mercoledì 28 novembre 2007

Sul voto del 10 e 11 aprile 2006

Al di là di come andrà a finire questa partita che ha visto la notte dell’11 aprile chiudersi il primo di cinque atti (e le prossime settimane ci diranno se di una commedia o di una tragedia), un dato emerge inequivocabile.
Se da una parte la pura e semplice condizione materiale della maggior parte della popolazione ha consentito che oltre 19 milioni di elettori si orientassero a sinistra (e poco importa se per semplice anti-berlusconismo e con un centro-sinistra tutt’altro che di sinistra), assumendo per altro una decisione, direi, anodina nella sua lapalissiana ovvietà; dall’altra si è registrato il precipitare di altrettanti elettori sul centro-destra che, nella misura di almeno qualche milione (quel balzo all’83,6% dei votanti), hanno risposto al “richiamo della foresta” di una campagna berlusconiana puntata al ventre e non al cervello delle persone.
Non mi sembra rilevante, anzi, mi risulta fuorviante giocare al politologo mediatico discettando se sia stata più efficace la leva della paura irrazionale piuttosto che quella dell’aggressività volgare, tanto meno puntare il dito sulla propensione italica per gli eroi da avanspettacolo.
Più che i meccanismi e le pulsioni ciò che mi sembra rilevante è comprendere l’humus che ha reso possibile questi frutti. Perché se i 19 milioni di voti in dote al centro-sinistra mi sembrano un risultato mai avvicinato che, al di là delle scelte tattiche e strategiche che non mi interessa qui valutare, ha obiettivamente raccolto il massimo ipotizzabile dei consensi, quello che non trova spiegazione sul piano dell’analisi razionale dei fenomeni è la mobilitazione a destra di una grossa quota di persone – di indecisi – che ha consentito al centro-destra di incamerare quell’uno o due milioni di voti che razionalmente ci si sarebbe aspettati fuori dal computo.
Io ritengo che questo fatto in realtà ponga in evidenza un dato particolarmente grave.
Gli obiettivi di atomizzazione, di riduzione a risorsa umana degli individui, perseguiti dalle politiche neo-liberiste, in primo luogo (e ovviamente non solo) attraverso la precarizzazione delle esistenze, sono in buona misura di fatto già conseguiti.
L’aleatorietà reddituale delle persone, conseguita attraverso la soppressione dei diritti e delle garanzie, unita alla riduzione dei diritti in bisogni con la sottrazione alla sfera pubblica e universale dei beni comuni, divenuti, al pari dei servizi, merce da acquistare sul mercato (o dallo Stato attraverso le tasse), ha realmente e di fatto già operato in larga misura un mutamento strutturale della società, relegando ad una funzione progressivamente sempre più residuale la rete comunitaria di solidarietà (realizzata sia attraverso le istituzioni dello stato sociale e sia attraverso gli strumenti sociali autodeterminati, quali, con un esempio storico, i sindacati).
Nella sostanza, se da una parte gli individui sono stati ridotti da titolari di diritti a ricettacolo di bisogni (e quindi da soggetti forti a soggetti deboli), dall’altra questo stesso fatto ha deprivato le forme tradizionali di organizzazione sociale della loro capacità di difesa attiva del singolo individuo facendo venir meno, di conseguenza, la stessa loro forza e capacità contrattuale complessiva che ne sostanziava, costituendola, la rappresentatività sociale.
Ancora, quella che una volta si definiva coscienza di classe e che nasceva dalla presa d’atto che la tutela delle proprie condizioni scaturiva dalla capacità vertenziale collettiva del proprio “segmento sociale” è in larga misura venuta meno proprio con il venir meno della capacità di protezione sociale dell’individuo da parte della rete comunitaria di solidarietà.
Il dato elettorale, quel precipitare di qualche milione di voti sul piano inclinato dell’irrazionalità vandeana, ci dice quanto grave e avanzato sia questo processo e come non sia rinviabile l’interrogarsi sul come frenare ed invertire questa rotta.
E in questo senso la storia del movimento operaio, dei suoi albori, di quando cioè, nell’ottocento, i diritti e la legislazione sociale erano tutti da conquistare – quasi come oggi lo sono da riconquistare – ci può essere di grande aiuto.
Ai tempi delle leghe, delle società operaie di mutuo soccorso, la rete solidale di quelle istituzioni sociali, fondate sul consenso e sulla partecipazione, ha fornito ai soggetti sociali quella forza resistenziale necessaria ed indispensabile a sostenere ogni vertenza di emancipazione.
Io credo che, rivisitato nei termini e nei modi alla luce dei nostri giorni, sia proprio questo il cammino obbligato che occorre iniziare a sperimentare, come passaggio obbligato di un percorso verso un’alternativa di società. Al di fuori di questo restano i bagliori fatui dell’occasionale rivolta ed il gioco mediatico della costruzione del consenso (banalizzando: gli USA).
Offrire agli uomini e alle donne sul territorio – oggi sempre più precarizzati e polverizzati in una miriade di soggetti atipici, sempre più atomizzati nell’angoscia e nella ricerca della propria soluzione individuale, privati cioè della consapevolezza dell’appartenenza ad una classe e quindi del valore aggiunto della solidarietà, offrire a questa merce in saldo, non semplicemente una tutela sociale e sindacale tanto più devitalizzata dalla sua strutturale perdita di forza contrattuale, ma istituzioni sociali capaci di essere fonti di identità alternative al mercato, capaci di generare istituzioni economiche non mercantili, può essere al tempo stesso forma di resistenza al neo-liberismo ed utopia concreta, nostalgia del domani.

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