martedì 27 novembre 2007

Il papillon

- E’ pronto! … Ti ho preparato il risotto ai funghi. Se si fredda non è più buono, lo sai.

- Ho trovato i porcini.

- Dai, esci. E’ pronto!

- Che hai? Stai male?

- Certo che ormai certe cose non ce le si può più permettere. Sai quanto hanno avuto il coraggio di chiedermi per quei quattro funghi?

- Ehi, dico a te! Potresti anche rispondermi.

- E va bene, buttiamo i soldi dalla finestra. Ma a te cosa importa? Sono io che devo tirare avanti con quei quattro soldi della pensione di tuo padre. Lo so io quello che significa! E con tuo padre che non capisce.

Dai su, vieni fuori che se torna tuo padre sono io che lo sento. Non sprechiamo il ben di dio!

- Stai male? Vuoi che chiami il dottore?

- Perché invece non ti cerchi un lavoro?! Il figlio di Rosa, lui il lavoro se l’è trovato, altro che storie. La colpa è la mia, lo so: sempre il piatto pronto, la serva a sgobbare, i jeans nuovi e come fa a venire a uno la voglia di lavorare?

- Dai, vieni a mangiare.

- Ma che ti ho fatto?
Tanto lo so che alla fine la colpa è la mia. Come al solito. Oh, ma adesso sono stufa però! Non ce la faccio più! Questo è il ringraziamento per tutti i sacrifici che ho fatto. Ma tanto non ho mai fatto niente a nessuno, io. Saranno almeno dieci anni che non entro in un cinema. E tuo padre che non capisce. Mai un divertimento, mai una cosa per me

- Ma adesso basta, basta! Sapete che vi dico? Arrangiatevi. Io prendo e vado da Amelia, che sono anni che tua zia mi invita.

- Su, dai, adesso basta. Vieni fuori e mangia.

Rimase in silenzio tendendo l’orecchio oltre la porta color crema anemico e confidando nella proverbiale indiscrezione del tamburato degli infissi d’un caseggiato popolare.
Il tramestio, che da un canto la rassicurava, faceva montare in lei una sorda irritazione. Sentiva d’aver esaurito gli argomenti e di non averne tratto nulla. Sentiva di essere inadeguata, inadeguata ed impotente. Ed era più frustrata dall’intelligenza di questa consapevolezza che dalla stessa deficienza delle sue capacità.
Si ritrasse dall’ombra dell’angusto corridoio nella penombra della camera da letto.
La ridondante specchiera d’una toletta di datato gusto popolare rifletteva, tra spazzole foderate in tessuto damascato e madonne dalle traslucide luminescenze, la sua immagine disfatta.
Con le dita rastrellò inutilmente il grigio scomposto dei capelli. L’iperteso colorito del suo volto, gonfio di trascuratezza e commiserazione, l’angosciò come sempre.
Ciabattò verso il letto e si distese sulla trapunta chiudendo le palpebre, senza trarne alcun giovamento.
Il capo reclinato, le labbra socchiuse, due occhi attenti, gonfi di meraviglia, esploravano le dita dei piedi impercettibilmente contratte.
Lontano, molto lontano, oltre il deserto e la Samarìa, l’eco di una voce chiamava.
- Non ora, non adesso!
La mano, che aveva finora carezzato con il lieve sfiorare dei polpastrelli la pelle, ebbe uno spasmo.
- Dopo! … dopo … dopo avremo tempo. Dopo potremo ascoltare … dopo …cosa?
Il profilo irregolare dell’alluce sinistro lo colmò di meraviglia.
Saliva le scale sgretolate più dall’incuria che dagli anni.
Gli ingiuriosi graffiti d’una triviale polluzione adolescenziale disegnavano sull’ocra lavabile delle pareti la rappresentazione d’una miseria peggiore della povertà.
Saliva a capo chino, il passo appesantito da una stanchezza solo in parte dettata dall’età. Con gesto meccanico, sugli ultimi gradini di accesso al quarto piano, frugò nella tasca dei pantaloni alla ricerca del mazzo di chiavi. Senza gioia né sollievo infilò la chiave nella toppa e aprì la porta.
Ebbe immediatamente la sensazione che nulla fosse mutato, anzi, il non udire il consueto chiacchiericcio della moglie gliene diede l’intima certezza.
Con gesto lento si tolse il cappello a falde flosce ed il soprabito per poi appenderli, con amara cura, all’attaccapanni di uno di quei mobili da ingresso d’altri tempi con gli ottoni lucidi e le imbottiture foderate di scene silvestri.
Irritato, deglutì tentando di rimuovere il fastidioso groppo che gli occludeva la gola.
Fu nell’entrare in corridoio che riconobbe l’odore che l’aveva accolto sulla soglia. Sentì la rabbia repressa serrargli i molari, respirò profondamente e s’avvio in cucina.
L’occhiata in tralice gli rivelò quanto bastava.
Con plateale calma si sedette al tavolo e aprì il giornale ostentando alle pareti una tranquilla lettura.
Ci fu un lungo momento di sospensione, uno di quei momenti in cui i sensi paiono acuirsi o, meglio, in cui affiorano quei “retrosensi”, quei retrobottega delle percezioni dove si affastella ciò che normalmente trascuriamo.
Quel che si sarebbe detto silenzio tuonava delle parabole di motori a scoppio, dell’acuta litania di una madre, di giochi e pianti da cortile … del suo respiro involontariamente, ma percettibilmente più breve …
Stropicciò bruscamente il giornale e voltò pagina per coprire il frastuono.
Più che sentire, intuì l’arrivo della moglie.
Resistette all’impulso di sollevare lo sguardo.
Un osservatore sensibile avrebbe colto quell’eccesso di curvatura disegnato dalle spalle di lui, ma lei, l’occhio teatralmente vacuo, era così immersa in quel suo ruolo di disperata rassegnazione da non rendersene conto. Seguendo le battute di un copione che non le procurava alcun godimento, scostò di tre quarti dal tavolo la sedia posta di fronte a lui e, avvertendo come d’un tratto il peso delle ingiurie del tempo e dell’umana cattiveria, vi s’accasciò con un sospiro che sapeva di rantolo.
Dopo una lunga pausa quasi sussurrò:
- Non so più che fare. Parlaci tu.
- Il Presidente del Consiglio ha dichiarato … Il Presidente del … dichiarato … il Pre…
I muscoli sconvolsero il volto di lui con una fulminea contrazione, mentre tentava inutilmente di riannodare il senso delle parole che leggeva. Avvertì un lieve tremore nelle mani e fu lucidamente conscio d’essere in procinto di perdere il controllo … La cosa non lo preoccupava affatto.
- Ma almeno vorrei sapere che cosa è successo – continuò lei nel soliloquio – Io non capisco. Ho chiamato Claudia ed è caduta dalle nuvole: non lo sente da due giorni e, anzi, dovrebbe venire qui da un momento all’altro. Franco e Giovanni l’hanno lasciato ieri prima di pranzo e non mi hanno saputo dire niente.

- Insomma dì qualcosa! E’ tuo figlio lì dentro, lo sai?!
Avrebbe potuto ucciderla.
Il pensiero gli trapassò il cervello come una gelida lama sortendo un effetto al momento sedativo.
Perché? Perché aveva sposato quella donna?
- Niente, legge il giornale, lui! Ma io non ce la faccio più a sopportare! Se mi volete mandare “ai pazzi” ci state riuscendo. Io sono stanca, stanca!

- Dai, parlaci tu. Vedi di farlo uscire …
La sonora esplosione del colpo a mano aperta che sferrò sul tavolo fu l’evidente manifestazione dell’energia compressa dalla sua rabbia.
Sollevò il capo e si rese conto, con una gratificante sensazione, che i suoi occhi l’avevano spaventata.
Ispirò tra i denti e …
- E’ permesso? … Buon giorno signor Antonio, buongiorno Anna.
L’aria rimase rarefatta per un breve, percepibile istante sufficiente all’intuizione di Claudia, poi, con un intelligibile bofonchiare di risposta, estrema concessione alla cortesia, chinò la testa riprendendo a fissare le colonne del giornale.
- Dov’è?
Lei, in parte a causa dell’effettivo deficit salivare prodottosi nell’istante di crisi, in parte a tono con suo ruolo, deglutendo, gli occhi chiusi, spinse il capo trasversalmente all’indietro, indicando col gesto la camera.
Claudia ebbe un’indecisione e quindi continuò:
- Ma esattamente che cosa è successo?
Ebbe in risposta una stretta di spalle.
- Ieri pomeriggio s’è chiuso a chiave in camera e non è più uscito. Ha spostato i mobili contro la porta e ha detto di avere da fare.
- Che cosa?
- E chi lo sa! Da questa mattina non risponde neanche più.
- Ma non starà male?
La risposta fu un gesto d’impotenza sconsolato.
- Ma bisogna fare qualcosa! – e ciò dicendo s’avvio decisa alla camera.
La madre la seguì dopo un’occhiata in tralice a quel giornale aperto.
Con Claudia aveva superato da tempo l’imbarazzo della familiarità forzata: le piaceva davvero quella ragazza. Le piacevano la sua franchezza e la sua risoluta decisione. Forse erano quelle le cose che più apprezza in lei perché sentiva essere proprio quelle le più gravi falle nel carattere del figlio: sfuggente, inconcludente e melanconico, privo d’ambizioni, scarso d’amici, non era esattamente il più felice “scrigno” delle riposte speranze di due genitori già così spoetizzati dalla vita.
- Sono Claudia. Dai, apri!
Dopo aver tentato comprensibilmente e stupidamente di aprire la porta abbassando la maniglia cromata, Claudia si frugò nei comodi pantaloni di tessuto scozzese e ne trasse un pacchetto di sigarette floscio e un accendino. S’accese una sigaretta ed inspirò due ampie boccate.
- Ascolta, ti senti male? I tuoi genitori sono veramente preoccupati.

- Ma almeno che ti è successo?
- E’ Claudia!
Con gesto nervoso la ragazza la invitò a tacere: dalla stanza provenivano suoni d’inequivocabile attività.
- Sta uscendo? – bisbigliò la madre, ma Claudia la zittì con l’indice levato a separar le labbra.
Dopo istanti di incertezza la ragazza arrischiò un:
- Che fai?

D’improvviso, le voci amplificate dalla tromba delle scale, trasmisero il segnale d’un accadimento di rilevanza condominiale.
Non vi prestarono attenzione finché il trillo del campanello ed il battere frenetico di mani sulla porta li riscosse.
Fu la madre che, per prima, andò all’uscio preconizzando il nesso.
Franco, la fronte imperlata di sudore, il fiato rotto, parlò di davanzale e di finestra. Antonio lo scostò e, senza una parola, andò deciso alla porta della stanza, ne saggiò la consistenza, ne verificò la chiusura ed assestò una spallata poderosa. Si scostò, guadagnando per intero l’esiguo spazio disponibile e ritentò senza successo. Sferrò allora col tacco della scarpa un forte calcio sollevando il più possibile la gamba ed ottenendo lo sfondamento della lamina del tamburato.
- Maledizione, s’è barricato! – imprecò e poi gridò – Non fare stupidaggini! Sono Antonio, vieni dentro e aprimi!
Claudia già correva due piani più in basso mentre la madre, imbambolata tra cucina ed uscio, si sorprese a considerare l’imbarazzante presenza della signora Gina, in vestaglia rossa e bigodini in testa, sull’uscio della porta di fronte.
Guardò il marito, aprì la bocca e corse anche lei giù per le scale.
Rimase solo, al tavolo da cucina, senza più posare la lettura. D’incanto la rabbia s’era dissolta come la spirale dei ragionamenti che l’alimentavano. Se ne rimase lì, attonito, la mente cauterizzata da un’angoscia esiziale.
Nel cortile, intorno e su quella ch’era stata l’intenzione di un’aiuola, tra una collinetta di detriti edili, ricordo di un remoto intervento e quell’abete miracolosamente rigoglioso su quell’avaro terreno giallastro e polveroso, s’era radunata un’eccitata folla, mentre cento teste erano affacciate alle finestre degli edifici circostanti come dai palchetti di un teatro.
La madre uscì dall’ombra dell’androne e fu aggredita dall’impietosa luminosità del giorno. Avanzò incespicando per alcuni metri, si volse e sollevò lo sguardo.
Sul muro scrostato, in alto, dopo fila di bucato steso al sole, due persiane marroni incorniciavano l’immagine del figlio.
Era lì, ritto, nella completa nudità, le braccia tese a puntellare gli stipiti della finestra, il capo sollevato ad annusare il cielo.
Suo malgrado, più dell’imminente, tragico epilogo, più dell’angoscia materna, il sentimento che più la percosse fu la vergogna di quel sesso leggermente eccitato in bella mostra.
- Fate qualcosa!
- Bisogna chiamare i pompieri.
- Mio marito è corso a telefonare.
- Mamma, ma è nudo!
- Zitto, Giggino.
- Questo si butta … si butta!
- Signora Anna! … Ma che è successo?
- Lasciatela stare, poveretta.
- Ci vogliono delle lenzuola … si, delle lenzuola.
- Che cosa?
- Delle lenzuola. Le teniamo sotto fino a che non arrivano i pompieri.
- Ohé, si è mosso!
- No, no! Fermo!
- Mio dio, mio dio! Quello si butta!
- Mmm, se lo voleva si sarebbe già buttato. Al massimo cade giù.
- Ma che vuole? Un lavoro?
- Mamma, ma che fa?
- Va’ a casa, che non è uno spettacolo per te.
- Bisogna chiamare Don Guido.
- Ehi, ehi! Si sta per buttare!
- No, no! Fermo!
Con gesto ieratico si lanciò nel vuoto, mentre la piccola folla gridò all’unisono l’orrida eccitazione.
L’urlo morì a mezz’aria, le bocche sguaiate e senza suoni, gli occhi tramutanti dall’orrore alla sorpresa.
Celate fino ad allora dal gioco d’ombra del davanzale, due eteree ali s’erano spiegate sulla sua schiena. Due appendici all’apparenza fragili, ampie e ondeggianti, d’una materia traslucida, simile a seta.
Su un fondo giallo paglierino due larghe pennellate porpora, dalla simmetria riflessa, segnavano due iperboli gemelle. Sui lobi prominenti del lato superiore esterno, due cerchi blu di Prussia erano una suggestione d’occhi.
Restò sospeso al fremere delle ali per qualche istante.
- Carlo!
Il grido della madre ruppe l’incanto e, mentre per linee curve, al ritmo pacato delle onde, lui vagava all’apparenza senza meta, la folle ruppe l’argine e straripò in una babele di gesti e di suoni.
No, non era vero. Non poteva essere vero! Ora si sarebbe svelato il trucco e avrebbero riso per mesi di quell’ingegnosa burla. Ora, ora il gioco sarebbe finito, ora …
Ma Carlo non si posò. Col batter d’ali simile a un fremito, seguendo la spirale di un’invisibile pista, prese a salire sempre più verso l’alto, fino a divenire un puntino indistinto nel celeste screziato di bianco e poi più nulla.
S’inebriò del fluire dell’aria sul suo corpo.
Lasciò che impalpabili correnti lo carezzassero sensualmente nel sospingerlo verso l’alto dove un richiamo ancestrale lo esigeva.
Distrattamente gettò uno sguardo verso il basso, verso la disarmonica escrescenza da cui era partito.
Percepì il barlume d’un ricordo, quasi l’astratta idea d’un legame, d’un passato.
Gli parve di udire una voce … la voce … oltre il deserto e la Samarìa …
Ma il sole era tiepido, l’aria era pregna degli umori seminali delle piante e lui cedette ai sensi.
S’avvio al giorno, senza sapere di non aver domani.
Senza distinguere tra l’eterno e l’ora.
Riuscendo a vivere, semplicemente.

Nessun commento: