mercoledì 28 novembre 2007

Affabula

… No, sentite, lasciamo stare … è che non ho voglia di incazzarmi … e d’altra parte, se si ripetono delle assurdità – per quanto assurde siano – e se a ripeterle sono tutti, ma proprio tutti, chi volete che stia a sentire me. Chi sono io? … Nessuno, e allora ….
No, ma dico, se saranno vent’anni che ci dicono che bisogna tagliare le pensioni, che sono sempre meno quelli che lavorano, che si fanno sempre meno bambini, che ci ostiniamo a campare troppo e non ci decidiamo a togliere il disturbo crepando in tempo utile, sarà pur vero, no?
… Si, va bene, lasciamo perdere … il fatto è che non mi va giù, non mi va proprio giù, primo, perché sono sciocchezze, e secondo, perché, cosa c’entra tutto questo con le pensioni?
Mi guardate strano?
Va bene … sentitemi un momento.
Primo, e anche se questa storia delle “culle vuote” è una sciocchezza che non c’entra nulla con “le pensioni” … non guardatemi così, dopo ve lo spiego, chi parla così finge di non sapere che se gli italiani “doc” fanno meno figli, ci pensano i migranti a pareggiare il conto. Lo sapete che già l’anno scorso in Italia c’è stato un incremento delle nascite? Che la popolazione cresce? Certo, il ministro Calderoli già mal sopporta i piccoli Gennaro, Ciro e Rosalia, figuriamoci i giovani Mohammed, ma i conti su chi lavora e su chi versa i contributi si fanno senza distinzioni di razza, sesso, religione … “Contributi non olet, la merda padana, come ogni defecazione, si”.
Secondo. Si è vero, alla faccia di lor signori campiamo di più, ed anche se si ostinano a considerarci “risorse umane”, e cioè una merce prodotta per essere venduta, noi non nasciamo per incrementare il PIL, noi nasciamo per amare, soffrire, gioire e sognare. Noi non siamo un fattore economico, noi siamo i soggetti, non gli oggetti della storia.
Ma ci hanno detto che i conti dovevamo pure farli e che continuando come stavamo andando ad un certo punto non ci sarebbero più stati i soldi per pagare le pensioni, che ogni lavoratore avrebbe dovuto lavorare per se e per pagare, lui solo, la pensione a un pensionato.
… Vi faccio un esempio. Siamo nel 1965. Quarant’anni fa, l’anno in cui ha cominciato a lavorare chi oggi va in pensione col massimo dell’anzianità. Su oltre tre milioni e mezzo di contadini, quasi la metà lavorava al massimo un ettaro di terreno, praticamente un orto. Un’altra metà arrivava al massimo a 5 ettari, e, in pratica, meno di un decimo delle aziende superava i dieci ettari. I trattori erano in totale solo 377.000, praticamente tutti nelle aziende più grandi … Secondo voi, quale era la produzione agricola dell’Italia? Quanta frutta, quanta verdura, quanti cereali, quanti legumi venivano prodotti? E, soprattutto, quella produzione, i bisogni di quante persone soddisfaceva? A conti fatti quello che allora producevano in venti, oggi lo produce un solo contadino. E non perché lavori di più, non perché lavori per venti, ma solo perché l’organizzazione del lavoro e della produzione, lo sviluppo tecnologico e i dei mezzi di produzione richiedono meno lavoro, un ventesimo del lavoro che ci voleva quaranta anni fa, per produrre la stessa quantità di prodotti.
Vi svelo un segreto, però dovete mantenerlo: non sono i soldi a pagare le pensioni – è una sciocchezza! – è l’aumento della produttività, della capacità di produrre ricchezza, di produrre beni e servizi, l’unico indicatore che può dirci se saremo in grado di qui a quarant’anni di garantire una vecchiaia serena ai futuri pensionati, per quanti siano e per quanto si ostinino a permanere in vita!
Ma pensateci! Se fosse vero il ragionamento con cui ci hanno intortato, dei venti di quelli che lavoravano nel 1965, o diciannove oggi dovrebbero fare la fame, o quell’unico che lavora, dovrebbe stare alla catena per soddisfare le voglie dei diciannove vecchi aguzzini!
Lo so, questo ragionamento sembra strano: il lavoro ormai è una necessità della quale, se se ne deve parlare, se ne parla con imbarazzo. Mentre è il denaro, il denaro comunque, il simbolo del successo.
Ma in realtà i soldi non producono proprio nulla, è il lavoro che produce la ricchezza!
Ci hanno impressionato con la sciocchezza della “gobba”, cioè dicendoci che – pensate un po’ – intorno nientepopodimeno che al 2036 ci sarebbe stata un’impennata della spesa pensionistica che avrebbe portato i conti dell’INPS fuori controllo, “addirittura” per qualche anno – cioè fino a che non fossero finiti gli effetti del “baby boom” (di quando cioè gli italiani facevano troppi figli). Ma questa gobba si riferiva alle disponibilità di denaro, che poco o niente c’entrano con la questione delle pensioni.
Allora, se fosse stata onesta la preoccupazione sul futuro delle pensioni, altre sarebbero dovute essere le domande che si sarebbero dovute porre.
Saremo in grado, con lo sviluppo produttivo, il progresso scientifico e tecnologico, la gestione delle risorse, l’evoluzione sociale ed umana della nostra società, di soddisfare le necessità, i bisogni dei pensionati del futuro?
Già, ma chi sarebbe in grado di dare una risposta a queste domande?
E chi può dire quali saranno le capacità produttive tra altri 40 anni?
Chi sarebbe in grado, infatti, oggi, di ipotizzare in una maniera pur vagamente attendibile, quale sarà lo scenario economico, sociale, tecnologico, telematico che si presenterà nel 2036 o, peggio, nel 2050 (termine dei grafici che rappresentato la famosa gobba)?
Chi può ipotizzare quali saranno le congiunture, le innovazioni, le scoperte e rivoluzioni sociali che avverranno in questi quaranta anni e quando avverranno?
E se tornassimo al 1965, chi, a quell’epoca, poteva solo vagamente immaginare questo e non un altro 2005?
Siano nel 1965. Il salario di un operaio è di 86.000 lire al mese, un giornale e un biglietto del tram costano 50 lire, mentre un caffé 60, un chilo di pane 170 lire, mentre un litro di latte 130, 180 uno di vino, un chilo di pasta costa 260 lire e uno di carne 1.900. Una Fiat 600 costa 640.000 lire e la benzina 120 lire al litro. Un paio di scarpe costa 6.000 lire, un libro 1.800 e un frigorifero 60.000 lire.
Il 1965 è un anno di crisi economica – non sarà il solo – è l’anno dei decreti del governo Moro sull’economia che faranno aumentare la disoccupazione mentre salgono i prezzi e i capitali vanno all’estero … niente di nuovo sotto il sole … Ma è grazie a questi interventi – diciamo – “correttivi” del governo che si riesce a superare la congiuntura e si salva anche la “liretta” che il primo febbraio di quel 1965 riceve addirittura l’”Oscar monetario”, e poco importa se a pagare sono stati, come sempre, gli stessi.
I capitali a quell’epoca viaggiano ancora nelle valige di cuoio e, valicando Chiasso, incrociano le valige di cartone dei nostri poveri cristi cacciati dalla Svizzera.
“Pecunia non olet!””Maccaroni, si”
La miseria è una colpa che non si perdona, mai!
Il 14 febbraio, San Valentino … no, giorno della strage di San Valentino, la Svizzera chiude le frontiere.
Achtung italianen!
Chi è senza permesso di soggiorno viene arrestato. E per avere il permesso di soggiorno bisogna avere un’abitazione o una dichiarazione del datore di lavoro svizzero … Se gli estensori della legge si siano chiamati Krossi e Finen o Turken e Salernitano non saprei dirlo, fatto sta che si scatena la caccia all’extraelvetico, preso e sbattuto oltre la sbarra del confine, che non è a Lampedusa, non è a Otranto, non è a Siracusa. E’ lì, su quel cazzo di confine italo-svizzero, su quelle cazzo di montagne, dove in quel gelido febbraio del ’65 migliaia e migliaia di migranti siciliani, veneti, calabresi, abruzzesi, pugliesi, napoletani, bivaccano e dormono all’aperto per giorni e giorni, sui prati, senza nessuna assistenza, senza nessun intervento del governo italiano.
Addio Lugano bella, o dolce terra …
Ma non sono stati loro i più sfortunati.
Si, hanno fatto i lavori più umili e umilianti, hanno raccolto con le mani la merda perché la Svizzera divenisse il cesso più pulito d’Europa e per ben servito hanno ricevuto un calcio nel culo.
Ma non sono stati loro i più sfortunati.
La palma spetta ai cinquantatre, morti il 30 agosto di quel maledetto 1965, ai cinquantatre travolti da una valanga mentre lavoravano in un cantiere idroelettrico di Mattmark.
Loro il permesso di soggiorno ce lo avevano, un alloggio ce lo avevano, la dignità e la sicurezza sul lavoro, lì a Mattmark, no.

Ma torniamo agli interventi “anticongiunturali – così si diceva allora – del governo Moro. Torniamoci perché sono importati, perché lasciano il segno - anzi, meglio dire: “i segni” -, perché ci spiegano tante cose.
L’11 marzo, con la legge 123, il governo introduce finanziamenti straordinari per le aziende. In pratica, le aziende in crisi, ma anche chi voglia avviare una nuova impresa, può richiedere il sostegno economico dello Stato. Sarà l’IMI ad assumere partecipazioni, a costituire o a partecipare alla costruzione di società e – importantissimo – a concedere finanziamenti.
Bene, dov’è il problema? Che c’è di strano o di sbagliato? In che cosa questo “ragionevole” provvedimento avrebbe condizionato il futuro di questo paese?
Come spesso succede, il busillis non sta nella lettera della norma, ma nei comportamenti, nelle pratiche, oserei dire: nelle “opportunità” che l’esistenza stessa della legge suscita.
I finanziamenti bisogna richiederli, devono essere concessi e alla fine erogati.
Ed è a qualcuno che vanno richiesti, ed è qualcuno che manda avanti le pratiche, ed è qualcuno che poi discrimina quali domande accogliere e quali domande respingere.
Chi?
In quel 1965 le pratiche, tutte le pratiche, passano invariabilmente – credo sia più giusto dire “inesorabilmente” – per il referente locale del partito di maggioranza, una certa Democrazia Cristiana, che in quell’epoca è controllata dalla potentissima corrente Dorotea saldamente in mano al plenipotenziario veneto Rumor.
Altro dato.
Le banche incaricate di erogare i finanziamenti sono le Casse di Risparmio che, in Italia, sono per il 90% in mano alla DC - una quota che evidentemente garantisce il pluralismo – una percentuale che nel Veneto sale però direttamente al 100%!
… Indovinate un po’ che direzione geografica hanno preso gran parte di quegli incentivi?
Vi do un aiuto.
Solo l’anno precedente, dico nel 1964, il reddito del Veneto era al di sotto della media nazionale, era nell’ordine di quello della Campania e, all’incirca, era solo un terzo di quello della Lombardia.
Di punto in bianco, da quel 1965 Santo Rumor fa il miracolo e i veneti si “levano e camminano” “laboriosi” godendo del miracolo della moltiplicazione, non dei pani e dei pesci, ma dei finanziamenti.
E’ la parabola del nord-est col suo “cristiano” insegnamento che ci ricorda come “laboriosi” non si nasce, si diventa, con i soldi di “Roma ladrona”.
Ma non è il caso di esagerare, cerchiamo di essere giusti: la balena bianca è sempre stata previdente e da mangiare non l’ha mai negato a nessuno.
Tanto è vero che solo quattro giorni dopo, ovvero il 15 marzo, il governo vara un altro decreto che, tra l’altro, per favorire l’occupazione – ma è mai possibile che sia sempre questo il viatico, il salvacondotto, la scusa, per le peggiori schifezze servite a questo povero paese? – per favorire l’occupazione dicevo, finanza la realizzazione di opere pubbliche … Non vi ricorda niente, questo?
Tra l’altro è da questo momento che nasce l’epopea della cooperative rosse, della riserva “eldorada”, ma è anche questo il momento in cui si consolidano pratiche inveterate, che dico, inveterate? Millenarie!
Quali?
Un esempio per tutti.
Sapete qual è la storia, come nasce l’aeroporto internazionale di Fiumicino?
Nel ’62 un ex-ufficiale ha creato con i suoi parenti dieci società diverse e, non si sa come, non si sa perché, ha ottenuto l’appalto di tutti i lavori, dagli scavi alla fornitura delle matite per gli uffici …
Che dire, trattandosi dell’aeroporto della capitale della cristianità, non ci resta che esclamare: “Mistero della fede!”
Non basta, il 15 maggio il governo Moro proroga per altri 15 anni gli aiuti della Cassa per il Mezzogiorno che dovevano cessare quell’anno.
E no! – adesso mi direte – Qui casca l’asino. Al sud i soldi sono stati dati, offerti, serviti su di un piatto d’argento!
… Il fatto è che le cose non sono andata proprio così.
Si, è vero, massicci interventi in piccoli territori – con spreco enorme di risorse – ci sono stati. Valga per tutti l’Italsider di Taranto che viene inaugurata proprio in quel 1965.
Ma il dato di fatto certo è che la maggior parte di quei soldi al sud non sono mai arrivati. Sono finiti nelle società, nelle fabbriche del nord, con l’inveterato giochetto delle tre carte.
Come?
L’azienda del nord creava strutture, spesso virtuali, al sud ottenendo i benefici, gli incentivi e i finanziamenti a fondo perduto della Cassa per poi tornarsene bellamente indisturbata al nord.
Semmai al sud lasciava la sede legale che gestiva formalmente anche le strutture esistenti al nord in modo da continuare a godere – finché è durata - anche per quelle, dei benefici della Cassa.
Storture – direte voi – patologie del sistema, questi “usi” delle politiche economiche di quel governo Moro che, ripeto, portarono pure la lira all’Oscar monetario.
No, non erano storture, non erano patologie.
Erano la norma, il patto scellerato tra il sistema della politica e il sistema delle imprese che in quel 1965 si stringeva come un cappio attorno al collo di questo paese, gettando le basi dei decenni a venire.

Ma in quel 1965 c’è un personaggio che spicca, per me, su tutti … non spicca, diciamo, fisicamente: è un mezzo nano, ma, a onor suo, non è cavaliere.
E’ Amintore Fanfani, toscanaccio democristiano, ministro degli esteri di quel governo Moro, di quella italietta che saltimbanchi, buffoni e mangiatori di fuoco dei nostri giorni, senza storia e senza memoria, nemmeno conoscono, mentre blaterano di prestigiose investiture scodinzolando dietro un qualsiasi Bush.
Fanfani è un esperto di politica internazionale, e negli anni precedenti è stato molto attivo nel proporre soluzioni negoziali alle gravissime crisi che si sono succedute, dalla questione dei missili di Cuba, alla questione di Berlino. Si è scontrato però con l’ottusa supponenza e la cieca arroganza di quel John Kennedy, tanto amato da tanta parte della sinistra nostrana, quanto disastroso nella politica estera, dove ci ha lasciato in eredità il muro di Berlino e la guerra del Vietnam.
Fanfani, che sull’ammissione della Cina all’ONU in quegli stessi mesi contraddiceva la stessa politica filoamericana del governo Moro, il 21 settembre veniva eletto con 110 voti su 114, Presidente dall’Assemblea Generale dell’ONU.
… Vede, esimio cavaliere, il prestigio, come il coraggio, uno non se lo può dare …
A livello mondiale quel 1965 è un anno terribile.
Solo un anno prima gli americani hanno approfittato di un banale incidente navale nel Golfo del Tonchino per scatenare l’inferno sul Vietnam del Nord.
Jhonson, il presidente americano che è succeduto a Kennedy è convinto che un intervento militare in grande stile piegherà in solo sei settimane l’Iraq … scusate, il Vietnam.
De Gaulle, il presidente francese che di guerre coloniali se ne intende, avverte, inascoltato, gli americani.
Guarda, guarda, i corsi e i ricorsi storici!
Ma gli americani hanno i loro interessi e, per difendere il loro stile di vita, intendono “convincere” a suon di bombe il recalcitrante sud-est asiatico della bontà della democrazia.
Il 4 ottobre il papa Paolo VI è al palazzo di vetro dell’ONU per lanciare un accorato appello:
“Mai più guerre nel mondo!” dice “Siamo un popolo di Dio, occorre cooperazione, volontà di pace, negazione della violenza, favorire l’indipendenza dei popoli che hanno sofferto e che vogliono la loro libertà”.
Ma quello stesso ottobre il cardinale Spellman benedice 360.000 recalcitranti soldati americani che partono per il Vietnam con queste parole:
“Gli USA combattono una guerra santa e voi non state servono solo il vostro paese, ma state servendo Dio. Voi state difendendo la causa di Dio”.
… e parlano di fondamentalismo, parlano dell’odio islamico.
Avesse aggiunto “Dio lo vuole!”, avrebbe marciato alla testa della prima crociata del 1099!
E’ in questo clima che il 17 dicembre Fanfani, quale ministro degli esteri italiano e presidente dell’ONU, elabora con La Pira, sindaco di Firenze, una proposta di mediazione basata su concessioni in cambio della cessazione delle distruzioni.
La proposta trova l’assenso di Ho Chi Minh, Presidente del Vietnam del nord, ma lo sdegnato rifiuto di Jhonson.
La conseguenza di questo rifiuto sarà una guerra che proseguirà per altri dieci anni. Sino al 30 aprile del 75, quando cesserà con la fuga degli americani, che si lasceranno alle spalle 50.000 caduti, su tre milioni di soldati inviati; 14 milioni di tonnellate di bombe – pari a tre volte tutte le bombe sganciate sull’Europa e sull’Asia in tutta la seconda guerra mondiale – sganciate su un paese grande quanto l’Italia e, particolare irrilevante, due milioni di vietnamiti morti di “democrazia”.

Ma c’è un altro fatto in questo scampolo di ’65 che vede protagonista Fanfani.
Il 28 dicembre, a casa Fanfani – che è assente – ospite della moglie, c’è La Pira che, in presenza di un giornalista del Borghese, si lascia andare – e cacchio se non ne aveva tutte le ragioni! – ad alcune pesanti considerazioni contro americani, governo, Moro e lo stesso Paolo VI per le discordanze, le contraddizioni e le ambiguità che avevano fatto naufragare la soluzione pacifica della guerra del Vietnam.
Il giorno dopo tutte le confidenze finiscono sulle pagine della rivista e scoppia il putiferio.
E Fanfani che fa?
Fa notare che neanche era presente?
Dice che La Pira è stato frainteso?
Accusa il giornalista di essere in malafede?
No. Fanfani si dimette da ministro degli esteri.
Moro rifiuta le dimissioni ma Fanfani è irremovibile, conferma le dimissioni e non ricoprirà incarichi di governo fino al 1982.
Allora, scusate, di fronte agli squallidi cialtroni che infestano l’odierna scena politica del nostro paese, permettete a me di rendere onore al merito di un vecchio democristiano:
“Si può essere un gigante anche senza arrivare al metro e sessanta!”
… Quarant’anni sono tanti, quella che ieri era cronaca oggi è storia,
Certo quello che è avvenuto allora ha prodotto, produce il nostro oggi.
Ma come? Con quali effetti? Chi poteva ipotizzarlo allora?
Ma andiamo avanti, andiamo a trent’anni fa.
E’ il 1975. Il salario di un operaio è ora 154.000 lire, ma un giornale costa 150 lire, un biglietto del tram 100 e una tazzina di caffè 120 lire. Il pane è arrivato a 450 lire al chilo, mentre il latte costa 260 lire al litro e il vino 350. Un chilo di pasta 480 lire ed uno di carne già 4.500 lire. La benzina è arrivata a 305 lire al litro.
A fine anno il dollaro raggiunge le 720 lire: è l’inizio di una corsa che non si arresterà più.
… Ah, dimenticavo, l’inflazione è al 17,2%.
Sapete la novità? Il 1975 è un anno di crisi economica e se l’Italia ci mette del suo, la situazione internazionale fa il resto: c’è chi bara e ha già calato i suoi carichi di briscola.
Per capirci qualcosa bisogna partire da lontano.
Fin dal 1944, con gli accordi di Bretton Wood – che nulla hanno a che spartire con Robin Hood – i mercati monetari si erano basati sul dollaro, unica moneta immediatamente e direttamente convertibile in oro. Questo significava che chiunque, in un qualunque momento, poteva chiedere che i dollari che possedeva fossero cambiati in once d’oro.
Ovviamente per garantire questo sarebbe stato necessario che gli Stati Uniti avessero un’adeguata riserva d’oro, proporzionata ai dollari circolanti.
Ma gli esportatori di democrazia, in quegli anni impegnati nel sud est asiatico dai recalcitranti vietnamiti, si trovarono a dover far fronte ai costi spaventosi di un’operazione chirurgica che si stava protraendo – pure quella - leggermente più – solo 10 anni - delle sei settimane diagnosticate dal presidente Jhonson.
Un truffatore, un falsario, uno stato canaglia, avrebbero potuto pensare di risolvere il problema facendo carte false. Un paese del Sud America, dell’Africa o dell’Asia avrebbe dovuto accedere al credito internazionale, infilandosi nella spirale del debito che ben conosciamo.
Gli Stati Uniti no, gli Stati Uniti risolsero il problema semplicemente stampando una montagna di bei biglietti verdi, fottendosene allegramente del fatto che non ci fosse un solo grammo d’oro a giustificarli.
Se fosse stato un privato a comportarsi così, a questo punto starei probabilmente raccontando di una clamorosa bancarotta fraudolenta. Ma parliamo della patria della democrazia e l’allora paladino della democrazia, quell’integerrimo personaggio che risponde al nome di Richard Nixon, se la cavò semplicemente comunicando, il 15 agosto del 1971, che gli Stati Uniti non avrebbero più convertito in oro i dollari detenuti da stranieri.
Di punto in bianco i dollari si trasformarono come per magia in eurodollari, cioè in carta straccia, ed il mondo intero pagò i costi di quella guerra insensata, sanguinaria e ingiusta.
Ovviamente tutto questo provocò una certa agitazione, e quando nel 1973 l’amministrazione americana decise di svalutare il dollaro da 35 a 42 dollari per oncia d’oro, si arrivò alla chiusura del mercato dei cambi nei paesi CEE e alla riapertura, gli italiani trovarono una sorpresina: la lira si era svalutata in un colpo solo di una cosina come 9 punti percentuale. Ci risvegliammo così – sicuramente tutti noi che vivevamo di salario - di punto in bianco un po’ più poveri.

A proposito di eurodollari e di carta straccia. Qualcuno si ricorda dei miniassegni? Quei foglietti di carta che banche e supermercati davano al posto delle monete da 50, 100 e 200 lire, di cui si diceva ci fosse penuria? Uscirono nel 1975 e rimasero in giro fino al ’78. Certo, era carta straccia, e carta straccia tornò ad essere, ma chissà se qualcuno non riuscì a trasformarli in oro.
Poi il ’75 è anche l’anno della riforma di mamma Rai che passa dal controllo del governo al controllo del Parlamento. In sostanza si passa dal monopolio bacchettone e moralista della DC alla spartizione di reti e testate giornalistiche tra i partiti, con la riserva indiana della terza rete affidata all’opposizione comunista – vi ricordate Telekabul? il nomignolo dato al TG3 di Sandro Curzi da quel campione dell’obiettività che risponde al nome di Maurizio Ferrara?
Berlusconi all’epoca non si occupa ancora di televisione e d’altra parte il suo compare d’anello, il futuro San Bettino Martire, è ancora un quarantenne di belle speranze nella sua Milano da bere, in attesa di liquidare l’anno dopo, al Midas, il vecchio patron socialista De Martino.
Ma il 1975 è anche l’anno del nuovo diritto di famiglia: il 22 aprile spariscono la dote, la separazione per colpa della moglie ma non del marito, la stimmate a forma di doppia enne sui documenti. Moglie e marito hanno stessi diritti e doveri, i beni sono in comune … insomma, con qualche secolo di ritardo, ma finalmente usciamo dal medioevo, col voto contrario dei missini.
Il 1975 è l’anno del movimento delle donne: il 6 e 13 dicembre per la prima volta Roma è attraversata da un imponente corteo di sole donne.
Non vogliono uomini, hanno atteso 2000 anni, ma cattolici o altro, quegli ignoranti sciovinisti non sono stati capaci di riconoscere, non solo parità giuridica alle donne, ma nemmeno dignità umana alle proprie spose, figlie, madri.
Lotta Continua la pensa diversamente e arriva fino allo scontro fisico per impedire la manifestazione, ma le donne non si fermano.

Il 1975 è l’anno in cui in Italia si parla per la prima volta di repubblica presidenziale. Sono due personaggi discussi e discutibili a farlo: Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi. La palla al balzo la colgono dai primi scandali delle “mazzette” che stanno coinvolgendo politici di primissimo piano come Rumor, Gui e Tanassi. Pacciardi è lapidario:”Dobbiamo mettere fine in Italia ad un regime parlamentare che sembra il baccanale orgiastico di delitti e di rapine”. Trent’anni dopo qualcuno, tra un delitto e una rapida, sta riuscendo a trovare il tempo di accontentarlo.
Il 1975 è anche l’anno in cui le Brigate Rosse diffondono la prima risoluzione strategica: l’obiettivo è annientare lo stato imperialista delle grandi multinazionale, l’abbattimento della società borghese … non stò scherzando …, del colonialismo, dell’oppressione, dello sfruttamento … nient’altro?
Utopia? Ideali? Nelle mani di queste autoproclamate avanguardie il desiderio si rivela subito incubo e del resto i NAP – nuclei di azione proletaria – nel maggio, a conclusione del sequestro del giudice Di Gennaro, diranno: “Quelle dei compromissionari revisionisti – parlavano proprio così … sarebbe bastato questo per mandarli a cagare – o quella opportunistica degli extraparlamentari, sono ormai politiche fallimentari, del tutto funzionali alla stabilità del potere borghese. Noi ci organizzeremo in 10, 100, 1000 NAP, e lotteremo nei modi e nei tempi che di volta in volta si renderanno necessari”.
E’ l’inizio di una stagione di sangue e morti che travolgerà tutto e tutti lasciando solo rovine.
Ma intanto il 1975 è un anno in cui si continua a morire anche nelle piazze.
Il 16 aprile a Milano c’è una manifestazione antifascista. Claudio Varalli è un ragazzo di 18 anni che manifesta con i suoi compagni. Un colpo di pistola lo ammazza in strada.
Il giorno dopo, il 17, ancora a Milano, migliaia di compagni assediano la sede del MSI di via Mancini per i fatti del giorno prima. Poco prima delle 13 un camion dei carabinieri travolge e uccide Giovanni Zibecchi, 26 anni … il suo corpo resta a terra, come uno straccio, il torace sfondato e la testa fracassata.
Durante lo sciopero nazionale di protesta a Firenze morirà fulminato da un colpo di pistola Rodolfo Boschi, un militante del PCI di 22 anni.
Nel 1975 non si muore solo nelle piazze: Pasolini viene trucidato all’alba del giorno dei Santi.
Ma per fortuna il 1975 è anche l’anno della morte di Franco, il boia di Spagna, l’ultimo dittatore fascista del continente.

Anche in quell’anno il capo del governo era Aldo Moro, ma il clima è cambiato, è cambiato anche nei luoghi di lavoro.
Il 25 gennaio Confindustria e sindacati siglano l’accordo sul punto unico di contingenza. Da quel momento c’è un solo punto – detto pesante – per tutte le categorie dei lavoratori. Fino ad allora il recupero del potere d’acquisto dei salari non era uguale per tutti ma chi guadagnava di più, recuperava … di più.
E’ una grande vittoria del movimento sindacale … forse sarà l’ultima.
Gianni Agnelli, presidente di Confindustria ha le idee chiare – direi chiarissime – probabilmente è l’unico, parla di avvicinamento dei sindacati alla conoscenza e, quindi alla responsabilità nella gestione dell’azienda. Parla di migliori relazioni che dovrebbero portare ad un aumento della produttività, alla riduzione della conflittualità e dell’assenteismo. Vaticina che se le parti si comporteranno con “responsabilità” e con intelligenza l’economia tornerà a crescere. Auspica che l’avvicinamento alla conoscenza dei rispettivi problemi porti a concertare le soluzioni nella gestione delle aziende.
Parole alte, alate e lungimiranti che i lavoratori avranno modo di capire nel loro profondo significato nei trent’anni successivi.
Qualcun altro, invece, sembra non le abbia ancora capite.
Che il clima sia cambiato ce lo rivelano anche le vicende di qualche mammasantissima di quegli anni.
Il 18 agosto Guido Carli si dimette da Governatore della Banca d’Italia. E’ un personaggio, un deus ex machina di quell’Italia. E’ l’uomo che per quindici anni ha lasciato una profonda traccia nella storia del Paese … solo che quella straccia assomiglia un po’ troppo al solco di una ferita.
E’ il potentissimo Governatore che da tre lustri sentenzia inappellabile a destra e a manca.
E cosa ha fatto per frenare quella commistione tra affari e politica che da almeno un decennio è assurta a sistema di governo? Nulla, anzi … è stato lui l’ispiratore e l’esecutore delle politiche che hanno fatto crescere a dismisura l’indebitamento dello Stato. E’ stato lui a proporre svalutazioni della lira a comando per favorire questo comparto e non l’altro. E’ stato lui a creare il sistema del debito pubblico introducendo nel ’63 la “copertura con mezzi monetari dei fabbisogni di capitali per investimenti” – Bot e obbligazioni, per capirci.
E’ questo il Carli, il guru nazionale, che dopo aver dichiarato senza un minimo di pudore: “In Italia manca un grande progetto economico preparato da governo, imprese e sindacati, anzi non vedo neanche un piccolo progetto”, abbandona la Banca d’Italia per andare a sostituire Gianni Agnelli alla guida della Confindustria.
E’ un fatto epocale: per la prima volta un non industriale è alla guida degli industriali italiani.
E’ un fatto epocale perché vorrebbe segnare il passaggio della barra di comando dalla politica all’economia … si, magari! … dalla preminenza degli interessi di questo o quel partito, di questa o quella corrente, alla preminenza degli interessi di questa o quella impresa.
Prima di quel momento il guinzaglio – con facile ricorso al debito pubblico – in mano ce lo aveva la politica – ora, con le casse dello Stato vuote, chi più di Carli sa che la musica sta cambiando?
Certo, la storia di questo boiardo, è racchiusa nella palude di quella politica e di quell’impresa che bisbocciavano come i due compari sulla pelle dei soliti cristi, ma quanta lungimiranza! Ha precorso quanto si verificherà nei decenni successivi, egemonizzando le politiche economiche dell’intero pianeta, accelerando sempre più.
Ma il 1975 è anche l’anno della rivoluzione dei garofani.
L’11 marzo, in Portogallo, giovani militari al comando di Otelo Serajeva de Carvallo, giovane maggiore dell’esercito, si oppongono al tentativo di colpo di stato dei militari fedeli al generale fascista De Spinola. Gli uomini di De Carvallo avanzano per le strade del paese con i garofani rossi che escono dalle canne delle loro armi, i portoghesi scendono in piazza a festeggiare la loro indicibile gioia: è la fine di quarant’anni di dittatura.
Viva o compañero general Otelo Serajeva de Cavallo!
… Anche se il consiglio della rivoluzione – tutti alti ufficiali - che assume il potere fino alle prime elezioni democratiche del paese - finirà addirittura per arrestarlo quell’Otelo divenuto generale, la rivoluzione dei garofani è il segno di un mutamento, di un cambio di prospettiva: l’Unione Sovietica di Bresnev, ma anche la Cina di Mao, non sono più riferimenti obbligati.
Berlinguer è il segretario del Partito Comunista e parla di “eurocomunismo”, parla di una “fase nuova della democrazia”, di “pluralismo”, di “nuovi modelli di sviluppo”, di “nuovi modi di governare” … Finiranno per essere solo parole. Gli apparati politico-amministrativi, quella classe di boiardi di stato, quella selva di politici di seconda, terza, quarta fila, quegli imprenditori d’accatto svezzati e cresciuti col debito pubblico, non sono disponibili a cambiare nulla.
E nulla verrà cambiato, se non, lentamente, molto lentamente, i rapporti di forza tra i più importanti settori dello stato e l’imprenditoria privata.

Il 1975 è l’anno del sorpasso mancato, dell’occasione perduta.
L’alternativa è ha un palmo della nostre teste … cacchio alziamoci!
Alle elezioni amministrative il PCI guadagna oltre il 5% ed è solo a l’1,7% dalla D.C. che perde il 3,2%. Giunte di sinistra si formano in cinque regioni e la sinistra conquista undici capoluoghi di regione.
Fanfani, che ha scambiato la campagna elettorale per una crociata, paga il conto dentro la DC: Moro non perdona.
Ma nell’ombra sono molti, troppi democristiani – i democristiani cattolici, quelli insomma più vicini e interni alla chiesa – che vedono in lui, in Moro, il nemico numero uno. Un nemico indegno di qualsiasi cristiano perdono, come lo stesso Moro scoprirà, a sue spese, da lì a tre anni.
Perché, cos’è successo?
Da mesi Moro si prodiga per avviare discorsi “costruttivi” con la sinistra.
Moro è veramente una grande mente, è – caso raro – lungimirante. Di fronte alle casse dello Stato vuote, di fronte a quella che verrà chiamata “questione morale” – una delle tante, l’ennesima – che in quei mesi sta spazzando via un’intera classe politica screditata, di fronte al peso della crisi economica, Moro si rende conto che il sistema di potere democristiano rischia un crollo rovinoso.
Ma c’è Berlinguer, che in questo stesso momento sembra non accorgersi di quanto stia accadendo e predica il compromesso definito “storico”, la non alternativa, la collaborazione con quella Democrazia Cristiana … Perché non approfittarne?
E Moro, nonostante gli ottusi integralisti, i beceri fondamentalisti del suo partito, che gridano al patto con diavolo, ne approfitta.
E’ l’”accordo di solidarietà nazionale” l’amo che Moro lancia e a cui Berlinguer abbocca subito.
Per Moro è l’uovo di Colombo: nello stesso tempo, da una parte, la D.C: “passa a nuttata” e dall’altra, Moro riesce a varate misure di austerità, taglia le festività dei lavoratori, blocca una serie di indennità sulle buste paga, disincentiva la scala mobile e così via, in un crescendo rossiniano di sacrifici impopolari, e tutto questo senza subire la contestazione della piazza.
Una lezione di acrobazia politica, di virtuosismo che farà scuola.
Lo dirà lo stesso Berlinguer: la “solidarietà nazionale” servì a far digerire agli italiani anche i bocconi più amari, facendo allo stesso tempo riguadagnare alla DC in pochi mesi i voti persi.
Berlinguer aveva detto:
”Non rinunciamo a porci il problema di cercare un rapporto positivo con la DC”.
E fu coerente: l’anno successivo appoggerà addirittura un monocolore tutto democristiano guidato da Andreotti.
Ma continuerà ad ottenere poco o nulla, come alla fine ammetterà amaramente:
“Programmi governativi di austerità”, “nuovi modi di governare”, “nuovi modelli di sviluppo” si dimostrarono solo belle espressioni senza il ben che minimo progetto su come attuarle.
La morale, come in una favola di Esopo, è chiara: i compromessi li propongono i più forti, non i più deboli, e, se poi si fanno, quelli forti, è già tanto se lasciano cadere le briciole …
Ma da questa storia stava per trarne i più grandi insegnamenti il quarantenne milanese di belle speranze, che da lì a poco si sarebbe seduto a giocare la partita.
… Sembra un altro pianeta, forse più distante, nelle idee, del decennio precedente dai giorni nostri, che ne sono stati però così condizionati.
E 1985? Lo stipendio medio di un operaio arriva a 600.000 lire e se un giornale costa 650 lire, un biglietto del tram ha toccato quota 500. Il caffé costa 400 lire, il pane 1.200 lire al chilo, il latte 780 al litro, mentre il vino 900 lire. Un chilo di pasta costa 980 lire mentre un chilo di carne già 11.000 lire. La benzina è arrivata a 1.329 lire al litro.
Il 1985 è – indovinate un po’ – un anno di crisi.
Il 19 luglio è un venerdì, il venerdì nero della lira: per comprare un dollaro servono 2.200 lire.
Finalmente l’Italia è al centro dell’interesse internazionale!
Siamo un problema.
Un problema così serio che gli organismi internazionali decidono di intervenire – nell’interesse dei mercati, naturalmente.
Il comitato CEE, riunito a Basilea, appende i quadri della maturità: tutti promossi – meno l’Italia.
Tutte le monete vengono rivalutare del 2%.
La lira no.
I maggiorenti europei calano la mannaia e la lira viene svalutata in un sol colpo del 6%.
A conti fatti siamo più poveri di un otto per cento.
A fine mese il ministro del tesoro Goria e il governatore della Banca d’Italia, tale Azelio Ciampi, presentano le loro dimissioni - mi sembra il minimo - ma le dimissioni vengono rifiutate.
In fondo in fondo c’è qualcuno – anzi, più di qualcuno - che gongola ad ogni svalutazione: è un ottimo sistema per favorire le esportazioni senza spremersi in ricerca, tecnologia, intelligenza. Basta solo un pizzico di furbizia, la famosa furbizia italica: vendi i prodotti in saldo e fai pagare gli sconti a chi lavora!
Oplà e il gioco è fatto! E si tira avanti per qualche anno mettendo in cassaforte i profitti.
Del resto, c’è chi sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite …
Non si capisce?
Dico quelli che: “Il profitto, Dio me l’ha dato e guai a chi me lo tocca!”
E poi:
“Costi? Perdite? O mettete mano al portafoglio – bella quella cassa, come si chiama? ah, si integrazione - o mando tutti a casa!”
Quelli così, insomma, ci hanno costruito una saga, praticamente una leggenda: quella dei lupi travestiti da agnelli.
Dunque in quel 1985 ci cade tra capo e collo questa svalutazione dell’otto per cento, ma, fortunatamente, almeno, l’inflazione s’è ridotta. Siamo solo – si far per dire – all’8,6% ed è un fatto clamoroso. Sono ormai dodici anni, dal 1973, che l’inflazione viaggia a due cifre arrivando alla punta massima del 1980 quando si è toccata la vetta del 21,1%.
Almeno questo ci fa tirare un sospiro di sollievo …
Sollievo?
Non è mica che tutti possono “gioire“ del rientro in Europa dell’inflazione italica, dopo quella ultradecennale passeggiata sudamericana.
Non è cattiveria, non è il “tanto peggio tanto meglio” è che qualcuno si sente un bruciore proprio lì, sul fondo del calzoni.
Per chiarire devo fare un passetto indietro.
Solo l’anno prima il governo Craxi ha fatto approvare un decreto che taglia per legge tre dei dodici punti di contingenza maturati quell’anno, che è appunto il 1984.
Per chi non lo sa o non lo ricorda, la contingenza era un meccanismo, introdotto nel 1946 da un accordo tra la Confindustria e la CGIL, che allora era il sindacato unitario (CISL e UIL, nasceranno dopo, uscendo da quella CGIL) Questo meccanismo non aumentava i salari - come spesso più di un furbacchione ha cercato di far credere – adeguava i salari a posteriori, ovvero dopo che c’erano stati, agli aumenti dei prezzi. La contingenza era cioè un meccanismo che faceva sì che il potere d’acquisto di un lavoratore non si riducesse a causa dell’aumento dei prezzi, faceva sì, in sostanza, che il lavoratore non divenisse più povero.
Il decreto del Governo Craxi non è passato pacificamente, la CGIL – anzi la maggioranza della CGIL, che la minoranza socialista si è schierata con Craxi – ha condotto una battaglia isolata ma durissima, arrivando a portare a Roma, il 24 maggio, un milione di lavoratori. Ma alla fine il decreto è comunque passato.
Qual’è stato il risultato immediato?
I conti sono semplici, dato che l’inflazione in quel 1984 era stata del 10,6% quell’anno i lavoratori hanno perso il quattro per cento del potere d’acquisto del loro salario, sono diventati cioè, per legge, più poveri del quattro per cento.
… non ci stiamo dimenticando qualcosa?
Ah, già! La svalutazione!
Facendo i conti della serva … quattro più otto fa… dodici.
In quel 1985 i lavoratori, tutti coloro che vivevano del loro lavoro, nell’arco di pochi mesi si sono ritrovati più poveri di un buon 12%
E adesso, allora, torniamo all’inflazione, torniamo alla rigorosa politica economica di quel governo Craxi, a quella politica che ha ricondotto l’inflazione in limiti decenti.
Come mai è calata l’inflazione? E’ stata risanata l’economia? E’ stato avviato un qualche circuito virtuoso?
No, ci hanno semplicemente insaccato ben bene in un bel circolo vizioso. Gli italiani sono più poveri, consumano meno e i prodotti finiscono per essere più offerti che comperati.
Bettino Craxi, quello della Milano da bere, ci ha insegnato a suon di suppostana le virtù della frugalità, consumiamo meno e i prodotti invenduti non fanno certo aumentare i prezzi.
Ho parlato di Bettino Craxi?
Non è un caso: nel bene e nel male il 1985 è l’anno di Bettino Craxi. Solo l’anno prima il congresso del partito socialista, quello che accoglierà a fischi e pernacchi un Enrico Berlinguer che morirà di lì a qualche giorno, lo ha confermato segretario del partito per acclamazione … le votazioni sono superflue – qualcuno parla di bonapartismo – e a onor del vero, nel suo piccolo, il carattere del personaggio non rende la definizione ironica.
Certo, il 1985 è l’anno dell’ascesa al potere in Unione Sovietica di Michail Gorbaciov, che succede alla mummia imbalsamata della vecchia nomenclatura che lo ha preceduto – a 72 anni suonati – solo l’anno prima, quel tale Kostantin Ustinovic Cernienko di cui nessuno ricorda neanche la faccia.
Certo Gorbaciov di lì a pochissimo tempo rivestirà un ruolo decisivo sulla fine di un’epoca e sicuramente sulla fine del ventesimo secolo, ma il 1985 per gli italiani resta l’anno di Bettino Craxi.
Il 1985 è anche l’anno del processo e della condanna di Enzo Tortora, di quel garbato uomo di televisione, trasformato dalla “sua televisione” nel mostro da sbattere in prima pagina.
Tortora è accusato da “O Animale” di essere un camorrista ed è arrestato in diretta TV – esposto al pubblico ludibrio. Le manette ai polsi, all’alba esce dal portone della propria casa.
Tortora si professa disperatamente innocente, non gli credono e lo condannano.
Il partito radicale lo candida e Tortora viene eletto deputato al Parlamento Europeo.
Ed ecco il colpo di scena, ciò che nell’Italia dei furbi non ti aspetti, improvvisamente si verifica, come una lama di luce che fende le tenebre e ferisce gli occhi, tanto è lancinante, inaudita.
Tortora che potrebbe, avrebbe il diritto costituzionale di sottrarsi all’azione della Magistratura, rinuncia all’immunità parlamentare e sceglie il carcere – condannato - va in carcere perché è solo lì che può, ha il diritto etico e morale di professare la propria innocenza.
Gliela riconosceranno solo l’anno dopo.
Un percorso, quello di Tortora, che forse gli è costato la vita, ma che lo ha posto un palmo sopra la melma che da lì a qualche anno scompaginerà l’Italia.
Ed anche per questo, allora, il 1985 non è – nel bene e nel … male - proprio l’anno di Bettino Craxi?
Qualche esempio, partiamo da qualche suo padrinaggio politico, che ci ricorda come nascano e si consolidano certe fortune, come si concimi chi si fa da sé.
Il 16 ottobre dell’anno prima, cioè del 1984, i Pretori di Roma, Torino e Pescara avevano oscurato le TV private di Berlusconi. La ragione è semplice, Berlusconi si è impossessato abusivamente delle frequenze nazionali, non ne ha alcun diritto, nessun titolo ed è, né più né meno, un pirata dell’etere.
Ma Berlusconi ha un buon amico a Palazzo Chigi, un amico che non ci dorme la notte e prontamente, seduta stante, il tal Bettino sforna un decreto che, sapete come verrà chiamato?
“Il Salvaberlusconi.”
Ma già allora quel tal cavaliere aveva un conto aperto con la Costituzione Repubblicana … anzi, non sarà forse da allora che se l’è legata al dito e s’è messo in testa di liquidarla?
… Ma stiamo divagando. Dicevo, Craxi sforna il decreto “salvaberlusconi” ma il Parlamento il 28 novembre lo boccia per incostituzionalità.
Figuriamoci se Craxi, l’aspirante Bonaparte si lascia atterrare da simili quisquiglie!
La notte tra il 5 e il 6 dicembre riunisce il Consiglio dei ministri …
Di notte?
E per discutere di cosa? Della crisi economica, di qualche grave calamità, di una crisi internazionale che ci sta portando sull’orlo di una guerra?
No, c’è da varare il “salvaberlusconi bis” che di fatti porterà la data del 6 dicembre dell’84.
Questa volta il decreto passerà col voto del Parlamento il 31 gennaio dell’85.
Le TV berlusconiane sono salve. Berlusconi potrà riprendere a trasmettere su tutto il territorio nazionale, in attesa della legge sull’emittenza privata. Cioè si permette a Berlusconi di godere di ciò che abusivamente si è preso, consentendogli in realtà così di consolidare una posizione che nessuno, dopo, sarà in grado più di mettere in discussione.
Ma non basta.
Al Congresso di Verona – quello della rielezione per acclamazione – Craxi aveva detto:
“Occorre maggiore efficienza e maggiore garanzia nella moralità pubblica, nell’onestà di chi amministra il pubblico denaro, negli appalti pubblici del settore produttivo.
Si tratta di un’azione severa che merita di essere difesa dall’inquinamento dei falsi moralisti di professione”.
E nel 1985 ha modo di dimostrare con i fatti la serietà della sua azione. Quali siano la moralità pubblica e l’onestà di cui parla contro i falsi moralisti di professione.
Il 1985 è l’anno dell’affare SME – avete presente un certo processo, con certi imputati eccellenti coinvolti?
Chiariamo, non voglio qui rifare il processo, non mi interessa. Voglio solo ricordare nudi e crudi i fatti, senza stabilire se ci siano o meno reati da perseguire.
Siamo alla fine di maggio.
La SME è un grande gruppo alimentare dell’IRI – è insomma a partecipazione statale.
Per questa SME, già un mese prima – dunque ad aprile – era stato firmato un preliminare di vendita con De Benedetti.
La logica che aveva portato a questo preliminare di vendita era chiara: quelle della SME non erano aziende strategiche, dunque bisogna disfarsene.
Quando però venditore e acquirente s’erano già accordati, improvvisamente, da un giorno all’altro, le aziende della SME erano divenute di capitale importanza, avevano assunto una tale importanza strategica per l’economia del paese che il PSI – e cioè proprio il partito del presidente del consiglio – minacciò la crisi di governo se questa vendita non fosse stata scongiurata.
Si arrivò così a modificare le procedure d’acquisto - e da qui il processo di cui non voglio parlare – e De Benedetti non acquisì più le aziende della SME.
E’ a questo punto che si verifica l’insondabile: come De Benedetti esce di scena, per uno scherzo di quel destino che di tanto in tanto torna ad essere cinico e baro, le aziende della SME cessano di nuovo, senza una ragione apparente, di essere strategiche ed è bene che lo Stato se ne liberi. Si accollerà il “peso” di questo gruppo una nuova cordata che, una volta incamerata la SME, svanirà come neve al sole, lasciandola in mano ad un unico proprietario …
Indovinate chi?
Ripeto, il 1985 è l’anno di Bettino Craxi, nel bene e nel male.
Il 7 ottobre un commando palestinese sequestra la nave da crociera Achille Lauro nel Mediterraneo davanti all’Egitto. A bordo ci sono 454 persone.
I sequestratori si arrendono il 9, dopo aver girovagato per il Mediterraneo ed aver ucciso e gettato in mare un turista americano invalido.
Dopo la resa, l’aereo che trasporta i sequestratori, più un alto esponente dell’OLP Mohammed Abu Abbas – che ha partecipato ai negoziati che hanno portato alla rese dei sequestratori, è intercettato in volo dai caccia americani ed è costretto ad atterrare alla base NATO di Sigonella in Sicilia.
Gli americani vogliono portarsi via sequestratori e mediatore, ma Craxi non ci sta, e con l’intervento dei carabinieri, armi alla mano, impone ai soldati americani la consegna dell’aereo con i sequestratori.
L’isola è territorio italiano, non americano e gli sceriffi andassero a farli a casa loro!
L’aereo lascia Sigonella e atterra a Roma con il governo deciso a rispettare i patti di garanzia che sono stati stipulati; a rispettare, la parola data dal Ministro degli esteri Andreotti.
Reagan non ci sta e ne nasce un caso diplomatico.
Anche nel governo sorgono problemi con i repubblicani, che escono dalla maggioranza mettendola in crisi.
Ma il Bonaparte in sedicesimo se la ride.
Il 6 novembre Craxi è alla Camera, dove è stato mandato da Cossiga – l’allora Presidente della Repubblica - per il voto di fiducia al nuovo governo.
Craxi non passa, rilancia: rivendica per intero il suo operato e l’operato del proprio governo. Afferma la legittimità del ricorso alla lotta armata da parte dell’OLP, paragonando la battaglia dei palestinesi a quella condotta da Mazzini per l’indipendenza nazionale.
Non basta, afferma pure che Israele deve ritirarsi dai territori occupati dopo la guerra dei sei giorni del 1965.
I repubblicani naturalmente si dissociano, ma il governo ottiene lo stesso la fiducia della Camera e, d’altra parte, il 24 ottobre Craxi era stato a New York, alla Conferenza dei sette grandi, e a Reagan non era restato altro da fare che buon viso a cattivo gioco.
… Peccano che ai figuri di oggi manchino almeno gli attributi dei loro compari d’anello di ieri.
Devo andare avanti?
E non ho ancora detto che l’informatizzazione è agli inizi, i personal computer sono ancora una novità e la telematica è ancora una possibilità quasi futuribile. La telefonia è ancora “fissa”. Il mondo non è ancora condizionabile in tempo reale dalla tastiera di un qualsiasi computer, dal microfono di un qualunque telefonino. Cioè, in sostanza, solo venti anni fa neanche si aveva la percezione dello scenario tecnologico che di li a poco avrebbe così pesantemente determinato la gestione delle risorse e dell’economia dell’intero pianeta.
E oggi qualcuno se la sente di dirci che cosa avverrà tra venti, trenta, quarant’anni?
E’ però su simili sciocchezze – purtroppo passate, nel silenzio generale, nel senso comune delle persone, che sono state varate, a cominciare dai primi anni ’90 le cosiddette riforme delle pensioni, cioè si è innalzata l’età pensionabile, si sono eliminate le pensioni di anzianità e, soprattutto – perché è di questo che ora vi voglio parlare – si è avviata la privatizzazione della previdenza e la sua – attenzione alla parola difficile – finanziarizzazione – non vi preoccupate che spiego tutto.
Cominciamo. E’ stato Dini, nel 1995, a tagliare la pensione pubblica … Non ve ne siete accorti? Questo perché quella di Dini è una bomba a tempo: la botta, gli effetti, li subiremo tra qualche tempo, non ora, non chi è già in pensione, non chi ci sta andando ora. La subiranno gli altri, i lavoratori più giovani e quelli che ora sperano di riuscire ad avere prima o poi un lavoro decente … E quello che fa più rabbia è che il ricatto morale è stato che erano i pensionati, i vecchi, ad essere egoisti e opponendosi alla riforma, stavano togliendo le pensioni di bocca ai loro stessi figli! E infatti la riforma l’hanno fatta per i figli, cioè per assicurarsi che questi, i figli, la pensione non ce l’abbiano mai!
La riforma Dini ha stabilito che chi aveva pochi anni di lavoro (meno di otto alla fine del 1995) avrebbe avuto la pensione calcolata con il metodo contributivo e non più con quello retributivo come era stato sino ad allora. Chi ne aveva un po’ di più – sino a diciotto – avrebbe avuto un sistema misto di calcolo della pensione – quelli maturati a quella data col vecchio sistema, mentre quelli futuri con il nuovo, mentre chi aveva più di diciotto anni di contribuzione – quindi coloro che stanno andando in pensione adesso – sarebbero rimasti con il vecchio sistema.
Va bene, ma questo che significa? Il metodo retributivo era semplice, si prendeva la media delle retribuzioni del lavoratore negli ultimi anni di lavoro e la si moltiplicava per una percentuale pari al doppio degli anni lavoratori. Se in pratica uno aveva lavorato 40 anni, la pensione sarebbe stata pari all’80% della media delle sue retribuzioni, se aveva lavorato 30 anni la percentuale scendeva al 60%.
Col sistema contributivo la musica cambia e il calcolo della pensione si fa più complicato e occorre tener conto dei contributi versati, degli anni di vita che l’Istat stima restino al lavoratore al momento in cui va in pensione, e così via. Ma nella sostanza il tasso di sostituzione, e cioè quanto del proprio reddito conserverà una volta andato in pensione un lavoratore, è sceso dal 2% all’1,6% che in soldoni significa che a parità di anni lavorati e di contributi versati, i futuri pensionati avranno riconosciuta una pensione di molto inferiore rispetto a quella di chi va in pensione oggi. Per dare un’idea della cosa: quando la riforma Dini sarà a regime la prima pensione non andrà, per chi avrà lavorato 40 anni suonati, oltre il 50 – 55% dell’ultimo stipendio percepito.
Dini e il suo governo – diamo Dini quel che è di Dini e a Silvio quel che è di Silvio - hanno sacrificato il nostro futuro, il futuro dei nostri figli, lo hanno sacrificato davanti al totem dell’equilibrio di bilancio, fingendo di non sapere che quei conti, quel fare i ragionieri sulla pelle delle persone, poco o nulla c’entravano col problema delle pensioni.
Perché?
Bella domanda, non è vero?
Perché lo hanno fatto se i conti dell’INPS erano assolutamente sotto controllo? Se erano così sotto controllo da farsi tranquillamente carico pure della spesa assistenziale – che in Italia, non si sa perché, devono pagarla solo i lavoratori?
Perché hanno manomesso da oggi, che dico oggi? Da ieri, le pensioni, se loro stessi dicevano che il problema – forse – ci sarebbe stato nel 2036 … 2036 … e chi andrà in pensione vent’anni prima sarà già alla fame …
Ovvio, qualcuno dirà … per cambiare il sistema ci voleva tempo e se non avessimo cominciato a preoccuparci sin da subito, poi ci saremmo ritrovati con una mano davanti ed una di dietro.
Balle! Balle, e sapete perché? Perché le pensioni di oggi ed i contributi di oggi non c’entrano nulla, ma proprio nulla - non solo con le pensioni del 2036 - ma neanche con quelle del prossimo anno, neanche con quelle del prossimo mese!
Lo sapete come funziona la pensione pubblica, come si finanzia? Col sistema a ripartizione. Questo significa che i contributi che si versano oggi non sono messi da parte, non sono accantonati. Sono utilizzati ora, oggi, per pagare le pensioni a chi è in pensione oggi e che quando lavorava, assicurava la pensione a chi l’aveva preceduto: è la cosiddetta solidarietà intergenerazionale, un fondamento dello stato sociale.
Perché hanno manomesso le pensioni se ci sarebbe stato modo e tempo per intervenire negli anni a venire, se le capacità di produrre ricchezza si fossero rivelate insufficienti a soddisfare le necessità dei futuri pensionati?
Perché si è resa la pensione pubblica inadeguata e insufficiente?
Perché questa pensione pubblica è stata ridotta ad una sorta di sussidio di povertà per l’anziano, ad un assegno dell’assistenza pubblica – guarda caso finanziato e pagato, tanto per cambiare, dai lavoratori?
… Ho creato abbastanza suspance? E allora andiamo avanti.
“Elementare Watson”: occorreva scardinare il sistema previdenziale pubblico per sostituirlo con uno più funzionale a precisi interessi. Serviva ad aprire la strada alla previdenza privata, cioè ai fondi pensione, che, guarda caso, sono stati assunti come il vero asse previdenziale del futuro.
Come hanno presentato, come parlano dei fondi pensione?
Sentite … ce li avete nelle orecchie e sono gli stessi che ieri vi dicevano che bisognava tagliare la pensione pubblica. Sono gli stessi, e oggi, con la stessa faccia da culo, vi dicono che sono pronti a giocarsi la testa – la vostra testa – sui fondi pensione. Che i fondi pensione vi garantiranno una vecchiaia tranquilla. Che i fondi pensione sono lo strumento miracoloso che moltiplicherà i vostri contributi
… Il gioco è sempre lo stesso: basta ripetere la stessa panzana e alla fine diventerà una cosa accettata come ovvia.
Ma i fatti sono ben altri. Il futuro io non posso prevederlo – e chi vi dice il contrario è un truffatore – ma il passato qualcosa me lo può insegnare. E quello che mi dice il passato è che i rendimenti dei fondi pensione sono tutt’altro che certi e garantiti e, anzi, se dovessi prendere in esame i rendimenti ottenuti sino ad oggi dai fondi costituiti dopo la Dini, aperti o chiusi non è che cambi troppo, ne scapperei lontano. Ma voglio essere buono e dire – si - potrebbe anche essere che alla fine un fondo mi renda quanto spera di potermi rendere – chi può escluderlo? - … Attenzione, però. è anche su questo che i musicanti delle riforme giobbano. Non so se qualcuno qui faccia investimenti in borsa, ma c’è una regola economica – che in realtà è di semplice buon senso - che chi investe in borsa non può ignorare: non si fanno gli investimenti sulle sole attese di rendimento – cioè su quanto si spera di poter guadagnare – Un altro fattore altrettanto importante è quanto sia alto il rischio di rimetterci, cioè, uno può anche giocarsi al superenalotto qualche euro per sperare di diventare miliardario, ma non credo che nessuno ci si giocherebbe la casa!
E’ per questo che, per esempio, c’è chi sceglie di investire in BOT e in obbligazioni e non in azioni, perché se il guadagno è minimo, anche i rischi di perdere i propri soldi sono ridotti.
Quando ci parlano dei fondi pensione, ci parlano sempre di rendimenti sperati spacciandoli per certi e, guarda caso, si dimenticano sempre di parlarci dei rischi. In realtà, la buona regola economica vorrebbe, perché l’investimento nei fondi pensione potesse essere giudicato conveniente, che il fondo offrisse un’attesa di rendimento (e sempre di attese, di pure e semplici speranze sto parlando!) così superiori da compensare i rischi … e dato che, per esempio, il TFR e il suo rendimento sono certi e garantiti, tanto che se la ditta fallisce paga l’INPS, giudicate voi quanto ci dovrebbero promette, i fondi pensione, per preferirli al tanto bistrattato TFR …
Ma c’è una cosa, in particolare che mi manda in bestia. Ed è l’uso stesso delle parole, l’imbroglio che sta nascosto nella stessa scelta delle parole che viene fatta.
Qual è una delle cose – così, di apparente buon senso – che ci viene ripetuta?
“Bisogna pur garantire una pensione, dato che quella pubblica è stata tagliata!”
Giusto, no? Poveri noi! Ci tocca fare buon viso a cattivo gioco! Dobbiamo essere realisti e salvare il salvabile! … Parola più, parola meno, quanti ne abbiamo sentiti parlare così, magari in buona fede?
Ma i fondi pensione, nonostante il nome, non danno nessuna pensione.
Lo so che qualcuno adesso è sorpreso, che qualcuno dice: “ Ma questo che va dicendo!”, eppure è così. Datemi due minuti per spiegare quest’altro imbroglio.
Se ognuno di noi mette da parte dei soldi, cercando di farli aumentare, investendoli in una qualunque maniera, magari giocandoseli in borsa (come fanno i Fondi pensione), oppure comprando case, finanziando qualche attività o qualche progetto, acquistando titoli di Stato, e, perché no, prestandoli al proprio datore di lavoro, come succede con il TFR, alla fine avrà comunque accumulato un capitale, più o meno grande, che viene chiamato “montante”. Se prendiamo questo montante” e lo portiamo ad una qualunque assicurazione perché, pagando, ce lo trasformi in una rendita, che copra con assegni mensili gli anni che ci separano da quella che, ufficialmente, è la nostra speranza di vita, cioè quanto dovremmo aspettarci di campare, avremo comunque un assegno mensile. Un assegno che non si adeguerà né ai salari, né al costo della vita, ma sarà rivalutato solo sulla base degli interessi riconosciuti ai depositi bancari.
Avremo questo assegno comunque avremo accumulato il montante, ovvero sia ricorrendo ai Fondi pensione e … sia tenendoci il TFR!
Cioè i fondi pensione danno una pensione esattamente come può farlo il TFR.
E dunque, quando vi dicono che bisogna farsi la pensione integrativa, rispondente: Può essere. Ma quale strumento mi conviene? Il fondo pensione o il TFR? Con cosa ho più probabilità di rimetterci di meno?
Del resto quella dei fondi è così poco una “pensione”, che bisogna augurarsi di non campare troppo!
Se si ha “la faccia tosta” di campare anche un solo mese più di quello che l’Istat ci assegna, e non fossimo assicurati contro il rischio di campare troppo - non è un’ipotesi, è il decreto del governo che prevede una simile assicurazione! - non avremmo più un centesimo da chi ci ha gestito la rendita, e potremmo scegliere tra il vivere con quel che resta della pensione pubblica e …. l’eutanasia.
Ancora, con i fondi le donne sono quelle che stanno peggio. E’ ovvio, con il fatto che la loro età di pensionamento sia fissata a sessanta anni, e che la loro speranza di vita sia più alta di quella degli uomini, le donne vedranno il loro “montante” spalmato su un numero maggiore di mesi, e quindi avranno l’importo dell’assegno mensile ridotto.
E se l’Istat innalza l’aspettativa di vita?
Quel che resta del montante viene ridistribuito per quel che in quel momento viene stimato essere il nostro scampolo di vita. L’assegno in sostanza si riduce.
E questa sarebbe una pensione?
Eppure, nonostante che la stragrande maggioranza dei lavoratori di queste stramaledetti fondi non ne voglia sapere … anzi, proprio perché la stragrande maggioranza dei lavoratori non vuol sentir parlare dei fondi, arriviamo all’attuale legge con cui tentano il loro lancio con il trasferimento del TFR.
Mi ripeto: perchè?
Perché il governo, pur di farci ingollare la sbobba di questi fondi pensione, le sta pensando proprio tutte?
Perché il rendimento certo del TFR, che è risparmio dei lavoratori e, non dimentichiamo, è utilizzato dalle imprese per autofinanziarsi, dovrebbe essere tassato più del capitale che, nei fondi pensione, finisce disperso sui mercati finanziari sparsi per il mondo?
Perché il governo toglie alle imprese il TFR, sostituendolo con agevolazioni fiscali, che non risolvono il problema dell’accesso al credito delle aziende in crisi, e che noi pagheremo con meno servizi?
Come pagheremo le minori entrate da riduzione fiscale sui nostri soldi giocati in borsa?
Perché i contributi stabiliti a carico dei datori di lavoro nei contratti collettivi, divengono trasferibili “per legge” da un tipo di fondo all’altro - anche aperto o assicurativo - ma non al TFR, se il lavoratore decide di tenerselo?
“Svegliati Watson!”:
Basta sapere come funzionano, come si finanziano i fondi pensione.
Dovete sapere che tutti i fondi pensione – aperti o chiusi non fa differenza – funzionano col sistema della capitalizzazione. Questo significa che rastrellano i soldi dei lavoratori, li ammucchiano cercando di farli aumentare sempre più. Un po’ alla Paperon De Paperoni: il fondo pensione è una specie di gigantesco salvadanaio dove finiscono i soldi dei lavoratori, con qualcuno che si incarica di investirli. Questa è la differenza fondamentale rispetto alla pensione pubblica, che funziona come ho detto a ripartizione, e cioè i soldi non si accumulano ma sono impiegati per pagare le pensioni a chi è in pensione oggi.
… Devo però chiarire ancora qualcosa. Perché ripartizione, capitalizzazione, sono parole, sembrano puri e semplici tecnicismi e qualcuno può benissimo dire:”Che mi importa di come funziona un fondo! A me, in fondo, interessa che mi arrivi la pensione, comunque mi arrivi”.
Il fatto è che proprio per questo non è indifferente come si finanzia, come funziona una forma pensionistica.
Della ripartizione c’è poco da dire: se ci sono i soldi dei contributi di chi lavora – e in Italia c’erano e ci sarebbero stati almeno sino al 2036!, le pensioni si pagano senza alcun problema, anzi, è possibile legare le pensioni all’andamento dei salari, in modo che la pensione conservi nel tempo il proprio potere d’acquisto. Questo purtroppo è stato il primo attacco che ha subito la pensione pubblica in Italia, quando nel 1992 Amato ha, appunto, sganciato la pensione dai salari, lasciandola agganciata solo all’aumento dei prezzi
E’ da lontano e assolutamente bipartisan, questo sporco gioco sulle pensioni!
La capitalizzazione è invece un sistema di finanziamento estremamente rischioso: le svalutazioni – vi ho parlato delle svalutazioni della lira del 1973 e del 1985, ma non sono certo state le uniche! – E guardate cos’è successo alla fine della seconda guerra mondiale! … Ah già, non ve l’ho detto. In Italia, prima della guerra, la pensione pubblica era a capitalizzazione. Bene, alla fine della guerra, con la svalutazione che subì la lira, i contributi di una vita di chi aveva lavorato nella prima metà del secolo, si ridussero a pochi spiccioli.
Svalutazioni, dicevo, iperinflazione … Vi ricordate cosa ho detto prima? Dal 1973 al 1984 l’inflazione in Italia è stata di oltre il 10% con punte di oltre il 20%. E se si vanno ad analizzare le economie dell’intero pianeta negli ultimi centocinquanta anni, sfido chiunque a trovare un periodo consecutivo di quaranta anni – una vita lavorativa tipo – da qualunque anno si parta, di bassa inflazione! … Non capisco come qualcuno – per esempio i gestori dell’Espero, il fondo della scuola - può realisticamente ipotizzare che per quaranta anni, per i prossimi quaranta anni, l’inflazione se ne starà – evidentemente per virtù divina – sul 2% all’anno … O piuttosto lo capisco anche troppo bene: come potrebbero affermare altrimenti che conviene investire nel loro fondo?
Ma dicevo che la capitalizzazione è estremamente rischiosa: svalutazioni, iperinflazione, fallimenti e truffe … bhé vi dicono niente Enron … Parmalat … Cirio … bond argentini? E non è che sia necessario che i gestori del nostro fondo siano mascalzoni come quello della Enron … Come e di cosa potresti accusare il gestore del tuo fondo se avesse, in tutta onestà, investito i tuoi soldi in azioni Parmalat o Cirio?
Svalutazioni, iperinflazioni, fallimenti e truffe – dicevo – mettono continuamente a rischio i contributi, i risparmi di una vita – rischiano di farti trovare da un giorno all’altro in braghe di tela.
Ma questa è solo una parte del problema. D’altra c’è il fatto che, se ti è andata bene e non hai perso, o almeno non hai perso troppo del tuo capitale, con le svalutazioni, le iperinflazioni, i fallimenti e le truffe che ti possono essere capitate tra capo e collo nell’arco di quaranta anni, la pensione che avrai – e dalli!, ci casco pure io! – la rendita che avrai, sarà comunque legata all’andamento delle borse e al fatto che il tuo gestore finanziario sia stato più o meno bravo, abbia avuto più o meno fortuna, scommettendo in borsa con i tuoi soldi.
Parlare di previdenza, dovrebbe significare mettere al riparo dagli imprevisti della vita la nostra vecchiaia. La previdenza è, dovrebbe essere, l’esatto contrario di una scommessa: lavoro uno vita con la certezza che potrò godere di un dignitoso riposo quando sarò vecchio, perché è la società che me lo riconosce e me lo garantisce, come io l’ho garantito a chi mi ha preceduto.
Nella sostanza, voglio dire, è proprio per il sistema di finanziamento a capitalizzazione che i fondi pensione non sono in realtà strumenti previdenziali. Cioè, come strumenti previdenziali sono sia inefficaci e sia inidonei.
Sono altre le cose in cui i fondi pensione eccellono!
Da noi i fondi pensione sono praticamente neonati, ma andate a vedere la storia dei fondi pensione là dove esistono da decenni! Andatela a studiare la storia dei fondi americani e inglesi. E’ una lezione estremamente istruttiva.
I fondi pensione sono strumenti finanziari di straordinaria importanza sui mercati finanziari e nella speculazione. Guardate, è ovvio che lo siano, gestiscono quantità enormi di capitali rispondendo a due sole esigenze: ottenere ad ogni costo i più alti rendimenti possibili e nel più breve tempo possibile, ed avere continuamente disponibilità di liquidi, di soldi contanti.
Comprando e vendendo titoli, e ricercando sempre e soltanto il massimo profitto, i fondi pensione impongono alle aziende in cui investono i comportamenti che rendono di più. E quali sono questi comportamenti? Com’è che un’azienda aumenta i propri profitti? Ma naturalmente aumentando l’efficienza e riducendo i costi del lavoro – che significa né più e né meno aumentare lo sfruttamento e la precarietà del lavoro – procedere alle riorganizzazioni aziendali e, quindi, ai licenziamenti per riduzione del personale – fottersene dello sfruttamento, del degrado e dell’inquinamento ambientale.
Ma i fondi pensioni sono strumenti finanziari di così straordinaria importanza, che finiscono per agire ed essere usati anche per operazioni molto più in grande.
Creano o sono usati per creare e amplificare le crisi determinate dalla speculazione finanziaria. Sono usati per sconvolgere le economie di interi paesi, per ricattare i paesi poveri e costringerli alle cosiddette politiche di aggiustamento strutturale, per salvare le loro valute o ripianare i debiti.
La cosa allucinante, perversa, è che i fondi pensione costringono i lavoratori a sperare nello sfruttamento di altri lavoratori e dei più poveri per arrivare ad avere, alla fine, una rendita dignitosa.
I fondi pensione sono in sostanza una sorta di Robin Hood alla rovescia: tolgono a chi ha meno, a chi sta peggio, ai lavoratori ed ai paesi poveri, per dare a chi ha più, a chi vive di rendita e ai paesi ricchi.
Vi diranno: “Il nostro no, non è così, il nostro fondo è diverso.“
Bene, sono ancora in attesa di un fondo disposto a sottoscrivere una garanzia di eticità. Di un fondo che mi assicuri che i miei soldi non saranno investiti in fabbriche di armi o in attività che sfruttano il lavoro minorile. Che i miei soldi non saranno investiti in attività distruttive per l’ambiente, o per operazioni che strangolino questo o quel paese, costringendolo a piegarsi al ricatto degli organismi finanziari internazionali.
Sono sempre in attesa di un fondo che almeno mi garantisca che non investirà i miei soldi in azioni di aziende che licenziano i lavoratori, che non rispettano le leggi ed i contratti di lavoro, che usano e abusano della precarietà del lavoro e della vita.
Chiedetelo, chiedetelo anche voi, per iscritto, a chi vi propone il suo fondo pensione, di garantirvele queste cose. E chiedetegli anche chi è veramente che fa gli investimenti per conto del suo fondo pensione. Perché, guardate, una cosa sono i consigli di amministrazione dei fondi, altra cosa sono i gestori finanziari, quelli che cioè, fanno veramente gli investimenti e le scelte concrete, non le indicazioni di massima. Solo per fare un esempio, sapete chi erano nel 2000 (non so se ora siano cambiati) i gestori finanziari del Cometa, il fondo dei metalmeccanici? Generali, Paribas, Unicredit, Sanpaolo-IMI, Aig-Invesco e Cisalpina-Putnam. E del Fonchim, quello dei chimici? Generali, RAS, Creditrolo, Unipol-Citibank, Umi-Unionvita e, dulcis in fundo, Mediolanum-State Street. A chi è, che dobbiamo chiedere garanzie di eticità?
Dunque, i fondi pensione sono questa cosa, sono né più né meno un sistema per accumulare risorse da investire nelle operazioni finanziarie e uno strumento estremamente efficiente per le operazioni più spregiudicate ed “anonime” sui mercati di tutto il mondo. Il mondo è una grande tavola imbandita. Ma i posti, a questa tavola sono pochi ed estremamente selezionati.
Come sedersi a questa tavola? Come giocare un ruolo in questa partita? Da dove prendere le risorse?
Ma dalle tasche dei lavoratori, naturalmente!
E per fare questo era necessario, era indispensabile passare dalla ripartizione, che – lo ripeto sino alla noia – non ha gruzzolo, al sistema di finanziamento a capitalizzazione, quello di tutti i fondi pensione.
E’ chiaro adesso cosa significa “finanziarizzazione” della previdenza?
E’ chiaro quali sono state le vere ragioni, i veri scopi delle cosiddette riforme previdenziali?
Altro che riequilibrare i conti! Assicurare la pensione alle generazioni future … si, come no!
Il vero scopo di queste cosiddette riforme era la privatizzazione della previdenza, per riversare nella speculazione finanziaria una massa enorme di risorse – sentite, si parla di una cosina nell’ordine dei 13 miliardi di euro all’anno, qualcosa come 26mila miliardi di vecchie lire, una signora finanziaria! – soldi, risorse sottratte ai lavoratori ed al lavoro. Al lavoro, perché, non dimentichiamo, quei soldi fino ad oggi sono impiegati delle imprese per finanziare le attività produttive.
Certo, questa bella trovata non è certo frutto del sacco dei nostri rubagalline … Diciamo che si inscrive nel solco delle direttive che gli organismi economici internazionali hanno dettato. Rientra nel novero delle politiche neoliberiste che i nostri governi hanno accettato supinamente, bovinamente.
Così bovinamente da non rendersi evidentemente conto, almeno all’inizio, che questa operazione, in Italia, presentava un problema.
Ricordiamolo, la pensione pubblica in Italia è a ripartizione, e passare ad un sistema a capitalizzazione non è così semplice come potrebbe sembrare .. Perché? La ragione è in realtà estremamente elementare: i lavoratori, che dovrebbero accantonare i risparmi, per capitalizzare la loro pensione, devono comunque, allo stesso tempo, continuare a pagare i contributi per coloro che sono già andati in pensione.
Cioè i lavoratori devono pagare due volte. E’ così! E’ chiaro, no?
Questa è la vera ragione della vita magra e stentata dei fondi pensione in Italia fino ad oggi. Del perché le iscrizioni hanno riguardato soprattutto i lavoratori con il reddito più alto e quelli residenti nelle regioni più ricche.
Quella dei fondi è stata vista come una forma di risparmio, per quelle categorie che avevano abbastanza, che si potevano permettere di risparmiare qualcosa del proprio reddito.
E, colpo di scena, è a questo punto che entrano in scena Maroni e Berlusconi.
Come? Il miracolo della moltiplicazione della contribuzione, questi signori la nascondono dietro il furto del Trattamento di Fine Rapporto (il TFR), che vorrebbero “conferito” nei Fondi pensione con il meccanismo del silenzio assenso.
Ripeto, è un furto, un furto con destrezza, perché il TFR è salario, sono soldi dei lavoratori. Approfittando del fatto quei soldi i lavoratori li vedranno solo al momento del licenziamento, queste “mani di velluto” hanno pensato di sfilare il portafoglio di tasca alle persone confidando che queste neanche se ne accorgano.
Le chiacchiere sono sempre le stesse. La rinuncia alla liquidazione viene presentata come indispensabile, per garantire ai futuri pensionati, un reddito decoroso. Ci dicono che questo reddito sarà garantito dagli alti rendimenti dei fondi pensioni.
Ma noi sappiamo che nessun fondo pensione è in grado di garantire nulla, né, tanto meno, lo stesso rendimento garantito dal TFR.
Ci tolgono i soldi del TFR certi, garantiti e rivalutati in base all’inflazione, spacciando per “certi” guadagni, non solo immaginari, ma, a giudicare da quel che è successo nel passato, sicuramente improbabili.
Ma insomma, io lo ripeto, non posso dire cosa avverrà nel futuro, ma so per certo che quando avremo un inflazione all’1% il mio TFR sarà rivalutato – per legge – del 2,3%. Se avessimo un’inflazione al 2% il TFR mi frutterebbe il 3%. Se l’inflazione arrivasse sino al 6% il TFR non mi farebbe perdere nulla, rivalutandosi dello stesso 6%. Ed anche se l’inflazione arrivasse al 20% non ci rimetterei troppo, perché il mio TFR, ripeto per legge, sarebbe rivalutato del 16,5%.
Sfido qui, chiunque, a provarmi che un qualunque fondo pensione mi possa oggi offrire le stesse garanzie!
Certo, c’è sempre l’imbroglio della contribuzione dei datori di lavoro sui fondi pensione. Io ci metto dei soldi, ma degli altri ce li mette il datore di lavoro e dunque, a conti fatti, il gruzzolo alla fine sarà comunque abbastanza consistente.
I conti in tasca, ce li sappiamo fare tutti, no?
Premesso naturalmente che questo con la perdita del TFR non c’entra niente … Cioè se uno si vuol fare una forma di risparmio previdenziale, e questa cosa è volontaria e, magari, organizzata contrattualmente … va bene, sono fatti suoi, e delle sua coscienza – visto cosa sono i fondi pensione – ma l’iscrizione forzata e con i soldi della liquidazione è tutta un’altra cosa.
Premesso questo, vi voglio far notare una cosa. Quella contribuzione, quella dei datori di lavoro, rientra né più, né meno, nei costi che gli stessi datori di lavoro mettono in conto al momento dei rinnovi contrattuali. E allora, perché quei costi non possono e devono tradursi direttamente in salario differito dei lavoratori – in TFR per intenderci - se i lavoratori non vogliono aderire al fondo pensione?
Guardate che questa domanda non è peregrina, guardate che già più di una volta la Cassazione, anche a sezioni riunite – che è il massimo dell’interpretazione delle norme – ha dichiarato che “i trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita”.
Ma per chiudere, noi, di fronte a questo bel piattino che ci è stato preparato e che pretendono che ora ci ingolliamo, che possiamo fare.
Guardate, questa storia del TFR è particolarmente importante. Guardate, questo è uno snodo centrale ed essenziale di un processo avviato oltre dieci anni fa.
Vi rendete conto? L’intera impalcatura, l’architettura di questa gigantesca operazione finanziaria, nascosta dietro le riforme previdenziali e condotta in danno dei lavoratori e del lavoro, sta in piedi solo se ha le gambe su cui poggiarsi.
E quali sono queste gambe? Ma i soldi dei lavoratori, i nostri soldi, no!.
Tutto, ma proprio tutto, sta in piedi solo se riescono a finanziare la previdenza privata, i fondi pensione, e cioè gli strumenti privilegiati della speculazione finanziaria.
Se gli togliamo i soldi, se gli nascondiamo il bottino – 13 miliardi di euro all’anno, 26mila miliardi di vecchie lire! – si ritroveranno con una mano davanti ed una dietro.
La soluzione ce l’abbiamo a portata di mano, siamo noi che possiamo decidere, realmente … Come? Ovvio, dobbiamo impedire il trasferimento del TFR nei fondi pensione: questo è lo strumento che abbiamo oggi per fermarli.
E guardate che poi, in fin dei conti questa è la cosa comunque più intelligente e più tranquilla che si possa fare. Perché se ti iscrivi al fondo pensione non ci puoi ripensare: la rinuncia al TFR è senza ritorno e non c’è nessuna possibilità di tornare indietro una volta iscritti, volontariamente o “d’ufficio”, anche con il silenzio assenso. Il contrario, invece è sempre possibile. Cioè chi nei sei mesi previsti rifiuta di trasferire il proprio TFR nei fondi pensione, potrà comunque farlo, volendo, in un qualunque momento successivo.
E’ la cosa più intelligente anche per un’altra considerazione che non sento fare in giro. Tenersi il TFR contribuisce anche a salvaguardare il posto di lavoro.
… Che sto’ dicendo? Pensateci un momento. Quando un datore di lavoro licenzia uno o più lavoratori, deve pagare il TFR, che è salario dei lavoratori accantonato. Ma nessun datore di lavoro accantona realmente quelle somme. Tutti le impiegano per finanziare le attività dell’impresa in maniera assai conveniente: nessuna banca, infatti, presterebbe quel denaro senza richiedere nessuna garanzia e con interessi così bassi!
Quando un lavoratore viene licenziato, il datore di lavoro deve reperire le somme che il lavoratore gli ha “prestato”, magari ricorrendo al credito e ai normali tassi di mercato, con una “dolorosa” trasfusione di risorse dalle proprie casse alle tasche del lavoratore.
Quando il lavoratore rinuncia al TFR per iscriversi al fondo pensione, il datore di lavoro non ha più somme da restituire al lavoratore, con un “doloroso” salasso, e potrà licenziarlo … a “cuore più leggero”.
Insomma, che dire ancora? Impediamo il trasferimento del TFR nei fondi pensione. Un semplice: “No, grazie”, è lo strumento concreto, materiale ed efficace per difenderci da un ulteriore furto.
Certo, abbiamo la necessità di rimettere in discussione il tasso di sostituzione manomesso dalla Dini, abbiamo cioè la necessità che la pensione pubblica, quella a ripartizione, torni a garantirci una vecchiaia serena e dignitosa.
Ma per fare il primo, indispensabile passo verso una previdenza pubblica, solidale e giusta è necessario intanto rispondere “No, grazie” ai fondi pensione.

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