mercoledì 28 novembre 2007

sulla piattaforma del comitato per la pensione pubblica

Le riforme pensionistiche degli ultimi quindici anni hanno avuto come obiettivo la riduzione delle pensioni pubbliche e l'inasprimento dei requisiti necessari per accedervi.
I risultati sono una pensione pubblica insufficiente a garantire un tenore di vita dignitoso a chi abbandona la vita lavorativa e, per i precari, la negazione di fatto di una qualsiasi reale prospettiva pensionistica.
L’alternativa che nelle cosiddette riforme viene delineata si fonda sul trasferimento ai mercati finanziari, principalmente con il conferimento del TFR ai fondi pensione, di parte del salario dei lavoratori.
Questo disegno, che affida l'aspettativa di una pensione adeguata alla volatilità dei mercati finanziari, non offre alcuna certezza sull'entità della rendita futura, mentre si inserisce in un più generale processo di attacco al salario - diretto, indiretto e differito - dei lavoratori e di smantellamento e privatizzazione dello stato sociale.
Infatti, l'obiettivo di queste cosiddette riforme è quello di operare una redistribuzione sociale di risorse dal salario ai profitti ed alla rendite – che si presentano fortemente intrecciati - risollevando i margini di profitto in una fase economica che si caratterizza per il permanere di un'onda lunga recessiva.
E’ in questa logica che si inscrive il rafforzamento del ruolo dei fondi pensione che, operando una pressione costante per l'aumento dei rendimenti e quindi dei profitti, spingono ad un costante aumento della pressione sui lavoratori e sull'ambiente, ad una deregolamentazione delle normative ambientali, lavorative e sociali, a sempre maggiori politiche di "rigore" economico e quindi a sempre maggiori privatizzazioni e tagli allo stato sociale.
L'ultimo tassello in questo processo è l'utilizzo del meccanismo truffaldino del silenzio assenso per far confluire il TFR nei fondi pensione.
Contro la politica dei redditi e lo smantellamento dello stato sociale, per denunciare quali siano le vere motivazioni delle controriforme pensionistiche e prospettare l’alternativa possibile che possa consentire ai futuri pensionati una vita dignitosa, un primo passo è necessario e indispensabile.
I lavoratori devono esprimere il loro sonoro dissenso al trasferimento del loro TFR nei fondi pensione.
Ma allo stesso tempo diviene necessario contrastare le nuove e rinnovate aggressioni al sistema previdenziale pubblico, preannunciate per i prossimo mesi, senza che hai lavoratori venga assicurato l’irrinunciabile diritto di pronunciarsi democraticamente sulle questioni che li riguardano direttamente.
Questa piattaforma ha un obiettivo dichiarato.
Quello di affermare concretamente la necessità di ripristinare un sistema previdenziale fondato su una previdenza pubblica, finanziata col metodo della ripartizione ed erogante pensioni annue calcolate secondo il sistema retributivo già utilizzato prima dell’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335 – la cosiddetta riforma Dini - ed ancora applicato per interno a coloro che al 31 dicembre del 1995 potevano vantare almeno diciotto anni di contribuzione.
Intendiamo affermare con forza che, contrariamente a quanto ci è stato ripetuto da almeno tre lustri, sino a farlo penetrare nel senso comune delle persone, l’adozione del metodo di calcolo “contributivo” (che a regime, ovvero per coloro che al 31 dicembre 1995 avevano meno di otto anni di contributi, comporterà, a parità di contributi e di anni lavorativi, una decurtazione della prima pensione del 40-50 per cento), non trova alcuna reale giustificazione.
Nel merito, le stesse previsioni assunte a giustificazione del riassetto del sistema previdenziale operato con la Dini, spostavano avanti nel tempo, in termini di decine di anni, l’ipotesi di un possibile dissesto – peraltro temporaneo e relativo a solo pochi anni consecutivi intorno al 2036 - dei conti previdenziali.
Se la distanza nel tempo e la limitata durata dello squilibrio diagnosticato avrebbero comunque lascito ampio margine per la predisposizione di specifici e limitati interventi congiunturali che non travolgessero e snaturassero il sistema previdenziale pubblico (come ad esempio è stato fatto in Francia, dove in previsione della “gobba”, è stata salvaguardata la pensione pubblica a ripartizione con la creazione di un apposito Fondo di riserva: il FRR), le previsioni assunte a base della riforma erano inficiate quantomeno da tre elementi.
In primo luogo il peso della previdenza sui conti pubblici era ed è “truccato”.
Truccato perché, mentre in buona parte dei paesi europei le pensioni non sono tassate, in Italia la spesa pensionistica è gonfiata calcolandola al lordo delle tasse. Ovvero vengono conteggiati soldi che i pensionati non vedono e che le casse dello Stato passano da un cassetto all’altro, con una semplice partita di giro.
Truccato perché alla spesa previdenziale, viene sommata la spesa assistenziale.
In Italia viviamo un’assurda contraddizione. La solidarietà sociale, che per logica e giustizia dovrebbe coinvolgere tutta la popolazione e che, quindi, dovrebbe essere finanziata dalla fiscalità generale, è finanziata dai soli lavoratori attraverso l’INPS.
In secondo luogo nel computo dei possibili, futuri contributi versati, si sono attenuti al semplice rapporto tra l’innalzamento delle speranze di vita e la contrazione delle nascite (il mito delle cosiddette culle vuote) senza tenere in alcun conto le reali dinamiche sociali.
Ad esempio non si è tenuto conto della contribuzione relativa ai lavoratori migranti operanti nel nostro Paese e della cui crescente necessità si fa interprete lo stesso mondo imprenditoriale.
Non si è tenuto conto della disoccupazione reale, ben più alta di quella raccontata dai dati ufficiali, calcolati sulla base di parametri addomesticati. Disoccupazione che dimostra quanto distante sia il nostro sistema economico dalla saturazione delle proprie capacità produttive.
Nella sostanza, ogni possibile calcolo fondato sul rapporto natalità/speranze di vita era ed è destituito da ogni fondamento, così come ogni ipotesi di riduzione o stagnazione della base imponibile contributiva fondata su detto rapporto.
In terzo luogo, valutare la sostenibilità di un sistema previdenziale sulle base delle previsioni di bilancio a lungo termine è improprio.
Il fattore determinante da prendere in considerazione è l’incremento di produttività del sistema paese, cioè l’incremento della capacità di produrre ricchezza, della capacità di soddisfare le necessità ed i bisogni dei pensionati del futuro a prescindere dal loro numero e dal rapporto tra il loro numero ed il numero degli occupati.
Se, infatti, oggi un solo lavoratore è in grado di produrre la stessa quantità di beni che quaranta anni fa producevano 20 lavoratori, ciò non significa che questo lavoratore lavori di più. Significa che produce di più soddisfacendo, lui solo, necessità che un tempo richiedevano il lavoro di venti persone.
Chi è in grado, oggi, di prevedere con un minimo di onestà intellettuale, quali saranno le capacità produttive del nostro paese tra trenta anni?
Nessuno.
Ripristinare pertanto un sistema previdenziale pubblico, finanziato col metodo della ripartizione ed erogante pensioni annue calcolate secondo il sistema retributivo e rivalutate sulla base delle dinamiche salariali è possibile, doveroso e necessario.
Possibile perché non sussistono reali ragioni che ostino alla sua adozione.
Doveroso perché altrimenti l’introduzione del sistema di calcolo contributivo operata dalla Legge Dini, si concretizzerà, al momento della sua applicazione, con una decurtazione della pensione tale da rendere la stessa inadeguata e insufficiente e nella sostanza assimilabile ad una sorta di sussidio di povertà per l’anziano.
Necessario perché il sistema di finanziamento a ripartizione, proprio della pensione pubblica è l’unico in grado di mettere al riparo il pensionato da ogni possibile rischio cui, al contrario, sono soggetti i capitali accumulati con il sistema della capitalizzazione, proprio delle forme pensionistiche complementari.
Un altro obiettivo qualificante della piattaforma è la questione della precarietà.
La precarietà e la discontinuità del lavoro, il quadro normativo, le condizioni oggettive e soggettive in cui un numero sempre maggiore di lavoratori è costretto a prestare la propria opera lavorativa sono tali da disattendere nella sostanza il dettato della Costituzione Repubblicana che, all’articolo 38, impone allo Stato di garantire ai lavoratori “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in casi di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
La situazione è a questo proposito di tale gravità che gli stessi interessati hanno come interiorizzato la perdita di questo diritto costituzionale.
Perdurando l’attuale quadro normativo, ed in totale contrasto con quanto sostenuto al momento dell’approvazione delle varie leggi di riforma del sistema previdenziale, i lavoratori atipici e discontinui non saranno di fatto in grado, nella stragrande maggioranza dei casi, di precostituirsi una posizione previdenziale diversa dalla pensione sociale.
Con questa piattaforma ci prefiggiamo di introduce un sistema di contribuzione figurativa a copertura dei periodi involontari di non lavoro, finanziato attraverso una contribuzione aggiuntiva a carico dei datori di lavoro o committenti che usufruiscono di forme atipiche e discontinue di lavoro, diverse dal lavoro subordinato a tempo indeterminato, assunto come forma tipica e preminente di contratto di lavoro. La contribuzione aggiuntiva, nella sostanza, dovrebbe ridurre anche i vantaggi incentivanti il ricorso alle forme atipiche e discontinue di lavoro, puntando di fatto a calmierare il ricorso a dette forme di sfruttamento.
Ancora con la piattaforma ci prefiggiamo di modificare le modalità di incremento annuo ed il regime fiscale del Trattamento di Fine Rapporto.
Le mutate caratteristiche del mondo del lavoro e il crescente spezzettamento della vita lavorativa di ogni lavoratore in un sempre più crescente numero di episodi lavorativi, fanno sì che cresca la necessità di un sostegno al reddito del lavoratore stesso nei periodi di non lavoro. In questo senso negli ultimi anni è cresciuto il ruolo di ammortizzatore sociale svolto dal Trattamento di Fine Rapporto, cosa che, tra l’altro, rende quantomeno improvvida l’ipotesi che vuole il conferimento dello stesso nelle forme di previdenza integrativa.
Ma c’è molto di più.
Sia il Trattamento di Fine Rapporto e sia i contributi versati alle forme pensionistiche complementari sono forme di risparmio dei lavoratori ed hanno natura di retribuzione differita.
Entrambe queste forme di risparmio producono un montante erogabile in forma di capitale o in forma di rendita.
La differenza tra le due forme di risparmio è che il Trattamento di Fine Rapporto ha una rivalutazione annua predefinita per legge, è garantito dall’apposito fondo istituito presso l’INPS ed è impiegato quale fonte di autofinanziamento dall’impresa.
Le forme pensionistiche complementari hanno rivalutazioni del montante aleatorie, determinate dall’andamento dei mercati finanziari e dalle scelte operate dai gestori finanziari, non danno garanzie di restituzione del capitale versato e vengono impiegate sui mercati finanziari di tutto il mondo venendo sottratte al sistema delle imprese del Paese.
Esaminando l’andamento dei rendimenti delle forme pensionistiche complementari dal 1999 ad oggi emerge come quantomeno non siano certe o anche solo probabili previsioni di loro rendimenti superiori a quello assicurato dal Trattamento di Fine Rapporto.
Ai fini previdenziali -0 se quanto affermiamo è vero, e non riteniamo possa venire contestato, una disparità di regime fiscale tra le due forme di risparmio a favore delle forme pensionistiche complementari è assolutamente ingiustificata.
La piattaforma si prefigge allora di ottenere, a favore del Trattamento di Fine Rapporto, il medesimo regime fiscale previsto a favore delle forme pensionistiche complementari.
In merito appare inoltre evidente come, anche volendo attribuire al TFR una funzione residuale di risparmio a fini previdenziali, il suo mantenimento in luogo del conferimento nei fondi si traduce nel permanere in azienda del capitale, cosa che risolve all’origine il problema delle compensazioni a favore delle imprese per la perdita di questa determinante fonte di finanziamento e il conseguente problema legato all’accesso al credito delle aziende in difficoltà.
La rivendicazione della modifica delle modalità di incremento annuo del montante del Trattamento di Fine Rapporto assolve poi a due funzioni precipue.
Assicurando rendimenti certi e consistenti, assolutamente non ottenibili con le forme di previdenza integrativa, da una parte consente di poter precostituire un reale sostegno al reddito del pensionato, mentre dall’altra incrementa l’efficacia dello stesso Trattamento di Fine Rapporto nella sua funzione di ammortizzatore sociale in caso di perdita del lavoro.
Il costo di questa semplice proposta è in realtà di modesta entità e si può tradurre nella deducibilità fiscale a favore delle imprese sulle somme accantonate annualmente di una percentuale pari a quella di incremento prevista della parte fissa del tasso di incremento annuo del Trattamento di Fine Rapporto.
Nella sostanza, mentre nella legge 252/2005, quella del silenzio/assenso, i costi relativi ad un’opzione per le forme di previdenza integrativa comportano, tra compensazioni alle imprese e garanzie per l’accesso al credito per le stesse imprese – ove tutti i lavoratori dovessero optare per il conferimento del loro Trattamento di Fine Rapporto in un fondo pensione – un costo superiore ai 5 miliardi di euro all’anno, con la nostra proposta, ove tutti i lavoratori dovessero optare per mantenere il proprio Trattamento di Fine Rapporto, i costi si ridurrebbero a qualche centinaio di milioni di euro all’anno, pur in presenza di una più efficace tutela previdenziale.

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