mercoledì 28 novembre 2007

Per un sindacato partecipato

(documento predisposto per il congresso del S.in.Cobas)

INNOVARE PER RICOSTRUIRE
Il sindacalismo di base e autorganizzato era nato quasi vent’anni fa dalla crisi e dall’involuzione burocratica delle organizzazioni sindacali tradizionali. Oggi quella crisi, analoga e contestuale alla crisi di tutte le espressioni politiche e sociali del movimento operaio tradizionale, sta giungendo al suo estremo approdo, in Italia, in Europa e nel mondo.
Il capitale, uscito vincitore dallo scontro sociale e politico degli anni Sessanta e Settanta, ha imposto con le politiche della globalizzazione capitalistica un nuovo dominio che ha permeato tutti gli aspetti della vita sociale, culturale e politica e che ha provocato una gigantesca ridistribuzione del reddito e della ricchezza dal lavoro al capitale. La crescente disuguaglianza e differenziazione sociale, il diffondersi di nuove povertà ed esclusioni accanto a quelle tradizionali, l’incessante processo di precarizzazione del lavoro, del reddito e della vita, la trasformazione in merce di ogni cosa, dalla salute alle risorse ambientali, dai servizi essenziali fino al partrimonio genetico, disegnano oggi delle società profondamente diverse da quelle dell’epoca precedente.
Il proletariato, il lavoro salariato, appare oggi cambiato in profondità rispetto al periodo del secondo dopoguerra. Lungi dall’essere scomparso, il lavoro salariato è in espansione sul piano globale e allo stesso tempo è più internazionalizzato: oltre i due terzi della forza lavoro mondiale sono da considerarsi ormai integrati in un unico mercato del lavoro, ovvero esposti a concorrenza diretta tra di loro. I flussi migratori, alimentati da condizioni sociali sempre più insopportabili e dai diritti negati, modificano la composizione del proletariato specie negli USA e in Europa, rendendolo sempre di più multiculturale e meticcio. L’assalto ai diritti conquistati dal movimento dei lavoratori e della lavoratrici nel passato e la precarizzazione del lavoro ci consegnano oggi nuove e sempre più estese generazioni di lavoratori cresciuti nell’ombra della sconfitta, socialmente atomizzati, privi delle tutele giuridiche e contrattuali essenziali e tendenzialmente desindacalizzati.
La crisi del movimento operaio tradizionale si esplicita non solo nella rinuncia ad un punto di vista autonomo ed indipendente, ma altresì nella incapacità di relazionarsi con la nuova composizione della classe lavoratrice: negli ultimi decenni le organizzazioni sindacali tradizionali hanno vissuto un progressivo invecchiamento dei propri aderenti e perso quasi metà dei loro iscritti nell’area USA-Europa-Giappone.
La globalizzazione capitalistica mostra oggi agli occhi di larghi strati sociali di non essere quello che la favola neoliberista prometteva, cioè l’avvio di una nuova epoca di benessere e stabilità. Il governo globale, nella sua impossibilità di rispondere sul piano economico e sociale ai bisogni degli uomini e delle donne, integra come elementi imprescindibile il ricorso alla violenza e alla repressione sul piano nazionale e quello alla guerra come strumento normale e permanente sul piano internazionale. Gli spazi di democrazia e partecipazione si riducono sempre di più. La distruzione dell’ambiente procede senza soste sotto i colpi delle ipocrisie ufficiali e degli interessi del profitto. Laddove i processi di liberalizzazione e privatizzazione sono stati spinti alle estreme conseguenze, come in Argentina, il sistema semplicemente crolla, mentre la fase recessiva dell’economia mondiale sta travolgendo interi gruppi transnazionali.
Una situazione che non ha fatto cambiare strada alle sinistre politiche e sociali tradizionali, sempre aggrappate ad una improbabile gestione temperata dell’esistente. Le sconfitte elettorali a catena dei governi di centrosinistra in Europa e gli spazi di crescita per i movimenti xenofobi o razzisti ci parlano anzitutto dell’assenza di alternative credibili e comprensibili.
Tuttavia, negli ultimi anni sono intervenuti fatti nuovi. A partire dal sociale sono emersi nuovi movimenti, nuove generazioni hanno iniziato, seppure in modo spesso incipiente, a mobilitarsi contro le politiche neoliberiste, la guerra e il razzismo. Si tratta di un fatto di straordinaria importanza, perché dopo lunghi decenni di sconfitte ed arretramenti si intravvede di nuovo una possibilità per ricostruire un altro punto di vista.
Le mobilitazioni europee degli ultimi anni, Porto Alegre, Genova, le manifestazioni di Barcellona, Siviglia fino a quella di Firenze e la grande partecipazione agli scioperi in Italia, Spagna e Inghilterra ci dicono che qualcosa sta cambiando. Uno scenario al quale il nostro progetto di ricostruzione di un sindacalismo di classe, democratico e di massa non è estraneo; anzi la nostra internità a questi processi rappresenta la condizione sine qua non per potergli dare un futuro.
Lo stesso sindacalismo di base necessita di rinnovarsi, poiché anch’esso è strutturato anzitutto nei segmenti tradizionali della classe operaia e oggi sperimenta i suoi limiti nell’organizzazione delle nuove tipologie del lavoro. Un sindacalismo di base che dopo tanti anni non è riuscito a definire un’area sindacale capace sul piano d’insieme a rappresentare una massa critica alternativa al monopolio di Cgil-Cisl-Uil. Un sindacalismo di base caratterizzato da una pluralità di soggetti, orientamenti e storie non facilmente riducibile ad uno mediante fusioni, come ha dimostrato anche il fallimento del processo di unificazione con la Confederazione Cobas, decretato definitavamente dalla sua assemblea nazionale di giugno e sul quale avevamo investito tutta la nostra organizzazione e la nostra convinzione.
Eppure, proprio oggi, quando i nodi vengono al pettine, quando il sistema collaborazionista e perdente della concertazione sta vivendo la sua profonda crisi, non solo in Italia, ma in tutta Europa, il patrimonio di resistenze, lotte e esperienze accumulate dal sindacalismo di base è assolutamente imprescindibile per poter dare alla fase uno sbocco positivo per il movimento dei lavoratori.
Ma occorre innovare, dare priorità alla costruzione nei nuovi settori del proletariato, ricercare modalità unitarie nuove di piattaforma, lotta e mobilitazione con tutte le forze anticoncertative e antiliberiste del mondo sindacale, a partire dal sindacalismo di base e autorganizzato, contaminarsi con i movimenti sociali e giovanili, sperimentare nuove forme di organizzazione, costruire presenza sul territorio e nel sociale e rafforzare la nostra capacità di tenuta e offensiva nei posti di lavoro e nelle categorie.
Il Congresso del S.in.Cobas è chiamato a rispondere a queste sfide, per poter affrontare proficuamente un anno che sarà di grande conflitto, ma anche di grande opportunità.
DALLA CONCERTAZIONE AL PATTO PER L’ITALIA
Il processo di trasformazione del mercato del lavoro e della nozione stessa di lavoro, iniziato a partire dagli anni ottanta ma organicamente strutturato tra il 1991 e il 1993 con la sottoscrizione degli accordi interconfederali che, sulla base della subordinazione del salario alla competitività sui mercati (la nefasta politica dei redditi), hanno avviato la stagione della concertazione, ha subito con l’avvento del governo Berlusconi una decisa accelerazione attraverso la pubblicazione del libro bianco, concepito dai precedenti governi di centro-sinistra ed elaborato da “esperti” di estrazione confederale (Cisl in primo luogo, ma non solo), dalla presentazione del disegno di legge contenente le deleghe in materie di lavoro e, da ultimo, dalla sottoscrizione del Patto per l’Italia.
Dieci anni di concertazione sono costati ai lavoratori la perdita di almeno il 10% del valore reale dei salari e la proliferazione delle forme cosiddette atipiche di lavoro che altro non sono se non lo scippo legale dei diritti sociali e sindacali di fatto perpetrato ai danni di una fascia sempre più ampia di lavoratori. Dieci anni in cui le responsabilità di Cgil, Cisl e Uil e delle forze politiche di quel centro-sinistra che ha partorito il pacchetto Treu – pietra miliare della precarietà – non sono distinguibili da quelle del padronato e della destra con cui condividono un unico quadro di riferimento, quello dell’Europa di Maastricht e dei vincoli di bilancio, fondato sulla primazia indiscussa e apoditticamente indiscutibile della competitività sui mercati, sul primato dell’economia, non più scienza ma ideologia giustificatoria del libero mercato, sulla politica.
Ciò è stato possibile, ma in questa fase di profonda crisi del mercato mondiale, di fronte al crollo di autorevolezza e credibilità delle illegittime e arbitrarie istituzioni poste al formale governo dell’economia mondiale, dal FMI alla BM, dal WTO al G8, di fronte ai drammatici effetti delle politiche neo liberiste evidenti in Argentina non meno che in Brasile e Paraguay, di fronte ai bancarottieri che terremotano i mercati finanziari, non è possibile per il grande capitale, che scatena la guerra economica, sociale e militare, lasciare alcun margine all’illusione di una gestione temperata del liberismo e, liquidata in Europa ogni ipotesi di terza via si avvia, sulla base dei trattati di Lisbona, Barcellona e Siviglia, sulla base della carta regressiva di Nizza che è il fondamento della Carta Costitutiva dell’U.E. che verrà varata, a smantellare nell’intero continente la stessa idea di stato sociale, di solidarietà quale valore fondante la coesione sociale.
LA LEGGE BOSSI-FINI
Con il Governo Berlusconi si registra un’accelerazione dei processi, dettati dalla natura stessa del quadro politico al governo e dai suoi diretti referenti economici non meno che dalle esigenze dettate dall’esterno, sul piano europeo e mondiale, imposte dalla fase. Ma se l’azione del Governo Berlusconi deve essere inquadrata quantomeno in un ambito europeo questo non significa che non si tinga di inquietanti specificità. Se del tutto anomala nel quadro generale è la situazione italiana sul piano dell’informazione e della legalità, una specificità particolarmente grave deve essere registrata con il varo della legge “Bossi-Fini” dove i diritti fondamentali della persona vengono subordinati ad un contratto privato introducendo nella legislazione italiana una sorta di moderna nozione di schiavitù non dissimile dalle forme di schiavitù altrettanto “moderne” diffuse oggi nel mondo. Da sempre lo schiavo ha tratto un proprio status, una forma di tutela sociale, la titolarità di alcuni diritti dall’essere proprietà, bene intangibile del padrone cui lo Stato garantiva la salvaguardia del patrimonio costituito, appunto, dallo schiavo. Cos’altro è ora la persona che se viene licenziata o se decide di dimettersi, deve abbandonare cose e persone e andarsene pena l’arresto, l’espulsione e la proscrizione? Cos’è la persona condannata a servire un padrone pena la perdita del diritto stesso a vivere nella comunità? Questo non è un paradosso retorico, anzi, la condizione classica dello schiavo era per alcuni versi invidiabile rispetto alle attuali condizioni: se nelle forme storiche di schiavitù il padrone doveva comunque farsi carico del sostentamento dello schiavo in quanto questi costituiva, al pari di un terreno o di un immobile, una proprietà di valore, nelle forme moderne di schiavitù, come quella istituita dalla Bossi/Fini, mentre si realizza la totale dipendenza dello schiavo, l’eccedenza di “risorse umane” disponibili (e quindi la loro sostituibilità a costo zero) riduce ai minimi termini il valore dello schiavo sollevando il padrone dalla necessità di garantirne la sussistenza e la stessa sopravvivenza. Con la Bossi/Fini il governo Berlusconi precipita l’Italia nella più oscura barbarie, apre una ferita ulcerosa nel tessuto sociale della comunità nazionale e riattualizza nel terzo millennio una nozione servile del lavoro con cui dovranno fare i conti e misurarsi tutti i lavoratori a prescindere dal luogo in cui sia stato dato loro in sorte di nascere. Un fatto di così inaudita gravità deve essere rigettato e combattuto con ogni mezzo a cominciare dalla pratica della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza per tutti coloro che a qualunque titolo, anche nei posti di lavoro pubblici e privati, si intersecano con gli effetti di questa legge xenofoba, razzista e schiavista.
LA LEGGE DELEGA
I processi di trasformazione del mercato del lavoro e della nozione stessa di lavoro, così come sono perseguiti dal governo Berlusconi, sono schematizzabili in tre fasi, complessivamente descritte nel libro bianco.
La prima fase è costituita dalla legge sulle deleghe al lavoro in cui si realizzano immediatamente, ovvero una volta varati i decreti governativi definiti nelle deleghe:
il completamento della trasformazione del mercato del lavoro con la definita riduzione del lavoro da diritto a merce attraverso la liberalizzazione e deregolamentazione di ogni attività di mediazione ed intermediazione, consentita anche in termini imprenditoriali; attraverso la soppressione di ogni strumento regolatore pubblico, concepito come impaccio alla piena efficienza del libero mercato (incontro tra domanda e offerta); attraverso la definizione di un regime cogente per il “godimento” dello status di disoccupato subordinato alla condizione soggettiva di occupabilità, ovvero di merce acquistabile/affittabile sul mercato;
la legalizzazione, attraverso il proliferare di ogni ulteriore forma atipica di lavoro, di qualunque forma di sfruttamento, sia sul piano del costo del lavoro che delle sue condizioni di fornitura, rendendo in tal modo superfluo il ricorso a forme di lavoro nero, non visto come vulnus sociale, ma interpretato come freno allo sviluppo economico, ovvero come limite all’espansione del profitto, in una logica che marginalizza e sottomette qualunque nozione di diritto sociale all’interesse dell’impresa assunto come unico e totalizzante bene comune;
la revisione degli ammortizzatori sociali dalla difesa del lavoro a calmiere sociale dell’aumento di licenziabilità, attraverso lo spostamento delle risorse, programmaticamente invariate nell’entità totale e, anzi, progressivamente ridotte a seguito dell’annunciata riduzione della pressione contributiva sulle imprese, dagli istituti quali la cassa integrazione e la mobilità ad un’indennità di disoccupazione pensata senza alcun riferimento ad una nozione di salario sociale ma, anzi, concepita in senso punitivo per un disoccupato obbligato ad alimentare e finanziare l’”affare” - per i gestori, privati, padronali e sindacali che siano, del collocamento - delle “politiche attive per il lavoro”. In questo ambito il Patto per il Lavoro riesce ad andare oltre le stesse previsioni del Libro Bianco quando, differenziando i contributi per settori merceologici, ovvero determinando l’entità della contribuzione a carico delle imprese sulla base dell’effettivo ricorso all’indennità di disoccupazione del settore merceologico di appartenenza, sposta la nozione di questo istituto dal piano previdenziale, ovvero della protezione sociale di cui si fa carico l’intera comunità (anche se con i soli soldi dei lavoratori e non per il tramite della fiscalità generale) al piano assicurativo, per quanto al momento obbligatorio al pari dell’assicurazione Inail, ovvero ad un piano tendenzialmente privatistico in cui il rischio di disoccupazione verrebbe coperto dietro il pagamento, da parte dei soggetti direttamente interessati (singolo datore di lavoro e lavoratore), di una polizza la cui entità sarebbe direttamente proporzionale alle probabilità che l’evento assicurato si verifichi. Tendenza questa affatto aleatoria alla luce della nozione di lavoro e di contratto di lavoro quale mero negozio giuridico contenute nel libro bianco;
l’attacco alla magistratura del lavoro in favore di una giurisdizione domestica in deroga alle leggi e alla contrattazione collettiva, sia attraverso l’introduzione dell’arbitrato di equità e sia attraverso l’istituto della certificazione in cui una pattuizione imposta dal contraente forte il negozio giuridico - cui viene ridotto il contratto di lavoro - rovescia le fondamenta della legislazione sociale introducendo vincoli e salvaguardie ad esclusiva tutela dello stesso soggetto forte del negozio, ovvero del datore di lavoro;
l’organizzazione del bussines della disoccupazione attraverso le cosiddette politiche attive per il lavoro a partire dalla formazione permanente che coinvolge l’intera vita delle persone, subordinando saperi, conoscenze e cultura agli interessi e alle finalità del profitto; derubricando l’istruzione a formazione in un unicum affatto teorico ma pervicacemente e concretamente perseguito a partire dalla controriforma della scuola della Moratti in cui le persone non sono che risorse umane da coltivare ai fini di una più efficace competizione dell’impresa sui mercati.
IL PATTO PER L’ITALIA
La seconda fase si è realizzata con la sottoscrizione del Patto per l’Italia, con il quale il governo ha attuato l’uscita da destra dalla concertazione, ponendo in atto la pratica della “consultazione” e negando, con questo, le funzioni ed i poteri di cogestione nel governo della società – all’interno dei limiti invalicabili delle compatibilità economiche del mercato – alle parti sociali e, tra queste, alle organizzazioni sindacali confederali sino ad ora chiamate, in cambio, a garantire il consenso e la pace sociale.
La consultazione, nel momento in cui svapora ogni illusione di una gestione temperata della presente fase storica, denuncia le politiche basate sul consenso sociale, per un’idea plebiscitaria ed autoritaria della politica, in cui il governo trae la legittimità a legiferare esclusivamente dal consenso elettorale assunto, appunto, come mandato plebiscitario, cui i soggetti sociali oggetto dei provvedimenti governativi devono soggiacere senza essere sostanzialmente legittimati ad opporsi (e da qui al progressivo attacco allo stesso diritto di sciopero e alla criminalizzazione del dissenso il passo è breve).
A questo ulteriore e progressivo deficit di democrazia si accompagna la mutazione genetica di Cisl e Uil, non più organizzazioni sociali compartecipi e corresponsabili della gestione di un sistema-paese concordemente accettato da governo-padroni-confederali, ma strutture che traggono la loro legittimazione e il loro sostentamento (enti bilaterali, commissioni arbitrali, gestione delle formazione permanente, mercato del lavoro) direttamente dall’accettazione delle politiche governative, nella forma di un nuovo modello corporativo. E’ in ciò che si realizza la reale rottura di queste organizzazioni con una Cgil, al contrario, ferma ad una visione ed un ruolo concertativi, costretta da un lato al conflitto ed incapace nella pratica di ogni giorno di superare i limiti di una prassi cui si sono formati tutti i suoi quadri ad ogni livello. Nella sostanza elemento dell’attuale conflitto non è un mutamento di rotta di questa Cgil pervicacemente concertativa, bensì la comparsa di questi soggetti neo-coorporativi, legittimati dal governo e non dal consenso dei lavoratori (cui si soprassiede con l’uso brutale della coppia di potenza informazione / repressione), sempre meno sostentati dalle quote sindacali – e quindi dalle adesioni dei lavoratori – e, al contrario, finanziati, quali agenzie governative, con i soldi dei lavoratori per la gestione del mercato dell’occupabilità o, meglio, della licenziabilità.
LA LIQUIDAZIONE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Terza fase di questo processo sarà, come chiaramente descritto sul “Libro Bianco”, la liquidazione del Contratto Nazionale di Lavoro, e della stessa contrattazione collettiva, con la riduzione del contratto di lavoro a mero negozio privato lasciato, in quanto tale, alla libera contrattazione delle parti, intese come datore di lavoro e singolo lavoratore. Sarà la liquidazione di ogni residuo di legislazione giuslavoristica fondata sulla tutela del contraente più debole del contratto di lavoro, il lavoratore. Sarà la liberalizzazione dei trattamenti economici e normativi dei lavoratori, che saranno subordinati alle “condizioni economiche” del territorio, ovvero al profitto. Sarà, con lo “Statuto dei Lavori”, la cancellazione della stessa nozione di “lavoro dipendente” per una giungla di figure contrattuali non determinate dalle reali caratteristiche delle prestazioni fornite e delle modalità con cui vengono fornite in una interdipendenza tra loro che le orienta o verso il lavoro subordinato o verso il lavoro autonomo, bensì da un’astratta dichiarazione definitoria, cui si accompagnerà un quadro sempre più ristretto di diritti, giuridicamente non comunicante con le altre analoghe figure contrattuali inerenti il negozio della merce “lavoro”.
ART.18 E DIFFERENZIAZIONE TRA CGIL E CISL-UIL
In un quadro di siffatta natura e gravità la questione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha assunto ed assume valenze e significati che vanno ben al di là della pur significativa rilevanza tecnica della manomissione della norma. Governo e Confindustria da una parte, Cgil dall’altra, hanno strumentalmente caricato la vertenza sull’articolo 18 di un valore simbolico straordinario perseguendo, gli uni, la denuncia della politica della concertazione e l’imposizione della stagione della “consultazione”, gli altri, la difesa, senza revisioni e senza autocritiche, del quadro sociale concertativo. Gli obiettivi di Governo e Confindustria si sono palesati con la sottoscrizione del Patto per l’Italia. Mentre i reali confini della mobilitazione della Cgil si sono evidenziati nell’avversione al Referendum per l’estensione delle tutele e dei diritti sindacali alle imprese con meno di 16 dipendenti, non meno che nella concreta prosecuzione della pratica concertativa ogni qual volta le controparti lo hanno consentito, sia a livello nazionale e sia a livello aziendale.
La simbolicità dell’oggetto dichiarato del conflitto non ha reso però meno reale lo scontro in atto e la convinzione, pure diffusa, di un rientro nei ranghi prossimo venturo di una Cgil chiamata a cavalcare strumentalmente un conflitto a fini meramente di politica interna ai DS, non ha reali fondamenti: la Cgil è e resterà costretta al conflitto da un quadro socio economico che la esclude in quanto sindacato concertativo e, se una condizione di questo genere non potrà che ingenerare al suo interno dinamiche di diversa e opposta natura, un suo “rientro nei ranghi” non potrà che essere subordinato ad una mutazione genetica di questa organizzazione al pari di quelle subite da Cisl e Uil.
ART.18 E SINDACALISMO DI BASE
Di fronte ad una simile situazione l’insieme del sindacalismo di base (e in questo la produzione di documenti e materiale informativo da parte del S.in.Cobas, tendente ad introdurre elementi di conoscenza e riflessione sulla reale portata e dimensione dell’attacco governativo e padronale, non ha potuto e saputo essere né adeguata né sufficiente a modificare la situazione) il più delle volte non è riuscito ad andare oltre ad un profilo sostanzialmente subalterno e minoritario, assumendo acriticamente la cornice simbolica (l’articolo 18) della vertenza e caratterizzandosi in definitiva nel rifiuto della concertazione (naturalmente con quel che questo sottende in termini più generali) quale elemento distintivo rispetto ad una Cgil comunque assunta come termine unico di paragone della propria soggettività e della propria alterità.
L’incapacità, per l’insieme del sindacalismo di base, di produrre in questa fase adeguate analisi, elaborazioni, informazioni e conseguenti parole d’ordine che attrezzassero i lavoratori a sostenere i veri termini ed i reali obiettivi dello scontro, ha fatto sì che non sia stato possibile cogliere per intero le possibilità che la straordinaria riuscita dello sciopero e della manifestazione del 15 febbraio 2002 offrivano e hanno reso comunque marginale se non irrilevante, qualunque sia stata la scelta operativa assunta da ogni singola organizzazione, il suo ruolo nel momento delle mobilitazioni confederali, quando, al contrario, sarebbe stato possibile intercettare la grande massa dei lavoratori, certamente disponibili al conflitto in termini ben più generali rispetto a quelli che la Cgil può e vuole offrire.
Lo stesso fatto che soltanto alcune organizzazioni del sindacalismo di base hanno saputo cogliere il messaggio politicamente chiarificatore e dirompente del quesito referendario per l’estensione dell’art.18 riconferma questa analisi.
In questo senso le carenze del sindacalismo di base hanno pesato in maniera determinante anche sulla mobilitazione e sulla partecipazione del “movimento dei movimenti” quando, al deficit di analisi e di proposta politica, si sono sommate le spinte centrifughe delle diverse reti. Questo ha finito per svuotare di significato la pur sacrosanta parola d’ordine della generalizzazione dello sciopero, ottenendo di rendere spesso e volentieri subalterna e in qualche misura acritica, se non vissuta in termini di mera solidarietà alla mobilitazione confederale, la partecipazione di un movimento che, con la propria, lunga, capacità di mobilitazione e lotta, ha avuto un ruolo determinante nel rendere possibile lo sviluppo di questo conflitto.
Le grandi mobilitazioni dell’anno 2000, la rinnovata ed entusiasmante disponibilità al conflitto dimostrata dalla grande massa dei lavoratori, come ad esempio nella vertenza FIAT, rischiano allora di essere vanificate se nelle mobilitazioni e nelle lotte non verranno posti al centro dell’agenda socio-politica i grandi temi del lavoro, non merce ma bene comune inalienabile della comunità, e dei diritti dei lavoratori, quali vincoli interni intangibili dal profitto imprenditoriale; se non si avrà la capacità di disegnare una idea complessiva, speculare ed opposta al progetto governativo e confindustriale architettato nel Libro Bianco.
Questa è la sfida che ci troviamo di fronte ed è su questo terreno che il S.in.Cobas sarà chiamato a ricercare l’unità d’azione del sindacalismo di base ed a creare, dal basso, a partire dai luoghi di lavoro e dalle R.S.U., il più ampio fronte di resistenza alle politiche neo-liberiste, connettendosi e contaminando l’intero movimento dei propri contenuti anticapitalistici.
In questo ambito particolare importanza assumono il referendum per l’estensione delle tutele agli occupati nelle imprese sino a 15 dipendenti, non a caso avversato dalla Cgil di Cofferati, che, portatore di un’idea di universalità dei diritti, ha costituito uno strumento forte, discriminante, nella costruzione dell’opposizione sociale. Il referendum può ancora svolgere un ruolo essenziale in vista del voto nella prossima primavera, a patto che si inscriva in un’idea più generale e complessiva di diritti intangibili del lavoro e dei lavoratori, di diritti costituenti la condizione cui deve essere subordinato il profitto imprenditoriale. Di diritti fondati sul primato della politica sull’economia. Di diritti che ridisegnino un primo assieme di beni comuni sottratti dall’interesse pubblico, collettivo, alla speculazione dei mercati. Nella sostanza è necessario, mutuando la parola d’ordine del movimento, che all’attacco complessivo cui governo e Confindustria sottopongono il mondo del lavoro, si contrapponga non solo una strenua difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, ma un’idea possibile e praticabile di un altro mondo, più giusto e più equo, la cui costruzione può concretamente essere avviata a partire dalla vittoria nella votazione referendaria.
Altrettanto fondamentale sarà una effettiva generalizzazione delle lotte e della mobilitazione che superi la persistente idea che lo scontro sulle deleghe al lavoro e sul libro bianco riguardi direttamente i soli occupati, o meglio, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato. La trasformazione del lavoro e del suo mercato è cosa che riguarda e tocca tutti, direttamente, nelle reali condizioni di vita e di lavoro presenti e future e solo parzialmente, in buona misura collateralmente, riguarda i lavoratori tradizionalmente intesi anche sul piano della sindacalizzazione. In questo senso il coinvolgimento diretto ed immediato dei soggetti sociali, in buona misura giovani, che da Genova a Genova per arrivare a Firenze hanno segnato l’irrompere sulla scena politica e sociale del movimento, è elemento essenziale che il S.in.Cobas dovrà perseguire sia attraverso il dibattito, il confronto politico e la capacità propositiva in una logica unitaria ed includente e sia attraverso il ripensamento del proprio divenire verso la costruzione di un sindacato di tipo nuovo.
IL MOVIMENTO DEI MOVIMENTI
Le giornate di Genova del 2001 non erano un’eccezione italiana, ma parte di un processo sociale e politico di carattere internazionale che vede l’entrata in scena di nuovi movimenti sociali, di nuovi soggetti e di nuove generazioni, le cui mobilitazioni sono riuscite ad infrangere il cosiddetto pensiero unico, cioè l’egemonia culturale del capitale, diffondendo dopo lunghi anni in settori più ampi della società di nuovo una critica, un’opposizione, al dominio degli interessi padronali.
Un “movimento dei movimenti” che si è sviluppato sia negli USA e in Europa, che nei paesi dipendenti. Nel primo caso esprimendosi soprattutto in occasione dei vertici degli organi di governo della globalizzazione capitalistica, da Seattle in poi, e nel secondo con lo sviluppo di nuovi movimenti sociali, com’è il caso dei movimenti contadini organizzati nel coordinamento internazionale di Via Campesina.
È un dato di straordinaria importanza quello della dimensione internazionale del movimento. Questo si manifesta su almeno due piani: in primo luogo, la centralità della critica di questa “globalizzazione”, ovvero l’incipiente consapevolezza del carattere sovrannazionale dell’avversario, e, in secondo luogo, la ricerca di luoghi e momenti di dialogo e incontro sul piano globale. Con la realizzazione del Forum sociale mondiale di Porto Alegre nel 2001 si segna un fatto politico dirompente, mostrando per prima volta l’esistenza di una convergenza, nella critica alla globalizzazione neoliberista, tra movimenti e soggetti diversi, di diverse regioni del mondo.
Con le mobilitazioni contro il G8 di Genova si apre anche in Italia un nuovo spazio politico, dal basso e da sinistra. Ci sono almeno tre elementi a sostegno di questa ipotesi interpretativa.
Anzitutto, l’irruzione di una nuova generazione sulla scena del conflitto sociale e politico, come hanno evidenziato la grande partecipazione giovanile sin dalle iniziative preparatorie di Genova (ma si potrebbe citare anche la partecipazione di giovani operai alle iniziative di lotta dei metalmeccanici nella fase precedente Genova) e soprattutto il dato che oltre il 50% dei manifestanti di Genova erano persone non organizzate, cioè nuove.
In secondo luogo, il fatto che per prima volta dopo decenni si realizza una mobilitazione di tale dimensione e capacità di incidere sulla vita politica nazionale, non solo al di fuori degli apparati tradizionali ed egemoni della sinistra italiana, bensì contro di essi. Infatti, sia i DS che la Cgil erano ostili ed estranei a questa mobilitazione.
In terzo luogo, nella mobilitazione di Genova è confluita una grande pluralità di soggetti, modi di essere e motivazioni, ma nel loro insieme hanno espresso senza ombra di dubbio una critica antiliberista, una radicalità, che la separava nettamente dalle posizioni subalterne agli interessi dominanti della sinistra sociale e politica moderata. Non a caso, il luogo di coordinamento e di organizzazione del controvertice genovese, il GSF, ponenva in originale alleanza tra di loro organizzazioni, reti e aree le più diverse.
Infine, si potrebbe aggiungere un quarto elemento, leggendo gli avvenimenti in controluce. Il livello repressivo senza precedenti negli ultimi anni imposto dal governo Berlusconi, in accordo con i servizi di sicurezza dei paesi del G8, dall’omicidio di Carlo Giuliani fino ai pestaggi squadristi della Diaz e di Bolzaneto, hanno mostrato un timore reale, tutto politico, dei governi di fronte alla crescita di movimenti non riducibili alle compatibilità. Anche in questo caso non si tratta di un’eccezione italiana, pur tenendo presente le caratteristiche proprie della coalizione governativa di centrodestra, considerato che pochi mesi prima la polizia svedese era arrivata fino al punto di utilizzare armi da fuoco, ferendo gravemente un manifestante, per contrastare la contestazione del vertice europeo di Goteborg.
Genova non era un fatto effimero, come avrebbero dimostrato i mesi successivi. Dopo l’11 settembre molti invocavano la morte del movimento, ma non fu così, anzi questo si trasformò in movimento contro la guerra, aggiungendo a quella antiliberista una seconda discriminante, quella contro la guerra.
La fase che va dalle giornate genovesi fino alla mobilitazione contro la Bossi-Fini di gennaio a Roma, che si trasformò nella più numerosa mobilitazione di migranti mai avuta in Italia, dato che circa metà degli oltre 100mila manifestanti erano migranti, vedeva il movimento capace di imporre la propria iniziativa politica, “monopolizzando” di fatto le piazze.
L’esempio più ecclatante fu la manifestazione contro la guerra del 10 novembre a Roma. Quel giorno il Governo cercò di mobilitare una piazza a favore della guerra, con il “USA Day”, mobilitando non più di 30mila persone, il movimento contro la guerra portò in piazza 150mila manifestanti, mentre il centrosinistra, che appoggiava la guerra, si ridusse a fare un’invisibile conferenza stampa in una base militare in Puglia.
In sintesi, la fase che va da Genova fino a gennaio 2002 confermava l’esistenza di questo nuovo spazio politico, delimitato dal no “senza se e senza ma” al liberismo, alla guerra e al razzismo. La sinistra moderata era costretta alla difensiva, ancora stordita dalla “sberla di Genova”, il movimento esprimeva capacità di egemonia, seppure limitato ai momenti di mobilitazione di piazza.
Questa capacità di egemonia si traduceva anche nella partecipazione molto larga al secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre (febbraio 2002), dove erano presenti tutti coloro (area DS, fondamentalmente) che l’anno primo avevano deriso il FSM e osteggiato il controvertice di Genova, assumendo ora il FSM come luogo di proprio legittimazione politica, dichiarando “anch’io faccio parte del movimento”, seppure avessero ancora le mani insanguinate dal loro vota a favore della guerra.
Fu in questa fase che nascevano e si diffondevano i Social Forum, come luoghi empirici di raccolta e iniziativa comune tra le organizzazioni che avevano partecipato al processo di Genova e la nuova partecipazione, anche di singoli, che si era data da Genova in poi.
Questa prima fase termina di fatto con il mese di gennaio. A partire da febbraio, con il dispiegarsi del conflitto sociale attorno ai progetti padronali e governativi di attacco generale ai diritti dei lavoratori e con il nuovo protagonismo della Cgil, il movimento perde il “monopolio della piazza” e l’iniziativa politica.
Due sono i terreni problematici di questa fase.
Anzitutto, il fatto che l’entrata in scena del conflitto sociale propriamente detto ha costretto tutte le aree del movimento a fare i conti con esso. Dalla critica generale del neoliberismo bisognava passare alla lotta concreta contro di esso. Il dibattito interno al movimento ha fatto sicuramente dei passi in avanti, come ha dimostrato l’assemblea nazionale del movimento di Bologna che ha assunto il “no alla concertazione” come una sua parola d’ordine. Ma è altrettanto vero che il movimento si è diviso sulle scelte concrete da fare in alcuni passaggi significativi, come in occasione del 23 marzo e del 16 aprile, mostrando così una difficoltà reale.
In secondo luogo, la nuova fase ha proposto un nuovo protagonismo della Cgil e, data la natura del gruppo dirigente e dell’apparato della Cgil, ridato ossigeno alle posizioni di centrosinistra, per nulla cambiate sulle questioni fondamentali, come il neoliberismo e la guerra.
L’azione congiunta di questi due elementi ha prodotto ciò che alcuni hanno chiamato crisi del movimento, confondendo, spesso in modo interessato, i reali termini della questione con le apparenze, come poi avrebbero dimostrato i 150mila scesi in piazza nel primo anniversario dell’omicidio di Carlo Giuliani.
Ma c’è sicuramente anche un altro elemento di crisi reale, rappresentato dall’irrisolto problema del rapporto tra “gruppi dirigenti” del movimento e movimento, tra soggetti organizzati nazionalmente e persone non organizzate, che costituiscono poi l’autentica novità e ricchezza e che anche a Genova nel 2002 hanno rappresentato la presenza maggioritaria.
Il Forum Sociali locali erano stati un tentativo empirico per rispondere a questo problema, ma ci sono di fatto riusciti soltanto per un periodo limitato, specie nella grandi città, mentre nelle realtà più periferiche continuano spesso a svolgere ancora oggi una funzione importante.
Dall’altra parte, i luoghi di coordinamento nazionale, di fatto luoghi di direzione politica, hanno evidenziato una grave inadeguatezza del “gruppo dirigente”, il più delle volte incapace di andare oltre alle mere mediazioni politiche e di sviluppare un elaborazione di prospettiva di medio periodo.
Si prospetta dunque un futuro immediato in cui le componenti del movimento tenderanno a valorizzare maggiormente la pluralità e in cui aumenterà la competizione tra aree diverse. Mentre rimane aperto il problema di come organizzare una riflessione di insieme, fuori dalle contingenze, e di quali forme sperimentare per definire una partecipazione più reale delle nuove generazioni.
SINDACATO E MOVIMENTI
Nella sua giovane storia di organizzazione, il S.in.Cobas ha ripetutamente incrociato la dimensione internazionale e i nuovi movimenti sociali che stavano emergendo. Avevamo sostenuto, anche con progetti di carattere economico, il movimento zapatista in Messico, cogliendovi gli elementi di novità, per alcuni versi anticipatori di quello che sarebbe venuto dopo. Abbiamo partecipato sin dal primo istante alla costruzione dell’esperienza della Rete delle Marce europee contro la disoccupazione, la precarietà e l’esclusione e alle mobilitazioni europee. Ed è stato per noi quasi naturale partecipare al primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre nel 2001 e poi all’organizzazione del controvertice di Genova.
Questa nostra esperienza, anche se c’è il problema di farla diventare di più patrimonio dell’insieme dell’organizzazione, facilita senz’altro la discussione sul rapporto tra sindacati e movimenti, che ormai attraversa settori sindacali sempre più ampi.
I nuovi movimenti sociali sono i primi segnali di controtendenza da lunghi anni, coinvolgendo soggetti colpiti dalle politiche liberiste, nuove generazioni e settori nuovi del proletariato che spesso si sentono estranei alla politica tradizionale e alle organizzazioni sindacali tradizionali, comprese quelle di base. Essi hanno proposto momenti di riapertura di conflitto sociale, individuando la dimensione internazionale spesso come naturalmente immediata e rappresentando una possibilità concreta di interlocuzione, di contatto, con lavoratori precari e migranti.
Un progetto di costruzione di un nuovo movimento sindacale non può che basarsi sull’incontro tra le figure tradizionali (contratto a tempo indeterminato, azienda medio-grande) del lavoro e quelle nuove, tendenzialmente maggioritarie. I movimenti rappresentano uno dei luoghi privilegiati dove tale incontro può realizzarsi, dove rivendicazioni unificanti possono essere definite.
Per questi motivi, il S.in.Cobas deve considerare come parte integrante del lavoro sindacale propriamente detto la cura e la costruzione di rapporti, interlocuzioni e alleanze con i movimenti sociali antiliberisti.
Va ricercata la contaminazione sul campo, nella costruzione di mobilitazioni e vertenze. Unico modo per sperimentare modalità di partecipazione e organizzazione capaci di organizzare i segmenti del nuovo proletariato. Questo implica altresì l’abbandono di ogni concezione verticale, gerarchica, nel rapporto tra sindacato e altri movimenti sociali.
L’intuizione della “generalizzazione” dello sciopero, anche se finora realizzata più sul piano delle parole che su quello della pratica, risultando de facto piuttosto un tentativo di alleanza tra qualche area di movimento e la Cgil, va nella giusta direzione e deve trovare nuove sperimentazioni.
Il S.in.Cobas deve darsi maggior capacità di operare sul territorio, di essere soggetto presente nella società, non solo nel posto di lavoro. L’organizzazione dei lavoratori precari e dei lavoratori migranti è spesso quasi impossibile solo all’interno dell’azienda a causa dell’assenza completa di tutele e diritti. Infatti, l’attivazione e la mobilitazione di questi lavoratori si dà spesso sul territorio, su questioni non immediatamente legati al posto di lavoro, anzi spesso di carattere generale.
È per noi prioritario nella prossima fase assumere come uno degli assi centrali la costruzione nel quadro del movimento di iniziative, rapporti e alleanze, orientate verso la definizione di un’area sociale che assuma la centralità del conflitto sociale e la costruzione di un’iniziativa sui terreni del precariato e dei diritti, della loro estensione a tutti e tutte, fissi e precari, nativi e migranti, uomini e donne.
SINDACATO E POLITICA
Confermiamo l’idea fondante del S.in.Cobas nato per contribuire alla ricostruzione di un sindacato democratico, di classe e di massa. Di un sindacato e non di un partito o di un’organizzazione politica, perché diverso è il ruolo di chi organizza il quadro militante in un progetto complessivo di trasformazione della società e di chi, avendo un progetto complessivo di trasformazione della società, organizza e attrezza i soggetti sociali in quanto tali, in quanto oggetto di una condizione sociale determinata dalla dicotomia capitale/lavoro e non in quanto politicamente orientati.
Partito/organizzazione politica – sindacato sono forme di organizzazione a nostro giudizio antitetiche ed inconciliabili e anche su questa differenza di fondo si è consumato il fallimento del progetto di unificazione nella Confederazione Cobas.
L’unità di azione va perseguita sempre e comunque e questo è un patrimonio originale del S.in.Cobas, purtroppo niente affatto condiviso spontaneamente all’interno del sindacalismo di base, come tanti episodi ci dimostrano, ma l’unità non la si trova mai a scapito della politica.
Il progetto del S.in.Cobas è la ricostruzione di un moderno sindacato democratico, di classe e di massa, ovvero, il suo campo di azione è l’organizzazione, sulla base di un’idea di trasformazione sociale complessiva, del lavoro comunque aggettivato (stabile, precario, che non c’è) nello scontro con il capitale. E’ questo e non altro. E’ questo, con tutte le relative implicazioni politiche e culturali, e non di più e non di meno. E’ il luogo dove agiscono collettivamente tutti i lavoratori e le lavoratrici comunque aggettivati sulla base delle loro condizioni sociali e non dei rispettivi convincimenti politici, culturali ed ideologici, nella consapevolezza che quella che una volta si definiva coscienza di classe ed oggi delle volte viene chiamata autoeducazione popolare, si origina e trae nutrimento dalle lotte concrete che spingono in avanti i rapporti di forza con la controparte.
In questo senso il S.in.Cobas non è un’organizzazione totalizzante, non può e non vuole supplire all’assenza o alla carenza della politica, pena il fallimento del proprio progetto. Si sente ed è parte di un qualcosa di più generale e intende interloquire con quanto di altro da sé si organizza e si muove contaminandolo e facendosene contaminare. Questo, nella consapevolezza che un altro mondo sarà realmente possibile quando e se diverrà un bisogno condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione. Le tentazioni delle avanguardie, i gesti esemplari sono scorciatoie che non portano da nessuna parte e la rivoluzione, quella vera, o la si fa con chi ha il mutuo della casa o le tasse universitarie da pagare o non la si fa.
I limiti della “politica” non devono indurci in errori di supplenza: come sindacato contribuiremo in senso positivo al quadro politico generale solo facendo bene il nostro mestiere.
Essere sindacato d’altra parte non può e non deve significare estraneità ed assenza dai processi politici in atto, anzi, l’attività “politica” esercitata da Genova 2001 in poi esemplifica il giusto e corretto rapporto che un’organizzazione sindacale deve avere con i processi politici ed i movimenti di massa. In questo senso le dissonanze registrate con i compagni della Confederazione Cobas è esattamente il termine di paragone che discrimina la divaricazione e la diversità dei rispettivi approcci politici: un sindacato pervade trasversalmente i fenomeni politici contaminandoli della specificità della contraddizione capitale/lavoro, non si fa parte politica in essi.
Su questo terreno a livello territoriale il S.in.Cobas sconta però gravi ritardi di una parte del quadro militante che riduce nei fatti l’attività sindacale a compiti rigorosamente rivendicativi e vertenziali giudicando più o meno consapevolmente l’azione politica ne più e ne meno come una sottrazione di forze ed energie ai compiti “istituzionali” dell’organizzazione.
Anche a questo si possono far risalire i limiti di “aziendalismo” che dobbiamo registrare nell’azione del S.in.Cobas a livello di buona parte dei Coordinamenti Provinciali e dei singoli Cobas aziendali.
Questo, nonostante che origine e soluzione di quelle stesse condizioni, lotte e vertenze “aziendali” non possano più essere individuate in “azienda” ma vadano ricercate in un quadro sociale, politico ed istituzionale ampio. Limiti di ”aziendalismo” che finiscono spesso per offrire agli stessi lavoratori niente di più dell’idea di una resistenza priva di prospettive.
Non siamo negli anni cinquanta e sessanta, in una fase espansiva del capitalismo e con una politica economica di allargamento della spesa pubblica; siamo alla guerra permanente e alla globalizzazione finanziaria dei mercati, siamo nell’era della Banca Europea e ai vincoli esterni imposti dai mercati. Le decisioni, tutte le decisioni che vengono assunte in ogni singola azienda, sono prese, imposte, condizionate altrove. E questo “altrove” è un cancello che deve essere “picchettato” oggi se si vuole offrire ai lavoratori un’ipotesi di liberazione!
E’ questo il senso e il ruolo politico che il S.in.Cobas non può esimersi dall’assumersi compiutamente anche in ogni territorio ed in ogni azienda, a partire dall’elaborazione di un progetto complessivo che scaturisca dall’analisi sociale, economica e politica del territorio e si ponga nell’ottica della ricostruzione di quel movimento operaio indispensabile per qualunque ipotesi di un altro mondo.
Se a prima vista questo obiettivo può apparire troppo ambizioso per le nostre esigue forze ed in particolare per l’ancora troppo esiguo quadro militante, la verità è che o si ha la consapevolezza che questa è l’unica strada che ci è dato di seguire (certo, passo dopo passo) o il destino della nostra organizzazione è segnato dall’incalzare fuori dai cancelli della nostra azienda dell’azione politica, sociale ed economica del grande capitale.
Rivendichiamo dunque in tal senso l’obiettivo strategico su cui è nato il S.in.Cobas e ci poniamo il problema della verifica delle ipotesi politico-organizzative fondanti il sindacato, in primo luogo l’autorganizzazione, l’intercategorialità e la centralità politica delle rappresentanze elette sui luoghi di lavoro, alla luce della complessità dell’attuale fase.
ESAURIMENTO DELLA SPINTA ALL’AUTORGANIZZAZIONE
E’ indubbio che la spinta all’autorganizzazione che aveva dato vita alle esperienze del sindacalismo di base sia oggi in larga misura esaurita. Le RSU, lungi dal divenire reali strumenti di democrazia vengano progressivamente spogliate di reali poteri a vantaggio degli apparati sindacali concertativi, mentre la nostra impostazione intercategoriale - nonostante la nostra disponibilità ad un suo temperamento sancita nell’assemblea congressuale di Fiuggi, temperamento in realtà di fatto già avviato sin dal Congresso di Mondragone con la strutturazione dell’organizzazione in settori - è risultata essere elemento non secondario di conflittualità, di discrimine e, comunque, di non comprensione con i compagni della Confederazione Cobas.
L’idea dell’autorganizzazione, certamente “ideologicamente” giusta e politicamente suggestiva, presa di per sé, dimostra dopo oltre un decennio di pratica alcuni limiti intrinseci.
In primo luogo non è sufficiente proclamare l’autorganizzazione perché i lavoratori vi facciano effettivamente ricorso. Perché l’autorganizzazione sia una reale pratica vi è la necessità di un “quadro operaio” formato, ovvero di un ambiente in cui le pratiche sindacali e di lotta siano un patrimonio diffuso. Poiché la condizione sociale di per sé non ha mai fornito né una coscienza di classe né tanto meno gli strumenti politici per tramutare la coscienza di classe in capacità di organizzazione e di lotta, questo significa che l’autorganizzazione è possibile realmente di fatto solo là dove preesista un patrimonio di lotte di lungo periodo che abbiano già formato un adeguato “quadro operaio”.
Quando il sindacalismo di base è nato ha fatto incetta del “quadro operaio” formatosi nelle stagioni di lotte precedenti ma dopo, nei anni ’90, sulla base di quali lotte avrebbero dovuto formarsi i nuovi “quadri” indispensabili al proliferare dell’autorganizzazione?
Nella stragrande maggioranza dei casi i lavoratori, attratti dalla radicalità e dalla capacità di resistenza dei Cobas, si sono avvicinati all’organizzazione vivendola non quale supporto ad una volontà di autorganizzazione ma con l’intento di delegarle la propria rappresentanza. Ovvero, sempre più spesso, i Cobas sono chiamati a rispondere non più alla domanda di un luogo di organizzazione delle lotte, bensì a quella che dice “risolvimi il mio problema”. Una logica della delega che infine pervade anche parte della nostra militantanza e dei nostri delegati e delegate.
Nella pratica dell’autorganizzazione, poi, si riscontra un altro limite: il minoritarismo.
I lavoratori autorganizzati sono l’avanguardia, il nocciolo duro che, con una pratica ed un’elaborazione “esemplari”, indicano alla grande massa dei lavoratori un punto di vista diverso ed antagonista a quello concertativo. Ma se a livello di singola azienda l’autorganizzazione ha portato e può portare alla gestione vincente di singole lotte e vertenze, a livello complessivo si è dimostrata incapace di farsi proposta politica credibile, ipotesi maggioritaria alternativa per il complesso dei lavoratori, autorelegandosi al ruolo minoritario di “resistente”. Se i “numeri“ sembrano non lasciare scampo ed alternativa a questo ruolo minoritario è a nostro parere anche vero che l’esiguità di questi “numeri” la si debba addebitare proprio in buona misura all’incapacità dell’autorganizzazione di parlare alla stragrande maggioranza dei lavoratori così come oggi si presentano, di prospettare loro non semplicemente un punto di vista alternativo ma un percorso di partecipazione e pratica e degli obiettivi concretamente perseguibili.
L’INTERCATEGORIALITÀ’
Nella fallita vicenda dell’unificazione, alla disponibilità del S.in.Cobas a temperare la logica e la pratica intercategoriale è stato sistematicamente contrapposto da parte dei compagni dei Cobas, Confederazione dei Comitati di Base, un modello confederale fatto della proliferazione di improbabili organizzazioni di categoria strutturalmente e legalmente impossibilitate ad una reale azione sindacale e di tutela dei lavoratori (soppresso). Un modello organizzativo che peraltro lasciava irrisolte le questioni delle modalità di comunicazione tra categoria e categoria e di costruzione partecipata delle decisioni a livello confederale, finendo per delegare de facto queste ultime ad un ristretto numeri di compagni, come aveva evidenziato anche la querelle autunnale sull’esecutivo confederale.
Se le diverse origini e storie delle due organizzazioni giustificano e chiariscono le differenti impostazioni, nel merito, l’analisi della fase e delle concrete modifiche delle condizioni dello scontro capitale/lavoro cui siamo chiamati a dare risposte efficaci ed efficienti ci impongono un’analisi attenta al fine di dotarci degli strumenti e delle strutture, appunto, più efficaci e più efficienti per attrezzare allo scontro i lavoratori.
In questo senso, se l’esigenza di temperare l’intercategorialità attraverso l’organizzazione dei tre settori (pubblico, privato e trasporti) nazionali in grado di supportare le strutture territoriali ed aziendali in termini di informazione, formazione, condivisione, elaborazione e coordinamento – sancita nel congresso di Mondragone - conserva tutta la sua validità, l’opzione intercategoriale diviene oggi, ancor più di ieri, fondamentale.
Il processo di riorganizzazione del lavoro e della produzione si fonda, come è a tutti noto, sulla loro parcellizzazione in soggetti giuridici diversi chiamati a gestire il singolo processo e/o servizio interconnesso al conseguimento dell’obiettivo produttivo del committente, pubblico o privato che sia e in figure lavorative caratterizzate da negozi giuridici individuali (contratti di lavoro) differenti. Questo fatto comporta che in pratica in ogni sito produttivo, in ogni amministrazione pubblica, convivano lavoratori dipendenti da soggetti giuridici diversi chiamati ad applicare CCNL differenti e lavoratori con contratti di lavoro individuali di tipologia diversa. Se questa organizzazione del lavoro e della produzione è funzionale agli interessi datoriali non può esserlo per gli interessi dei lavoratori il cui primo obiettivo non può che essere la pratica della solidarietà sociale discendente dalla ricomposizione della classe. All’azione datoriale di parcellizzazione deve corrispondere allora una pratica sindacale di riconoscimento e ricomposizione speculare ed opposta. In questo quadro l’intercategorialità diviene strumento imprescindibile a livello di ogni singolo sito produttivo e di ogni amministrazione e deve andare a conformare gli stessi Cobas. Ma nel momento in cui l’obiettivo dichiarato di governo e Confindustria è la riduzione a merce del lavoro e lo sfruttamento sul territorio della risorsa lavoro al pari delle risorse naturali, è ancora l’intercategorialità la risposta più efficace per attrezzare i lavoratori nella lotta per sottrarsi alla condizione di merce a livello territoriale. Rivendichiamo dunque la validità dell’impostazione intercategoriale del S.in.Cobas consegnandone le ragioni come patrimonio di ogni futura interlocuzione.
LE R.S.U. E LA QUESTIONE DELLA RAPPRESENTANZA
Il S.in.Cobas aveva individuato come strumento prioritario le R.S.U. quale mezzo “imperfetto” attraverso il quale praticare la democrazia e la partecipazione dei lavoratori prendendo, con questo, anche realisticamente atto dei margini “istituzionali” realmente esistenti nel quadro della negazione dei diritti sindacali alle OO.SS. non concertative e perseguendone l’ampliamento attraverso la consultazione dei lavoratori nelle decisioni e richiedendo l’introduzione di forme realmente democratiche di costituzione anche attraverso l’emanazione di un’apposita normativa.
Allo stato dei fatti, di contro, ben lungi dal prospettarsi un’evoluzione in senso democratico delle rappresentanze, il complesso dell’azione del governo e delle parti sociali marcia in direzione decisamente opposta puntando allo svuotamento delle reali funzioni delle rappresentanze stesse demandandole agli apparati delle organizzazioni sindacali “che ci stanno”.
Da una parte, le materie oggetto di contrattazione da parte delle rappresentanze aziendali vengono sempre più ristrette dai contratti nazionali e, dall’altra, si assiste ad una crescente pressione da parte di Cgil-Cisl-Uil di limitare l’agibilità sindacale dei delegati e delle delegate, nella misura in cui questi mostrano spazi di autonomia rispetto a alle indicazioni degli apparati concertativi. Infatti, non solo permane il burocratico e antidemocratico 33% di rappresentanza negata al voto dei lavoratori in larga parte del privato, ma in diversi comparti del P.I. è in atto una offensiva confederale per sottrarre i diritti ai singoli delegati eletti, per assegnarli invece alla componente maggioritaria della RSU.
A questa valutazione sulla funzionalità dello strumento va aggiunta una ben più grave considerazione politica: di fronte alla frammentazione dei lavoratori di uno stesso sito produttivo sia in senso orizzontale (appartenenza a soggetti giuridici diversi tra loro) che in senso verticale (condizione giuridica individuale di ogni singolo lavoratore) le R.S.U. finiscono, nel migliore dei casi, per assumere una rappresentanza meramente “putativa”, cioè neanche delegata, di una fetta sempre più ampia se non maggioritaria del complesso dei lavoratori effettivamente occupati nel sito produttivo e comunque nel complesso dei siti produttivi intrinsecamente interconnessi al diretto conseguimento degli obiettivi produttivi di un unico committente.
Queste considerazioni non preludono ad un’ipotesi di denuncia della pratica di ricorso allo strumento delle R.S.U. - che è e resta sia da un punto di vista giuridico che da quello pratico il margine “istituzionale” dato per il godimento di una serie indispensabile di diritti e la finestra istituzionale attraverso la quale porre sul tavolo il punto di vista dei lavoratori – ma ne pongono in discussione il ruolo strategico centrale che sino ad ora il S.in.Cobas ha attribuito loro di strumento adeguato al perseguimento della democrazia sindacale.
La questione della rappresentanza e della democrazia sindacale non si limita alle sole rappresentanze aziendali o al solo diritto negato di esprimere mediante il libero voto il proprio orientamento sulle piattaforme sindacale o sulle intese firmate. È oggi imprescindibile riaprire la questione della democrazia sindacale complessivamente poiché la situazione discrimina e soffoca sempre di più le OO.SS. non filopadronali.
Con il Patto neocorporativo per l’Italia si intravvede un nuovo salto di qualità negativo su questo piano, avendo subito in alcuni casi la stessa Cgil o settori più esposti di questa, come la Fiom, un trattamento escludente. Ciò non ha fatto cambiare linea minimamente alla Cgil, che quanto prima pratica la discriminazione burocratica nei confronti delle OO.SS. di base o di rappresentanze aziendali non allineate, ma senz’altro rende il problema più sensibile politicamente e pertanto richiede una nostra iniziativa forte.
L’urgenza di un’iniziativa è peraltro una questione che non riguarda soltanto la questione democratica. La stessa necessità di attivare e reggere livelli di conflitto più adeguati allo scontro innescato da Governo e padroni, esige forme di partecipazione e coinvolgimento più estese dei lavoratori e delle lavoratrici. Non ci può essere conflitto delegato!
IL METODO PARTECIPATIVO
Riteniamo pertanto che il progetto del S.in.Cobas debba, a partire dalla condivisione della valutazione complessiva della fase, rifondarsi sulla definizione di una serie di obiettivi strategici nell’ambito di un’ipotesi organizzativa e politica innovativa che si costituisca su alcuni punti:
L’autorganizzazione non è un dato di fatto ma un obiettivo - una conquista politica: la ricostruzione di un movimento operaio maturo - che deve essere perseguita attraverso un’opportuna azione sindacale, sociale e politica.
Non vi è coincidenza tra l’autorganizzazione dei lavoratori e l’organizzazione sindacale che la promuove, la progetta e la supporta. Il sindacato non è la sommatoria dei Cobas ma lo strumento attraverso il quale i Cobas perseguono l’obiettivo strategico dell’autorganizzazione ponendo in campo gli strumenti politici e organizzativi funzionali al raggiungimento di detto obiettivo. In questo ciò che discrimina il segno di ogni scelta deve essere la pratica generalizzata della democrazia e della trasparenza all’interno di un quadro di regole condiviso e non il simulacro di un’autorganizzazione semplicemente proclamata da un quadro militante autoreferenziale.
O l’autorganizzazione è di riferimento al complesso del movimento operaio, e quindi trova gli strumenti di ricomposizione della classe, superandone la frantumazione orizzontale e verticale cui si faceva cenno prima, o si riduce ad un mero strumento di resistenza destinato ad un’inevitabile sconfitta.
In questo senso, rivendicata la validità e la funzionalità dell’impostazione intercategoriale del S.in.Cobas, va superato il concetto di Cobas aziendale/categoriale per un’idea di Cobas più adeguata alle attuali realtà sociali e produttive. Nella pratica si dovranno sperimentare strutturazioni:
a livello di sito produttivo o amministrazione, ovvero ricomprendenti al loro interno l’insieme dei lavoratori concorrenti al conseguimento dell’obiettivo produttivo di un unico committente quale che sia il soggetto giuridico da cui formalmente dipendono e quale che sia la natura giuridica del singolo contratto di lavoro individuale;
a livello di territorio riconducibile ad un quadro unitario in termine di gestione delle risorse. Dove le “risorse umane”, ridotte, al pari di quelle naturali, a merce dalla trasformazione del mercato del lavoro in atto, possano organizzarsi per imporre attraverso l’affermazione di un complesso di diritti sociali non negoziabili, il vincolo interno del territorio all’attività economica, produttiva ed amministrativa.
In questa quadro importanza strategica avranno il reale avvio e sviluppo delle Camere del Lavoro e dei Diritti sino ad ora accettate meramente in via di principio ma viste come “aggiuntive” rispetto ad un’attività quasi totalmente centrata a livello aziendale.
Un’organizzazione sindacale che si ponga l’obiettivo della ricostruzione di un sindacato democratico, di classe e di massa attraverso la promozione dell’autorganizzazione dei lavoratori, ovvero attraverso la ricostruzione di un movimento operaio maturo, deve avere la capacità, al di là della propria parzialità organizzativa, di esprimere una pratica “maggioritaria”, ovvero capace di proporsi al complesso dei lavoratori, e non ai soli “quadri operai” e alle realtà aziendali “storicamente” attrezzate, con proposte e percorsi di democrazia credibili e concretamente realizzabili.
Questi percorsi dovranno continuare ad avere come sbocco “istituzionale” le R.S.U., ma non potranno fondarsi semplicemente sull’idea, peraltro attualmente perdente, di una progressiva democratizzazione delle stesse (comunque da perseguire così come è da respingere la loro esautorazione dalle decisioni reali).
La coscienza di classe, ovvero l’elemento necessario ed indispensabile per avviare una reale processo di autorganizzazione dei lavoratori o è frutto di un’intensa e prolungata stagione di lotte o la si può conquistare solo attraverso un costante processo di autoeducazione che mostri ad ogni lavoratore l’indispensabilità di quelle lotte per il concreto miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro.
In questo senso l’esperienza della democrazia partecipativa, assunta come metodo e non come modello, costituisce un’ipotesi di lavoro concreta e praticabile sia in termini di strutturazione interna dell’organizzazione e sia quale proposta e percorso di democrazia per l’intero movimento operaio.
Questa ipotesi di metodo, nel momento in cui la fuoriuscita da destra dal quadro della concertazione si concretizza nella liquidazione dello stesso concetto di “consenso sociale” su cui si fondava la necessità dell’accordo con le organizzazioni “maggiormente rappresentative” e di quello stesso simulacro di democrazia sindacale che lo supportava, diviene l’elemento forte, alto, di una proposta politica da lanciare a 360 gradi come ipotesi di patto, ambito di consultazione, percorso di lavoro sia nei confronti del sindacalismo di base, che dei settori sensibili della Cgil e della Fiom.
Un sindacato è partecipativo se pur sostenendo il punto di vista dei lavoratori che in esso si organizzano, riconosce la titolarità vincolante non solo delle decisioni ma anche della definizione dei bisogni e delle priorità al complesso dei lavoratori facendosi carico del rispetto delle decisioni. Nella sostanza una forma partecipativa di attività sindacale non è uno strumento per creare consenso ma per trovare i meccanismi che rispondano all’immensa maggioranza dei lavoratori, di inventare nuove istituzioni attraverso scelte e rotture che facciano si che le decisioni che impegnano l’avvenire siano assunte dal numero più grande.
Una forma partecipativa di attività sindacale non è un passo indietro rispetto al concetto di autorganizzazione: nel momento in cui il S.in.Cobas prende atto dell’impraticabilità in termini generalizzati di questa modalità, individua il percorso necessario alla sua conquista.
Alla base della partecipazione vi è un semplice concetto: i lavoratori sono abilitati a fare una diagnosi delle loro condizioni di lavoro, sono i lavoratori che possono esprimere meglio i loro bisogni ed avanzare le proposte per risolvere le loro difficoltà. E’ sempre possibile e necessario coinvolgere i lavoratori, e questi sono pronti a mobilitarsi se vedono concretamente i risultati delle loro scelte. Dunque le scelte, tutte le scelte, da quelle contrattuali a quelle “politiche”, spettano ai lavoratori e non sono appannaggio di una élite intellettuale e politica.
Questo concetto fonda la democrazia sindacale, permette il riconoscimento dei lavoratori e legittima la loro parola. Questo concetto fa si che i lavoratori prendano in mano il loro futuro, che debbano organizzarsi (autorganizzarsi) per far valere le proprie proposte, perché in una democrazia partecipativa il lavoratore deve riconoscersi ed è riconosciuto in quanto membro di un contesto sociale, di una classe e non in quanto portatore di una soggettività contrattuale. E’ così, attraverso l’emersione di un lavoratore più cosciente, più critico, più esigente, che un sindacalismo partecipativo può rappresentare la concreta modalità di una risposta alla sfida posta dalla parcellizzazione del lavoro.
Per il S.in.Cobas il sindacalismo partecipativo non è solo una forma di gestione dell’attività di organizzazione e di tutela dei lavoratori in cui i lavoratori partecipano a decidere l’attività stessa (ma la partecipazione non sostituisce le forme di rappresentanza: è una maniera di elaborare, attraverso la democrazia diretta e l’autorganizzazione, la linea e la pratica sindacale cui dovranno attenersi le stesse R.S.U.), è anche strumento di trasformazione sociale: è attraverso la diretta gestione delle questioni concrete che riguardano i lavoratori che questi acquisiscono la consapevolezza che i loro problemi non possono essere risolti tutti al semplice livello della gestione aziendale e che occorre lottare per trasformare le strutture della società. Nella sostanza il sindacalismo partecipativo si articola costantemente tra gestione e mobilitazione, che non sono in antinomia ma in cui la prima e di educazione all’altra sulla base di una prassi fondata su una gestione del possibile che alimenti la coscienza delle lotte che devono essere condotte e che possono essere vincenti.
Se un sindacalismo di tipo partecipativo non ha la pretesa di offrire una risposta definitiva, è comunque un processo aperto, un programma politico-sindacale di portata potenzialmente rivoluzionaria.

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