
Come Arthur fu entrato, la giovane e minuta ragazza riposizionò la grata, proprio mentre gli uomini in nero facevano irruzione nella sala.
Si spinsero nel buio del condotto, trattenendo il respiro.
Le urla e i suoni salirono d’intensità, per poi decrescere, lentamente, in lamenti ed ordini brutali.
Infine fu silenzio, irreale, rotto solo da alcuni passi.
- Non è tra gli arrestati – la voce del capitano Gile – Dov’è finito, quel figlio di puttana?
- Il rilevatore indica che è ancora qui dentro – un’altra voce.
- Chiama la squadra – ancora il capitano – Smontiamo questo posto mattone per mattone.
La ragazza tastò febbrile il collo di Arthur, poi, frenetica, lo frugò, finché non sentì sotto le dita la piantina con la penna che Arthur teneva nella tasca.
Quasi gliele strappò di dosso.
La punta della penna emanava un tenue lucore fosforescente.
La posò al suolo.
Poi toccò il braccio di Arthur a preavvertirlo e lo prese per mano, mettendosi in moto lungo il condotto.
Avanzava lentamente, in silenzio, facendo attenzione a non fare il minimo rumore.
Fecero alcune decine di metri, fino a raggiungere un’altra botola.
La ragazza di fermò e con cautela sollevò la grata, quel tanto sufficiente a gettare uno sguardo al pavimento di quel locale.
L’ispezione doveva essere stata soddisfacente, perché spostò la chiusura e si issò sul pavimento del locale, aiutando Arthur a seguirla.
Rimisero a posto la grata ed Arthur si guardò intorno.
Erano in una sala simile a quella del mendelevio, forse un po’ più piccola, e i rumori che provenivano dall’esterno, dicevano che gli uomini in nero erano pericolosamente vicini.
- Vieni – sussurrò la ragazza e cominciò ad arrampicarsi sul cassone del metallo che veniva raccolto in quella sala.
Proseguì lungo le strutture metalliche del nastro trasportatore e, giunta alla sommità, salì sul nastro avventurandosi su questo, risalendo fuori della sala.
Arthur la seguì.
Si trovarono fuori, sul quel nastro non più largo di un metro, che correva ad una decina di metri dal suolo.
La perenne luce fredda di Emerald City non arrivava ad illuminarli ed i due procedettero un po’ curvi, con Arthur felice di non soffrire di vertigini.
Seguirono a ritroso il percorso del nastro trasportatore, allontanandosi dalla sala del mendelevio e dai mezzi della sicurezza, che lampeggiavano nella notte.
Passarono altri due capannoni, prima di discendere al suolo, in prossimità di una sorta di pista per monorotaia, che correva ad un paio di metri d’altezza, allontanandosi verso l’interno della zona industriale.
Corsero lungo il percorso della monorotaia, protetti dalle strutture della stessa e dalla sua ombra.
Si fermarono, senza fiato, ormai lontani.
Avevano raggiunto i pozzi estrattivi.
Degli uomini in nero non c’era traccia.

Emerald - Capitolo 10

Arthur pensò a quelle donne e a quegli uomini caduti nella rete del capitano Gile. Lo avevano seguito, era colpa sua.
La ragazza, giovane, minuta, con due grandi occhi scuri e i capelli corvini tagliati a caschetto, parve avvertire la sua angoscia.
- Il rilevatore era nella penna – disse – Non potevi saperlo. Qualcuno ti ha teso una trappola profittando del fatto che sei un raimbowed e non avevi motivo di sospettare.
Arthur pensò al giovane impettito, alla reception dell’Emerald’s Door. A quella faccia da scrupoloso dipendente della Mines & Stars, smaniosa di far carriera, pronta a tutto, pur di conquistare un posto da quadro nei ranghi della compagnia.
Respirò forte per sfogare la rabbia che gli montava in corpo.
- Cosa faranno …
- Li interrogheranno per cavargli qualunque notizia. Poi li destineranno ai pozzi punitivi. Giù a quattromila metri di profondità, senza farli riuscire per uno, due mesi … forse un anno, chissà.
- Scopriranno ogni cosa.
- Nessuno di noi sa molto di più di quanto la Compagnia non sappia già – rispose la ragazza – E’ Jhob la chiave di tutto. Ma fortunatamente nessuno sa dove sia. Piuttosto, adesso scopriranno che siamo in grado di spegnere i rilevatori e, prima o poi, troveranno la maniera per risolvere il problema.
Arthur respirò ancora profondamente, l’adrenalina cominciava a dissolversi e lui si scoprì a pensare al povero signor Ciang, così gentile e così servizievole.
La possibilità che finisse per scontare le cortesie che gli aveva profuso era decisamente reale.
Fin dall’arrivo su Emerald gli aveva fornito un’assistenza continua.
Lui, ispettore della Compagnia, aveva assistito un agente di questo misterioso complotto … orfico.
L’assurdità di quell’improbabile intrigo lo stordì.
- Dobbiamo muoverci – disse la ragazza
- Come?
- Non abbiamo molto tempo. Quando scopriranno il rilevatore nel condotto e capiranno che siamo fuggiti - e se non lo hanno già fatto, non ci mancherà molto – setacceranno palmo a palmo tutta la zona industriale. Non possiamo rimanere qui.
- Dove possiamo andare?
- Nei pozzi – rispose la ragazza – Dobbiamo scendere in un pozzo e nasconderci aspettando. Domani, quando smonterà il primo turno, anzi, meglio il secondo, potremo tentare di uscire confondendoci con i miners che smontano.
Ad Arthur il piano sembrò sensato e si disse pronto.
Il primo pozzo distava un duecento metri da dove si erano fermati e quei duecento metri erano totalmente scoperti ed illuminati dalla luce fredda di Emerald City.
Si avviarono di corsa, in linea retta.
Raggiunsero ansimanti la protezione di un traliccio di una gigantesca gru e si voltarono. In lontananza, i mezzi della sorveglianza volavano in ampi circoli. La caccia s’era aperta, ma era ancora lontana.
La ragazza lo guidò, aggirando le strutture del pozzo.
Giunta dall’altra parte si fermò
- Dobbiamo cercare di arrivare a quell’altro pozzo – e indicò, con un cenno del capo, una struttura più interna – questo è troppo ovvio e finiranno per esplorarlo.
Arthur si volse, il capitano Gile procedeva con metodo, ma lentamente. Annuì.
Ripeterono l’operazione un’altra volta, fino a raggiungere un pozzo molto interno nella zona.
La ragazza annuì soddisfatta.
- Qui dovremmo essere tranquilli – disse, e si avviò verso il ciglio del pozzo.
Aveva un diametro di una cinquantina di metri, ed era servito da quattro ascensori e due gru.
Sull’altro lato della circonferenza, una scala metallica a pioli, con una gabbia metallica di protezione, era la via di accesso pedonale al pozzo.
Raggiunsero la scala ed iniziarono a scendere, la ragazza davanti ed Arthur, dietro, che la seguiva.
La scala scendeva per una decina di metri, per interrompersi in una piccola piattaforma metallica, protetta da un parapetto, e poi riprendere, leggermente sfalsata, a discendere per un’altra decina di metri, in una serie che sembrava non dovesse finire, se non sul fondo del pozzo, a quattromila metri di profondità.
Il rumore che producevano muovendosi su quella struttura metallica, ad Arthur sembrava un frastuono in grado di attirare su di loro l’attenzione di ogni uomo della sicurezza presente ad Emerald City.
Ma non vedeva alternative.
La luce si era andata affievolendo mano a mano che scendevano lungo le pareti del pozzo e quasi non si accorse quando raggiunsero un piano di roccia.
Sollevò il capo, il cielo era una moneta lucente sulle loro teste.
Erano discesi almeno duecento metri lungo le pareti del pozzo.
La ragazza stava tastando la parete in cerca di qualcosa.
Finalmente sembrò trovarla e una sezione rettangolare della parete ruotò rivelando, illuminato da una fosforescenza, l’interno di una cabina che avrebbe potuto contenere una decina di persone.
- E’ il sistema pneumatico di emergenza. Nel caso ci siano problemi all’alimentazione degli ascensori – spiegò – Tieniti forte.
Arthur ebbe appena il tempo di aggrapparsi ad un grande maniglione, che il pavimento sembrò svanirgli da sotto i piedi.
Precipitarono per lunghi secondi, forse minuti.
Poi, solo un po’ più dolcemente, la cabina rallentò fino a fermarsi.
Uscirono.
Il pozzo aveva una lieve luminescenza. Il cielo, in alto, era scomparso.
- Siamo a millecinquecento metri di profondità – l’informò la ragazza, mentre Arthur tentava di compensare il cambio di pressione nelle orecchie – Dobbiamo continuare – ed aprì un’altra cabina.
Ripeterono la discesa due volte, aggiungendo altri duemila metri alla distanza tra loro e la superficie.
Quando uscirono dalla terza cabina, si trovarono alla sommità di una gigantesca caverna, il cui fondo distava ancora diverse centinaia di metri dalla loro posizione.
Una rampa artificiale, adeguatamente larga per consentire il passaggio di mezzi meccanici, scendeva verso il fondo seguendo, con un andamento a spirale, le pareti della caverna.
Al centro della caverna, su di una piattaforma quadrata, un vagonetto autopropulsivo, per il trasporto del materiale in superficie, aspettava.
Nastri trasportatori lo raggiungevano da ogni angolo della grotta.
Mentre in corrispondenza dei quattro lati della piattaforma, come colonne di un altare, si stagliavano verso l’alto i tubi traslucidi dei quattro ascensori, che risalivano sino alla superficie.
Scostandosi dal centro della caverna, la scena si frantumava sempre più in una congerie di strutture e macchine, utilizzate nelle operazioni di scavo.
Il tutto era illuminato dal lucore soffuso di lampade notturne.
- Dobbiamo scendere – disse la ragazza – Ci sono locali per le pause. Potremo riposare lì sino a che non inizia il turno di lavoro, domani mattina, e poi aspettare.
Si avviarono lungo la rampa.
Impiegarono quasi un’ora per raggiungere la base della caverna e per trovare una struttura di riposo.
Era in materiale sintetico, dotata di servizi e di distributori alimentari.
Si lavarono, mangiarono una razione alimentare e si sedettero, con un bicchiere di caffé sintetico confortevolmente bollente.
Per il momento erano al sicuro.
Parlarono a lungo scaricando la tensione.
Marta, questo era il nome della ragazza, aveva diciannove anni ed era nata su Emerald, da due coloni della prima ora.
Il padre era morto quasi dieci anni prima in un incidente in un pozzo.
Aveva lasciato la madre, una donna ormai abbrutita da quella vita, un anno prima, quando, maggiorenne, aveva iniziato a lavorare in un impianto di raffinazione, per pagare il debito verso la Mines & Stars, che i suoi genitori avevano contratto per suo conto, mettendola al mondo.
Era stata avvicinata, dopo qualche mese sul lavoro, da una donna più anziana che, dopo averla sondata, aveva iniziato a parlarle della rivelazione.
Neanche un paio di settimane dopo Marta s’era fatta estrarre il rilevatore, entrando in clandestinità e aveva partecipato alla sua prima riunione della Società, dove aveva conosciuto Jhob.
Arthur le chiese di parlargli della rivelazione.
- Nella storia di Emerald – iniziò la ragazza – ci sono state due spedizioni esplorative. La prima, quella del 2267, è quella ufficiale, conosciuta da tutti. Quella spedizione in realtà si limitò a fare tutti i rilievi necessari a calcolare il Fattore Holtzen del pianeta e a stabilirne l’abitabilità. La Vega 2, questo era il nome, era una nave della Marina della Confederazione in missione esplorativa. Terminati i rilievi, ripartì per una nuova destinazione. Martin Rodriguez, il capitano della nave, era un uomo fantasioso e fu lui a dare il nome, Emerald, al pianeta. Ma, per esempio, non pensò affatto a cambiare il nome della stella, che restava un’anonima sigla, la HR 732. Quella che molti non conoscono è la storia della seconda spedizione, quella della Sirio. Anzi, della doppia spedizione. Quella nave fece infatti due viaggi, nel 2347 e nel 2351, fermandosi sul pianeta entrambe le volte per diversi mesi. La nave era comandata da una donna, Wilma Shepard, ed era una nave modulare. A parte il centro di comando, era articolata in tre moduli indipendenti, che potevano atterrare e costituire vere basi operative indipendenti sulla superficie del pianeta. I tre moduli erano specializzati diversamente. Mentre due di essi erano attrezzati per sondaggi e ricerche minerarie, il terzo era attrezzato per ricerche biologiche e genetiche. Quello era il risultato di un compromesso raggiunto tra la Confederazione e la Mines & Stars, che finanziava quasi totalmente la spedizione. Nel rapporto della Vega 2 emergeva, infatti, la peculiarità tutta speciale dello sviluppo della vita su Emerald, e cioè la totale assenza di qualunque forma di vita animale, anche microscopica. Il dipartimento di scienze naturali era riuscito ad imporre uno studio approfondito, prima che fosse deliberata la concessione per la colonizzazione e lo sfruttamento di Emerald. La prima spedizione si rivelò estremamente interessante per entrambi le parti, tanto che fu decisa a breve la sua prosecuzione. I responsabili del modulo naturalista non vollero pubblicare i risultati del loro lavoro e dichiararono di voler attendere i risultati della seconda serie di rilievi e di esperimenti. Ma furono loro a proporre i nomi della stella Uraneo e del continente emerso, Pangea. Come furono loro a battezzare Aither la regione dove avevano deciso di far atterrare il loro modulo, che avevano chiamato Chronos. Tutto questo risulta dal diario del capitano Shepard e dalla sua testimonianza all’inchiesta.
- Inchiesta? – Chiese Arthur
- Si. In fase di atterraggio il Chronos precipitò e si schiantò al suolo. Non ci furono superstiti. La Shepard racconta che inviò tutte le navette sub orbitali della Sirio in soccorso. Ma le difficoltà di comunicazione nell’atmosfera di Emerald e le condizioni climatiche dell’Aither resero molto difficile la stessa individuazione del relitto e, comunque, non fu possibile fare nulla. La Sirio rientrò con i soli due moduli minerari e la Mines & Stars pretese che le fosse assegnata la concessione senza ulteriori ritardi. L’inchiesta si concluse senza responsabilità. Il Chronos era caduto per un malaugurato incidente. Ma chi ne aveva tratto i maggiori benefici era la Mines & Stars. E la Mines & Stars non è cosa che si fermi dinanzi a niente. Questa storia è poco conosciuta tra i miners. Ma il fatto che la concessione della Mines & Stars possa essere in violazione delle leggi sulla colonizzazione della Confederazione, che addirittura possa nascondere all’origine un crimine e una strage, ha aperto alla speranza che i contratti di lavoro possano essere dichiarati nulli. Il problema è trovare le prove e, un volta trovate, produrle in un tribunale della Confederazione. E’ su questo che è nata, ormai da anni, la Società dei Naufraghi del Chonos. Poi è arrivato Jhob.
- Già, cosa c’entra Jhob in tutto questo?
- Il capo del modulo naturalista era la professoressa Maria Allison. Con lei c’era il marito, il professor Tom Crhistiansen.
- … Erano i genitori di Jhob.
- Si
Arthur rimase in silenzio, assimilando quella notizia.
Marta proseguì nel suo racconto.
- Jhob ha ritrovato, tra le carte dei genitori, un blocco di appunti che il padre aveva preso durante il primo viaggio della Sirio e il primo periodo di lavoro su Emerald.
Arthur, pensò ai lunghi anni di amicizia con Jhob, che sapeva essere cresciuto con la nonna materna.
A quel velo di tristezza che scendeva sul quel volto perennemente allegro, quando le chiacchiere scivolavano su determinati discorsi.
Ora avrebbe voluto essere meno superficiale… allora.
- E’ venuto su Emerald ed è riuscito a prendere contatto con la Società. Ci ha dato speranza, quasi la certezza. Ci ha detto che la verità andava ben oltre ogni nostra immaginazione. Che la colpa della Mines & Stars coinvolgeva l’umanità intera e neanche noi non ne eravamo esenti. Ci ha detto di sperare e ci ha parlato di purificazione. Ci ha fatto adottare il rituale a cui hai partecipato …
- Ha costruito una chiesa – commentò a bassa voce Arthur.
- Poi è partito. Per la rivelazione finale, ha detto.
- Ma Jhob è un archeologo, non un biologo.
- Anche Tom Christiansen lo era. Si era preso un periodo sabbatico all’università, per accompagnare la moglie in questa spedizione.
- E scommetto che è stato lui a suggerire quei nomi – aggiunse Arthur.
Erano stanchi.
Trovarono dei cuscini ad aria su cui stendersi e cercarono di riposare.
Arthur era perplesso.
Ora ne sapeva molto di più.
La spiegazione razionale di quell’intrico in cui era rimasto impigliato gli appariva chiara e semplice.
Ma a questo punto era il comportamento di Jhob incomprensibile.
La via maestra era dimostrare che la Mines & Stars violava le leggi sulla colonizzazione.
Magari che si fosse macchiata del delitto di strage.
Allora, cosa significavano tutti quei riferimenti misterici e quel misticismo anacronistico?
Forse l’amico era rimasto sconvolto dalla scoperta di quegli appunti e dal sospetto, più che fondato, che i suoi genitori erano rimasti vittime di una strage premeditata.