martedì 27 novembre 2007

La luna nuova

CAPITOLO I

Ma quanto a te, chi riunirà gli dei in as­semblea, perché tu possa trovare la vita che cerchi? Orsù, non dormire per sei giorni e sette notti.
Utnapistim




Il suo sguardo era attratto da quelle mani all'apparenza lente, ma in realtà mosse da una fluidità che si sarebbe detta mistica se fosse stata destinata alla manipola­zione di strumenti e simbo­li d'un qualsiasi rito reli­gioso. Il morbido ondeggiare della bi­ro precipitava di tanto in tanto in guizzi
repentini quasi fosse una spezia dosata dalla sinfonica sapienza d'un grande chef. Af­fascinato suo malgrado, considerò - con ironia - spre­cate quelle insospettate armonie che il Direttore incon­sciamente profondeva nella disamina dei fascicoli istruttori.
Bilanciando da una gamba all'altra il peso di una vaga inquietu­dine, si dispose all'attesa.
Quella convocazione l'aveva sorpreso non poco.
Una naturale idiosincrasia per i simboli dell'autorità - probabi­le reazione all'acritica devozione che aveva so­stenuto l'intera vita del padre - e una solida ripulsa per la piaggeria del resto cementata da un grande pudore, lo avevano escluso dalle assidue frequentazioni che caratterizzavano altri colleghi.
Una rapida disamina mentale della propria recente at­tività lavo­rativa non gli aveva rimandato alcun fatto - nel bene o nel male - degno di giustificare quella con­vocazione.
La sua vita lavorativa si era andata stabilizzando in quei quasi tre lustri di impiego pubblico, verso un opaco equilibrio tra l'assoluto disinteresse per l'oggetto della propria prestazione e quel senso di innata onestà che gli imponeva d'assolvere coscien­ziosamente - an­che se con sollecitudine comunque blanda - alle man­sioni affidategli.
Questo "modus vivendi" lavorativo, oltre che a evi­targli le poco gradite attenzioni della Direzione, gli aveva procurato tra i colleghi una tranquilla patente di bonomia vivificata da una in­nata cortesia, solo di tanto in tanto illuminata da gelide argu­zie rivelatrici di qual­cosa di ostile soggiacente.
- Si sieda, Mareschi - disse il dottor Finzi, il Direttore, sol­levando per un attimo lo sguardo dalla scrivania - Un momento e sono subito da lei.
Si sedette su di una delle due sedie dall'imbottitura verde che fronteggiavano la scrivania dalle misure di­rigenziali, lasciando vagare lo sguardo per la stanza.
- Ho letto il suo pezzo sul "Gazzettino" di sabato - At­taccò il direttore senza sollevare il capo.
- Ah ... le è piacituo? - farfugliò sorpreso.
- Mi è sembrata una critica molto puntuale, illumi­nante.
- La ringrazio - si schermì sconcertato dagli insospet­tati inte­ressi artistici del superiore - Ho trovato che uno zio Vanja ed una Sonja quasi adolescenziali svuotas­sero il dramma della sua reale sostanza.
- Amo molto il teatro, Cechov, Ibsen, anche se non ho molto tempo da dedicargli - e chiuso il fascicolo il di­rettore proseguì, all'apparenza senza un nesso, guar­dandolo negli occhi - Ho cerca­to di parlarle anche la scorsa settimana. Ma mi risulta che fosse in ferie.
- Si, un residuo dell'anno passato.
- Oh bene, cioè, mi spiace, perché avrei voluto pre­avvisarla e non farla trovare di fronte al fatto com­piuto. Come sa i recenti pensionamenti di diversi col­leghi e le nuove disposizioni mini­steriali impongono una riorganizzazione dell'Ufficio. Ciò compor­ta la ne­cessità di affidare responsabilità specifiche a tutta una serie di colleghi ed è umano che ciò abbia ingenerato delle le­gittime aspettative.
Lei, Mareschi, è senza alcun dubbio uno degli ele­menti più validi che io abbia a disposizione e, come mi riferiscono i suoi supe­riori diretti, ha ormai acqui­sito nel suo settore una indubbia competenza.
- La ringrazio... - Si schermì ancora Mareschi.
- E' per questo che ho ritenuto - proseguì imperterrito il Diret­tore - di doverla utilizzare, per un certo periodo di tempo, per alcuni incarichi speciali che le nuove normative ci impongono. Con la sua proprietà di lin­guaggio da un lato e con la sua compe­tenza specifica dall'altro, lei è l'uomo giusto per l'istruzione delle pra­tiche del settore del dottor Marchi. Capisco che lei - giustamente - pensasse di andare ad occupare il posto di Gianola, con cui ha collaborato in questi anni, ma quello che mi preme farle comprendere personalmente è che la tengo in gran conto e se al momento mi sono visto costretto a spostarla di settore senza poterla, nel­l'immediato, gratificare dell'incarico cui legittima­mente aspira, non deve in alcun modo considerare questo fatto pu­nitivo o come una mancanza di consi­derazione nei suoi confronti, anzi! Il fatto che lei oggi non si veda assegnare l'incarico che si attendeva non la deve in alcun modo abbattere, abbia un po' di pazienza e vedrà che avrò modo di accontentarla.
Era un po' frastornato, soprattutto imbarazzato da quel rossore che sentiva imporporargli il viso. Farfugliò qualcosa e in breve fu congedato con reciproco sol­lievo.
La brutalità del trattamento riservatogli, mitigato solo dalla cortese formalità del Direttore, impiegò un po' di tempo a farsi strada nella sua mente.
In fin dei conti - checché ne pensasse il dott. Finzi - l'affida­mento di un settore dell'Ufficio non rientrava affatto tra le sue aspirazioni e i sommovimenti che avevano attraversato negli ulti­mi mesi le stanze, incri­nando vecchie amicizie e smascherando la­tenti ambi­zioni, erano tranquillamente passati sulla sua testa sollecitandogli tutt'al più qualche divertita freddura.
Certo, aveva registrato che la promozione del suo capo settore lo poneva candidato naturale alla "successione", ma per la perora­zione di una tale solu­zione non avrebbe sprecato una sola frazio­ne delle sue energie.
Ciò che colse sul momento fu l'ironia di una motiva­zione: "Non promosso per eccesso di bravura"! Bhè, avrebbe avuto di che accu­sare quella vecchia e segali­gna professoressa che gli aveva tra­smesso il germe della lettura e il desueto vezzo d'una buona sin­tassi.
Immediatamente fuori dalla stanza del Direttore con disagio av­verti netta la rarefazione dell'aria. Si sentì prossimo a boc­cheggiare imputando ad un'imbarazzata commiserazione il silenzio che alla sua comparsa aveva ammantato la Segreteria. Sorrise, me­glio, stirò i muscoli del viso e s'avviò alla sua scrivania.
Avrebbe voluto chiudere la porta, ma l'inveterata abi­tudine con­traria gli impose di non mostrare turbamenti a colleghi di cui improvvisamente temeva più la commiserazione che la derisione.
Con cura assestò un fascicolo dinanzi a sé e se ne ri­mase, lo sguardo assente, assorto tra frazioni incon­cludenti di pensiero.
Era irritato dall'inaspettata reazione che la cosa gli aveva cau­sato:
- Cavolo - si diceva - Che ti importa? Non sei mica Giorgi o A­cerra! Hai ben altre ambizioni, tu.
Ma gli rodeva.
Fosse stato d'altra pasta, già ora sarebbe andato rim­balzando da una scrivania all'altra schiumante indi­gnazione e salaci epiteti, ma l'inevitabile sospetto d'un interesse personale fece immedia­tamente assurgere ad insormontabile barriera il suo orgoglio, vi­zio o virtù di cui possedeva una considerevole dotazione.
D'altra parte non poteva, senza divenir la volpe della proverbia­le uva, proclamare un liberatorio:
- Me ne fotto!
Era in trappola: frodato da quella masnada di bracco­nieri.
- Ciao - Serena Mancini, una brunetta minuta ma deci­samente cari­na, era entrata nella stanza chiudendosi furtivamente la porta alle spalle - E' una vergogna!
- Cosa? - Tentò lui con scarso successo.
- Quello che ti hanno fatto.
- Oh, per quello che mi importa. Se lo tengano tutto l'Ufficio.
- Ma io l'ho detto chiaro e tondo che è una porcheria.
- Lascia stare.
- In assemblea erano tutti daccordo.
- Assemblea?
- C'è stata l'assemblea sindacale, ieri.
- Ah ... - Con una strizzatina di budella registrò che quanto gli era accaduto, oltre che essere oggetto delle chiacchiere di cor­ridoio era già divenuto - in sua as­senza - argomento di discus­sione ufficiale.
Serena proseguì il suo racconto fornendogli le tessere d'un puz­zle che a sua insaputa s'era andato formando alle sue spalle.
Le fu grato, quel disagio un po' attonito che lo aveva pervaso andava precipitando in un'affilata rabbia pun­tata contro un ben preciso obiettivo.
Non si curò di discriminare nel racconto di lei i fatti dalle il­lazioni e dai pettegolezzi che sempre corrono sui rulli delle macchine da scrivere degli uffici: il tri­bunale di salute pubbli­ca che s'era andato insediando nella sua mente s'accontentava d'un teorema accusato­rio per emettere una condanna inappellabile.
- Che vuoi che ti dica. Se non hanno di meglio cui aspirare nella vita...
- Che pensi di fare?
Rispose alzando le spalle. Era decisamente più sereno, ora. Sor­rise alla collega, oggetto di più d'una fantasia erotica mai e­spressa per timore d'un rifiuto più che per rispetto dei rispet­tivi legami sentimentali.
Lei, interpretando con giustificata malizia i pensieri di lui, s'avviò alla porta giocando un esasperato e civet­tuolo sorriso compiaciuto.
Si guardò intorno nella stanza, quella commistione raccogliticcia di mobili metallici e scaffaletti in legno, frutto della buona volontà di Antoniazzi, l'economo, gli rimandò, rafforzata, la consueta repulsione per quel luogo inaccogliente.
Il decennio abbondante in cui egli aveva occupato la stanza non aveva sedimentato, eccezion fatta per al­cuni calendari pubblici­tari, la benché minima persona­lizzazione.
Eppure in quel luogo aveva passato pressocché costan­temente sei ore della sua esistenza, giorno dopo giorno!
Questa presenza furtiva gli parve allora rivelatrice e il senso di estraneità gli causò una leggera nausea.
Gli parve quasi di vedersi - con minuziosa cura - in­tento a can­cellare le impronte digitali della propria anima.
Nonostante il turbamento s'avvide divertito della me­lodrammati­cità dell'immagine e reagì.
Richiusa diligentemente la pratica, s'alzò e con passo deciso ri­guadagnò la Segreteria, dove informò la col­lega, mandandola al diavolo per le considerazioni che le attribuiva.
- Sto male - e con celata se non inconscia ironia pre­cisò - Mi vien da vomitare.
Compilò il modulo di permesso che solertemente gli era stato for­nito e rapidamente guadagnò l'uscita.


CAPITOLO II

Da te nascer un figlio che non vedrai.
Da lui nasceranno esseri perduti tra la folla come stelle che errino nel firmamento. Vieni da una stirpe di giganti, e ho umiliato il tuo corpo; i tuoi discendenti nasceranno deboli; la loro vita sarà breve; avranno in sorte la solitudine. Ma resterà nel loro seno
una preziosa scintilla dell'anima dei geni ...
Adonai



Benché la mattinata fosse avanti nell'ora, il tiepido sole di marzo non era riuscito che a smussare la rigida limpidezza dell'aria.
Con un brivido Luca Mareschi si strinse addosso il giaccone di panno pesante e s'avviò alla macchina, mise in moto e si immise nel traffico scorrevole.
Vagò a lungo, prima per le anonime strade della parte bassa della città, quelle sul cui ciglio era andata proli­ferando, in assenza di un adeguato strumento urbani­stico, l'anonima congerie edilizia della parte nuova, poi lungo le tortuose stradine semideserte della parte alta dove s'arroccavano, più che nobili vestigia d'un glorioso passato, povere ma dignitose memorie d'un operoso borgo.
Cercando di sfuggire agli ostinati pensieri che suo malgrado gli venivano affiorando, si risolse di par­cheggiare la macchina a ri­dosso delle antiche mura ci­clopiche. Queste, racchiudendo ad o­riente la città vec­chia, segnavano l'inizio d'una sorta di zona franca tra il vecchio e il nuovo che, sul lato più scosceso della col­lina, oltre ad essere scampata miracolosamente in­denne all'at­tacco cementizio, sembrava aver attirato - unica - le fantasie decorative degli amministratori. Essi, infatti, v'avevano realiz­zato una sorta di passeg­giata lungo vialetti delimitati da folte siepi, olmi e ti­gli. Qualche fontanella, alcune ben distribuite panchine metalliche e, in un tratto pianeggiante in cui lo spazio lo consentiva, un piccolo parco giochi per i più pic­cini, comple­tavano l'arredo della zona.
S'avviò lungo uno dei sentieri con passo spedito fino a perdere di vista, oltre una svolta, la strada.
Si sedette allora su una panchina vuota respirando a bocca semia­perta quell'aria ancora frizzante e secca.
Dopo qualche istante la sua attenzione fu attratta dai frequenta­tori della zona in quell'ora per lui insolita.
Di fronte, su di una panchina poco discosta da lui, due anziani pensionati si sostenevano vicendevolmente in una pacata discus­sione che evidentemente concerneva un comune nemico. Luca suppose che dovesse trattarsi del governo, dell'inaudito aumento dei me­dicinali o forse anche della stessa vecchiaia o del mondo, della vita in genere che insensibile tritura il tempo tra le sue ruote.
Più avanti, sorretti dal tronco di un compiacente al­bero, due a­dolescenti si scambiavano effusioni amo­rose mentre lungo il via­letto branchi di studenti sud­divisi per sesso e fasce d'età gal­leggiavano annusan­dosi.
Quel consueto spaesamento prossimo alle vertigini lo colse im­provviso.
Benché non mostrasse segni d'un incongruo giovanili­smo, non riu­sciva ancora a capacitarsi di non apparte­nere più - da tempo - alla categoria dei "giovani". Ormai a cavallo dei quaranta e pa­dre già da qualche anno, s'era sentito realmente estraneo ai rap­presentanti delle generazioni più recenti solo quando questi s'e­rano orientati, polli d'allevamento in stive asfittiche, su rotte non contigue alle sue costellazioni.
Esoscheletri, figli de-generati del culto dell'immagine, riserva­va loro una malinconica attenzione rodendosi coll'inespresso dub­bio che questa sua supposta (o "supponente"?) capacità di giudi­zio non fosse altro che lo stomaco entro cui digerire la sua ina­deguatezza al ritmo della storia.
Si, perché era il tempo il drago posto a guardia del suo antro. Erano il tempo le sabbie mobili della sua clessi­dra che lo risuc­chiavano, risucchiate, nel gorgo della strozza accelerando verso il nulla.
La noia di tanti lontani pomeriggi adolescenziali s'era mutata quasi insensibilmente nell'ansia che ora ritmava il suo bisogno di tempo per puntellare lo smottamento dei suoi progetti in illu­sioni/delusioni.
Ad una ad una stava vedendo le traslucide statuine dei suoi sogni sbriciolarglisi tra le mani nella grigia, pro­saica sabbia quoti­diana e s'andava domandando, al­larmato, quanto sarebbe riuscito a salvare della sua ormai sparuta collezione.
Ebbe un singulto d'insofferenza.
Maledisse la stolida tranquillità della provincia.
Avrebbe quasi preferito che la sonnacchiosa cittadina fosse pro­tagonista martire di quei tempi e non attonita spettatrice tele­visiva, paciosa nella propria marginalità.
Il crescendo rossiniano di violenza e disumanizzazione che nelle cronache giornalistiche sembrava tracimare da ogni angolo del pianeta, lambiva ancora molto marginalmente quella che a molti sarebbe apparsa come un'isola felice.
Ma egli, trasponendovi la propria condizione, sentiva quell'ap­prodo sottovento una rinuncia all'inebriante sensazione di volare sull'onda, di vivere la storia sul­l'orlo di un vulcano anche a rischio di subirne l'eru­zione.
Si sentiva punito dalla sorte relegato com'era nel­l'estrema peri­feria d'una provincia, relegato al ruolo di sbirciante spettatore d'uno spettacolo da basso impero.
Come avrebbe potuto lui, già così di suo inconclu­dente, riuscire a scardinare le barriere che la sorte aveva frapposto sul suo cammino?
Eppure un vano pruder di mani gli suggeriva il desi­derio d'essere attore in un'era di decadenza e crollo, forse gratificante, nell'arco d'una vita, più d'una ratea­lizzabile ascesa imperiale.
Sentiva il desiderio d'essere martire o reziario d'un ri­buttante circo che reputava esecrabile.
Nato nel luogo e nel tempo sbagliati, dotato in sorte d'una deci­sione e d'una perseveranza inadeguate alla propria ambizione, ro­tolava la propria vita lungo la ripida e polverosa discesa della mediocrità.
Il peso della leggerezza della propria morte lo colpì per l'enne­sima volta come un lancinante dolore.
Lo sguardo vagò alla ricerca di un appiglio.
Fu allora che per la prima volta vide il tizio.
Il viso segnato da anni di privazioni, l'uomo mostrava d'aver passato abbondantemente la cinquantina.
Le guance spruzzate da una rada barbetta s'incavavano ai piedi degli aspri zigomi. Due spesse lenti sul naso grifagno lasciavano intravvedere due occhi non grandi e arrossati ma vivi d'un grigio tagliente. Vestiva un'in­forme congerie di capi a prima vista su­dici ma ad un'attenta osservazione in realtà quasi fusi, trasmu­tanti nelle forme e nei colori nella pura idea del tepore.
Le mani, nodosi artigli, scartarono con nervosa cura un involto di carta. Due spesse fette di pane casereccio inframezzate da una generosa porzione di formaggio duro si rivelarono l'oggetto delle attenzioni dell'uomo.
Masticava, la bocca aperta, lo sguardo fisso davanti a sé, con metodica precisione. D'improvviso, con gesto repentino si chinò sulla sporta ch'era rimasta fino ad allora celata allo sguardo di Luca all'altra estremità della panchina e vi estrasse una botti­glia di vino rosso. Coi denti gialli, ma evidentemente robusti, strappò il sughero e si concesse un abbondante sorso, per poi procedere con cura certosina al deposito del piccolo tesoro nella propria custodia.
Ad un primo attimo di disagio di Luca era seguito un istintivo moto di simpatia per quell'uomo dall'appa­renza di barbone. Atten­to osservatore, s'era presto av­veduto che alla manifesta povertà che l'altro dimo­strava s'accompagnava un'attenta cura delle pro­prie condizioni igieniche: la mani screpolate e grigie, ru­vide, mostravano un'inaspettata cura delle unghie, mentre i capelli, scompostamente allungatisi dopo un remoto e radicale taglio, te­stimoniavano il recente la­vaggio.
Con gesto improvviso l'uomo volse il capo verso di lui perforan­dolo con il suo sguardo.
Luca abbozzò un sorriso, imbarazzato dalla sua stessa indiscre­zione.
Dopo un lungo silenzio l'uomo, sempre con cura scru­polosa, riav­volse ciò che restava del suo pranzo nel foglio di carta paglia e lo ripose quindi nella sporta.
- Guardati dall'uomo, fratello! - lo sorprese all'im­provviso.
- Cosa?
- Guardati dalla sua stupidità felice... Solo la tomba... solo... e poi disprezzo e solitudine... - l'uomo s'andava infervorando - Speranza... disperata speranza - e con l'indice vibrante puntato contro Luca - Guardati dalla speranza! ... Nulla, solo la tomba...
- Ha bisogno di qualcosa? - azzardò Luca, preoccupato dall'evi­dente confusione che regnava nella mente del­l'uomo.
- Nasconditi! Nascondi la scintilla! - furtivo - Perditi tra la folla... perché sei nato debole... - imperioso - Nasconditi o morrai!
Luca cominciava a preoccuparsi e con la coda dell'oc­chio cercò aiuto nei vicini, ma nessuno sembrava pre­stare attenzione alla penosa scena che vedeva l'uomo protagonista.
- Solo la tomba... Maledetti dalla loro stupidità invi­diosa... Traditi e derubati... Guardati dall'uomo!... Solo la tomba...
- Va bene... - fece per interloquire accondiscendente.
- Ssss! - gli rimandò imperioso l'uomo - Nasconditi e spera... Ma ricorda: solo la tomba, solo!
Con gesto rapido s'alzò, afferrò la sporta e s'avviò spedito, le spalle leggermente curve, lungo il vialetto che s'inoltrava all'interno del parco.
Luca lo guardò allontanarsi combattuto tra il sollievo dell'indo­lore conclusione di quell'incontro e l'inquie­tudine che, al di là delle sconcertanti modalità in cui erano state espresse, le scon­nesse frasi gli avevano su­scitato.
Sembrava quasi che, per chissà quali istintive e sensi­tive abi­lità dello strambo personaggio in cui s'era im­battuto, le parole di questi possedessero una sorta di potenza archetipica ch'egli era in grado di metaboliz­zare nella propria contingente situazio­ne.
Per una frazione di secondo si abbandonò all'oscura sensazione che un qualche rapporto, un qualche afflato fraterno lo connet­tesse realmente all'altro, ma il ri­chiamo della ragione alla particolare condizione psi­cologica, in cui i fatti della mattina l'avevano posto, giustificava subito e appieno alla sua coscienza l'in­quietante sintonia con l'affiorare di un sentimento di soli­darietà verso il dramma esistenziale d'un pove­r'uomo così eviden­temente mal-trattato dalla sorte e dai suoi simili.
Con un sorriso mesto considerò che il suo volto do­veva esprimere, più di quanto lui avesse intenzione di concedere, il suo stato psicologico, se era bastata un'occhiata d'un uomo dalla mente ob­nubilata per far cogliere a questi una sorta di fratellanza tra di loro.
Giudicò veramente eccessiva la situazione e si impose di reagire.
L'ora della colazione era ormai prossima e, alzatosi dalla pan­china, si avviò alla macchina con l'intenzione di raggiungere sul luogo di lavoro la moglie per pro­porle di pranzare insieme.


I° INTERLUDIO

Il rosso gorgogliante del metallo gareggiava - albicante - col vampeggiare della brace.
Si fermò, quasi ad annusare l'aria, come ad assicurarsi che po­tesse essere essa e solo essa a carpirgli il se­greto.
Sorrise nella sua incorrotta solitudine e asperse sulla fucina, con un gesto ampio e misurato, i grani della pietra che aveva frantumato.
Si fermò di nuovo, allora, detergendosi il sudore dalla fronte e col sudore il segno.
Rimestò con rinnovata energia il fluido incandescente e prese a colarlo negli interstizi tra la matrice e l'anima sussurrando il nome sacro di Hepit, grande e possente dea.
Ora era fermo, accoccolato in un angolo del cortile in­terno e con il dito tracciava segni a spirale nel terriccio secco e bruciato.
Guardò alto nel cielo, in quell'azzurro disegnato dalla pareti di fango della sua casa: la notte era lontana ma avvertiva nell'ani­mo una smania che gli impediva d'at­tender oltre.
D'improvviso si decise e si volse a quella strana co­struzione che mai nessuno aveva sino ad allora visto nella terra di Khatti. Era un cono di argilla mista a stoppie, dal vertice troncato, non molto grande, pog­giato su di un piano dello stesso materiale in corri­spondenza d'un piccolo foro. A Kaish - questo era il nome dell'uomo - aveva ricordato quel che gli era stato detto a propo­sito di come le genti delle terre del tra­monto onorassero la grande dea. Ma egli ne aveva ap­preso i segreti tra i fratelli della terra di Sumer ed ora il ricordo del viaggio lo riempì per l'ennesima volta di nostalgia.
Si riscosse e con rinnovata energia, come volesse con la spossa­tezza alleviare il rimpianto, prese ad ammuc­chiare la legna di pino e le pietre nere che aveva rac­colto il giorno precedente. Procedeva con metodo, servendosi dell'apposita apertura lasciata sul fianco del cono, sovrapponeva strati alternati di legna e pietre, quindi, quando ritenne l'interno cavo sufficientemente riempito, prelevò dalla fucina dei tizzoni ardenti coi quali ap­piccò il fuoco alla legna. Affascinato suo mal­grado, vide ben presto, dall'apertura praticata sulla sommità, volute di fumo levarsi verso il cielo e di converso avvertì il vento risalire dal foro posto alla base in quello che comprese essere lo stesso ventre ar­dente di Hepit. Ebbe quasi un momento di vertigine quando capì d'essere testimone e artefice allo stesso tempo dell'estasi amorosa della dea col suo divino consorte Teshup, si­gnore delle tempeste.
Ripensò alla notte trascorsa tra le calde cosce di Hat­tushimeni, la giovane sacerdotessa del tempio e sentì, pulsante, ergersi il suo desiderio.
Il fuoco ora andava scemando ed egli, ricordando gli insegnamenti ricevuti, cavò dall'apertura laterale l'in­forme massa incande­scente gettandola nella fucina dove prese a percuoterla con la pesante mazza.
Grosse gocce gli imperlavano il viso, mentre rivoli di sudore gli colavano dalle spalle nude sulla schiena, ma egli, ormai preda d'una gioiosa frenesia, accelerava il ritmo ebbro del calore, del lumeggiare e del suono acuto e squillante che i suoi colpi produ­cevano.
Quasi inavvertitamente la materia prese a suggerire l'idea d'una forma e Kaish ne assecondò le aspirazioni coi suoi colpi ora ben dosati.
Solo quando il braccio fu stanco s'arrese e contemplò la corta lama che aveva realizzato. Era ben diversa dalle sue opere raffi­nate e ben cesellate, ma già ora, pur così grossolana, quell'ar­dente creatura emanava un'aura di spaventosa potenza.
Ebbe paura e come a scacciare i suoi dubbi, la ricoprì dell'ossa d'animali e pelli dure che allo scopo s'era procurato. Ravvivò il fuoco della fucina per innalzare il calore - come gli era stato suggerito - favorendo in tal modo il trapasso nella lama della vita larvale che quei resti ancora conservavano.
Nuovamente invocò la dea.
Quando ritenne che tutto fosse compiuto, prese la lama viva e l'annegò nell'acqua. L'anima della sua crea­tura si levò ribollen­do e se ne fuggì in una nube di fumo.
Kaish, ancora una volta, implorò il perdono.


CAPITOLO III

E' sparita la luna,
le pleiadi. Notte
alta.
L'ora del tempo varca
Io dormo
sola.
Saffo


Erano ormai sei anni che s'era sposato con Giorgia, solo di due anni più giovane di lui.
Più che una grande passione a farli decidere era stato il deside­rio di porre un punto fermo alla loro esistenza al culmine della crisi che aveva disperso la loro genera­zione.
"Giovani" per l'afflato liberatorio della contestazione, erano i figli della strategia della tensione, delle stragi impunite e della stagione del terrorismo. Orfani del­l'impegno e della mili­tanza, s'erano ritrovati tra le mani il cadavere putrefatto di un'idea, sentendosi orfani e innocenti.
Post-sessantottino non pentito lui, femminista lei, di poco pas­sata la trentina, s'erano sentiti naufraghi in quel mare senza approdi e s'erano aggrappati l'uno al­l'altra.
I casi della vita e le opportunità avevano ben presto finito di disperdere i luoghi e i personaggi ch'erano stati l'ambito ove era maturato il loro incontro ed ora dell'antica appartenenza, concausa subliminale della coppia, restava solo un'esile, comune, vibrazione.
La loro convivenza s'era andata stabilizzando col tempo in un tranquillo menage inaspettatamente vivi­ficato dall'arrivo di Lu­crezia, la loro bambina di quasi quattro anni.
Giorgia era impiegata quale contabile presso la Sof­tservice s.r.l., una società di servizi informatici, e da questo lavoro, per Luca privo d'attrattive perlomeno quanto il suo, sembrava trarre stimoli e gratificazioni sufficienti ad un sostanziale ap­pagamento. Vero era che il surplus di lavoro casalingo che Gior­gia, al di là della buona volontà ideologica di Luca, s'assumeva, non le avrebbe consentito comunque spazio per ulte­riori progetta­zioni.
Entrò nella stanza e lei, impegnata al telefono col fun­zionario d'una banca, l'invitò con un cenno di saluto a sedersi.
Osservò curioso per l'ennesima volta il piglio mana­geriale di lei contrapponendolo alla sua natura schiva.
Ne avrebbe avuto un disperato bisogno!
- Come mai sei qui?
Non aveva voglia di parlare di quel ch'era accaduto. Conosceva la reazione della moglie e l'aggressività che avrebbe scaricato a­vrebbe di gran lunga superato i be­nefici d'una solidarietà.
D'altra parte quel suo potente orgoglio non avrebbe gradito il corollario di commiserazione che i fatti avrebbero suscitato.
Alzò quindi le spalle e improvvisò.
- Non avevo voglia di stare in ufficio... Ho preso un permesso e son venuto qui per invitarti a pranzo.
- Ho solo un'ora, però - disse lei guardando l'orologio. - Dove vuoi andare?
- Dove vuoi tu.
- Al "Vecchio Mulino", allora - decise lei chiudendo i cassetti della scrivania e, indossato un leggero sopra­bito di colore bei­ge, lo prese sottobraccio avviandosi alla porta.
Il locale, almeno a colazione una sorta di mensa azien­dale per i bancari delle diverse agenzie disseminate nella zona, era affol­lato come al solito.
Impiegarono qualche minuto nel disbrigo delle forma­lità connesse con l'ordinazione e sorseggiando un bianco secco si guardarono negli occhi.
- Allora? Che è successo? - Riprese lei.
- Ma niente - Si difese lui tentando di non tradirsi.
- Hai la faccia stravolta - continuò lei per nulla im­pressionata dalle sue rimostranze.
- Niente, ti dico. M'hanno fatto arrabbiare in ufficio. Una cosa senza importanza.
- In ufficio? - chiese lei sinceramente sorpresa - Ma cosa è suc­cesso?
- Niente - rispose spazientito e proseguì per sviare il discorso - Prima ho incontrato un tipo strambo, sotto le mura. Un tipo che non avevo mai visto, malridotto, sulla sessantina. Sembrava un barbone ma non lo era... Forse un pazzo, non so.
- E questo adesso che c'entra?
- Se ne stava per conto suo, poi improvvisamente m'ha guardato e ha cominciato a farneticare di tombe e che so io.
- Ti sei spaventato.
- Spaventato no, però m'ha messo addosso un'inquie­tudine...
- E come è finita?
- Se ne è andato. Così, come era venuto.
Il discorso si esaurì in quelle poche battute, poi, le pennette al salmone e le scaloppine al vino bianco fu­rono inframmezzate dalle considerazioni che Giorgia sciorinava su di una qualche questione di lavoro che la vedeva contrapporsi ad un paio di col­ leghe assegnate ad altri settori amministrativi dell'azienda.
Luca si intromise con qualche banale considerazione di circostan­za che mascherasse il totale disinteresse per quel che sembrava tanto affliggere la moglie.
In vero gli ritornavano alla mente le considerazioni che più vol­te gli aveva suscitato il modo di rapportarsi agli altri di Gior­gia.
In quegli anni di convivenza s'era fatta l'opinione che sua mo­glie celasse in sé un'inesauribile vena di litigio­sità che ali­mentava - a onor del vero quasi sempre a ragione - i suoi rappor­ti interpersonali, evidentemente destinati prima o poi a dete­riorarsi. Sul lavoro, con gli amici, coi condomini del palazzo e con gli stessi ne­gozianti da cui avevano l'abitudine di rifornir­si, pareva che la consorte non attendesse che l'occasione per un bellicoso mostrar di muscoli.
Più volte s'era trovato coinvolto pei capelli in penose situazio­ni e in sfibranti schermaglie, forzando la sua natura conciliante se non schiva.
Sull'argomento s'era fatto anche una sua idea "antropologica" che assegnava di gran lunga all'altro sesso il primato della litigio­sità. Se l'aggressività ed il confronto fisico erano un fattore essenzialmente ma­schile era ovvio, si diceva, che l'uomo avesse svilup­pato, proprio per la sua sopravvivenza, una buona dose di accondiscendenza. Se di fronte ad ogni torto o atto supposto tale gli uomini, nelle teorie delle gene­razioni, non avessero mitigato in una qualche misura la loro capacità di reazione, vista l'orri­da sequela di vio­lenze ch'era la loro storia, non sarebbero so­pravvissuti come specie animale.
Le donne, al contrario, oggetti e non soggetti di vio­lenza, non avevano avuto questa necessità e, femmine degli uomini, possede­vano una litigiosità libera da ogni inibizione.
Con un simile viatico giustificativo s'era da sempre imposto an­che nei confronti delle angolosità della moglie un atteggiamento conciliante ed una cura ri­volta a non alimentare con atti e con parole imprudenti la reattività di Giorgia.
Quel che invece quel giorno gli pesava era tutt'altra cosa.
Non aveva mai posseduto una concezione romantica della coppia e scindeva con molta tranquillità l'amore - quello si letterario e romantico! - dall'architettura d'una vita in comune. Certo, aveva amato - o così riteneva - Giorgia. Certo, l'amava ancora, benché la passione fosse scemata fatalmente nella familiarità. Certo Lu­crezia aveva cementato qualcosa di realmente inscin­dibile tra lo­ro, ma l'eco dell'estasi iniziale, l'affiata­mento sessuale e una sequela di risvegli coincidenti non appagavano il suo bisogno di complicità.
Aveva amato e avrebbe ancora desiderato vibrare in una dolorosa estasi amorosa, ma il suo innato bisogno di progettualità esigeva nel rapporto con la sua com­pagna ben altra intimità!
Se, curiosamente, sentiva di poter vivere una passione amorosa per una miriade di donne, quasi l'innamora­mento fosse per l'idea stessa della donna, egli avver­tiva un'intransigente monogamia per la sua vita di coppia.
Ciò che il suo spirito esigeva era una complicità asso­luta, una condivisione di obiettivi e di speranze, di dolori e disillusio­ni, una simbiosi nella sostanza totale: la concreta materializza­zione dell'anima gemella. Egli viveva ogni discostamento da que­sta idealizzazione come una sorta di tradimento che generava un dia­framma di incomunicabilità.
Se razionalmente comprendeva l'insostenibilità di tutto ciò, non poteva però sottrarsi dall'avvertire un sottile e sordo risenti­mento che lo portava, in un circolo vi­zioso, ad escludere dal proprio mondo interiore la compagna.
Anni di piccole e successive sedimentazioni avevano fatalmente ispessito il diaframma che lo divideva da Giorgia e in quel mo­mento più che mai avvertì un'in­soddisfazione per il loro rappor­to.
Avvertì l'impossibililà di condividere con Giorgia la mediocrità della sua frustrazione, l'impossibilità di de­nudarsi di fronte a lei, la condanna d'una recitazione.
Accusò se stesso di non poterle piangere sulle ginoc­chia e si do­mandò che senso avesse avuto cercare quell'incontro inconcluden­te.
Lo assalì una smania di uscire dal locale.
Con un'alzata delle ciglia e un breve gesto della mano tentò di richiamare l'attenzione del cameriere.
- Vai adesso a prendere Lucrezia? - chiese Giorgia
- Si
- Hai da fare oggi pomeriggio?
- Perché?
- Farò tardi a lavoro.
Aveva voglia di stare da solo.
- Ho un appuntamento con Andrea.
- Porta Lucrezia da mia madre. Le telefono adesso dall'ufficio.
- Va bene.
Giorgia s'accese una sigaretta.
Finalmente un cameriere arrivò col conto. Luca pagò e uscirono all'aperto.
L'accompagnò fino alla porta della sede della società e lì si sa­lutarono un po' più estranei di quando s'erano incontrati.


CAPITOLO IV

Ci sono, Nàstenka, se voi non lo sapete, ci sono a Pietroburgo certi angoletti piuttosto strani. In quegli angoletti pare che non si affacci il mede­simo sole che illumina tutti gli altri abi­tanti di Pietroburgo ma che in essi getti lo sguardo un sole nuo­vo, diverso, come fatto appositamente per quei cantucci, un sole che illumina tutto di una luce particolare. In quegli angoletti, mia cara Nàstenka, si agita un'altra vita, del tutto dissimile da quella che freme accanto a noi e quale po­trebbe forse esistere in un qualche sconosciuto reame fiabesco ma non qui da noi, in que­sti nostri seri, serissimi tempi.
Fëdor Dostoevskij



La scuola materna di Lucrezia si trovava all'altro capo della città, sulla collina. Immediatamente a ridosso del borgo antico, la vecchia costruzione d'inizio secolo si stagliava nel panorama con la tronfia imponenza d'un castellotto baronale.
Concepita in un'epoca in cui lo "status" veniva con­cimato nel "tempio del sapere", affetta da gigantismo ed arroccata in pro­grammatica esclusione del contado, le sue spesse mura e le alte finestre arcuate a semicer­chio nella parte alta, non suscitavano certo l'idea d'un luogo in cui potessero sciamare frotte di bam­bini fe­lici.
Luca aveva fatto più di trent'anni prima le scuole ele­mentari, ma era ancora vivo in lui il ricordo del timore riverenziale che i cupi corridoi e i lontani soffitti gli suscitavano.
Dopo un ventennio di decentramento in una pletora di plessi, la contrazione della natalità ed il dissestato bi­lancio comunale a­vevano portato alla progressiva ri­duzione delle possibilità di scelta e quando Luca e Giorgia si erano trovati nella necessità di iscrivere Lu­crezia la scelta del vecchio edificio era risul­tata pres­socché obbligata in conseguenza delle difficoltà logi­stiche che le altre soluzioni presentavano.
Ciò nondimeno ogni qualvolta si trovava a varcare il pesante por­tone, Luca avvertiva, sordo, un senso di colpa per la permanenza della figlia in quei "piombi".
A onor del vero la bambina non dava segni che con­fermassero le apprensioni del padre e, ormai al se­condo anno di permanenza nel­la scuola, non sembrava nutrire alcun timore reverenziale per quel luogo.
Lucrezia era una bimbetta dal carattere deciso e piace­vole allo stesso tempo, sembrava possedere un'innata furbizia resa irresi­stibile da slanci di dolcezza infinita. Dotata d'una insospetta­bile proprietà di linguaggio e d'una febbrile fantasia, era un'instancabile ascoltatrice di favole e storie che poi dramma­tizzava per giorni e giorni finendo per coinvolgere l'intera fa­miglia chia­mata all'interpretazione dei diversi personaggi. Regi­sta inflessibile, d'una memoria che i genitori a volte fini­vano per giudicare mostruosa, mostrava la sua indifesa morbidezza nel­la richiesta di "pace" dopo il rimpro­vero o la punizione.
La trovò nell'aula, intenta ad ascoltare la fine d'una storia raccontata dalla maestra. Era lì, naturalmente in prima fila, se­duta su di un tappetino, i due ciuffetti inalberati sul capo di­ritto.
Attese la fine della storia, poi qualcuno dei compagni indicò a Lucrezia il padre.
Gli occhi le si illuminarono e sorridendo gli corse in braccio.
La strinse forte a sé in un tepore finalmente rilassante.
- Ciao dolcezza.
Lo baciò stringendolo al collo.
Poi, con quella tranquilla, assoluta fiducia che lui non ricorda­va d'aver ad altri mai concesso né chiesto e che ogni volta lo stordiva di tenerezza, gli si rilassò in braccio sorridendo.
- Cos'hai combinato, ranocchia?
- Mamma? - Chiese lei.
- E' al lavoro, lo sai.
Quasi gli parve che l'azzurro di quegli occhi - spugne intente a prosciugare l'immensità d'un mondo da sco­prire - si velassero d'apprensione.
Se la strinse impercettibilmente al petto in un desiderio protet­tivo.
La paternità era stata per lui una scoperta stordente.
Fino alla nascita di Lucrezia aveva mantenuto nei con­fronti dei bambini una sostanziale indifferenza, come se quegli esserini, in realtà così alieni, appartenessero ad un mondo contiguo ma di­stinto dal suo. Sopportava con cortese stoicità le intemperanze dei figli di amici evidentemente ottenebrati dalla continua fre­quenta­zione di quegli unni in miniatura, ma ad essi non aveva mai prestato un'attenzione se non insofferente.
Qualche volta s'era soffermato a considerare questo suo atteggia­mento riconoscendovi con una punta d'or­goglio un istinto di pro­tagonismo intellettuale che lo portava a cercare una perpetuazio­ne della propria esi­stenza che prescindesse dalle capacità di ri­produzione animale.
Altre volte s'era sorpreso a pensare d'avere più sempli­cemente paura d'accettare, con la perpetuazione gene­tica, la propria mor­te fisica: procreare, assicurarsi ge­nerazioni future, in una qualche misura decentrarsi dal quadro della propria esistenza, in un certo qual modo vivere in funzione di qualcuno che sarà quando non saremo, è condividere l'idea della nostra morte.
Questo s'era andato costruendo, e il suo contrario, ov­vero l'in­confessato pensiero che in fondo quel suo bi­sogno d'affermazione intellettuale non fosse in realtà che un surrogare un istinto a­nimale incapace d'un natu­rale appagamento.
In una siffatta confusione l'impellente desiderio di ma­ternità di Giorgia s'era prepotentemente imposto risol­vendo coi fatti la questione.
Non che Giorgia avesse esercitato chissà quali pres­sioni, ma lui, cedendo all'impalpabile marea, aveva la­sciato sgretolare le mura di quegli effimeri castelli.
Lucrezia gli era piombata nella vita con la luce dirom­pente d'una folgore, dissolvendo d'un colpo le moti­vazioni.
Benedicendo il sommovimento dei ruoli che avevano fino a poco tempo prima negato ai padri quelle inti­mità parentali, appannag­gio ed onere delle madri, aveva scoperto un senso nuovo e di pro­fonda necessità per la vita.
Se fino a ieri aveva potuto teorizzare o farneticare il bel ge­sto, l'uscita di scena, ora il semplice desiderio di protezione di Lucrezia gli faceva temere la propria morte.
E, finendo quasi inconsciamente per avvalorare una delle sue teo­rie, il suo ardore programmatico, il suo bisogno di realizzazione intellettuale se n'era andato retrocedendo, cedendo il passo alle esigenze della quotidianità.
In questo Luca viveva una contraddizione a tratti dolo­rosa, com­battuto com'era tra un'aspirazione "pubblica" e un bisogno "pri­vato", tra i propri sogni e una fami­glia i cui monili dorati gli cingevano i polsi.
Tutto ciò gli riemerse per l'ennesima volta col fastidio d'un se­condo mentre l'ombra d'un senso di colpa, frutto d'una mai abba­stanza rinnegata formazione cri­stiana, si calava sul suo viso.
Si rinfrancò in quel sorriso senza rimorsi.
Si sorprendeva spesso a pensare quanto diversa fosse e sarebbe stata l'infanzia di Lucrezia, così distante dalle interminabili partite giocate su strade da cui gli uomini non s'erano ancora autoespulsi con la loro imbecillità automobilistica e in una cam­pagna a ridosso delle case non ancora fagocitata dal cemento.
Provava un lieve, struggente dispiacere nel non poter condividere con lei quel patrimonio che si sfaldava come un ricordo altrui, ed apprensione per l'ignoto di quell'infanzia "multimediale" che in un caleidoscopio di percezioni immergeva la bambina in un uni­verso dalle costellazioni a lui sconosciute.
Conscio del tempo e della storia com'era, era consape­vole che quella sorta di immersione totale era quasi una necessità forma­tiva per una generazione destinata ai ritmi vertiginosi del doma­ni, ciò nonostante si chie­deva se Lucrezia sarebbe stata felice, se lo sarebbe po­tuta essere, se quell'insieme di brutalità e vio­lenza fi­sica e psicologica che sembrava accompagnare ineso­rabil­mente il venir meno del senso di comunità, non finisse per parto­rire degli intelligentissimi e disperati idioti.
Ebbe paura al pensiero del domani di Lucrezia e se la strinse nuovamente al petto.
La bambina, avvertendo qualcosa, lo guardò perplessa.
Cercando di rilassare i muscoli del viso le parlò.
- Ti porto da nonna Lucia. Sei contenta?
La bimba annuì tranquilla e dopo chiese:
- Mi metti la cassetta di Alice nel paese delle meravi­glie?
- Va bene - s'arrese senza combattere - Ma solo Alice, eh!?
- Quando viene mamma?
- Tra poco. Tu comunque fa la brava, non fare arrab­biare la non­na, mi raccomando.
- E tu dove vai?
- Papà ha da fare, ma torna presto.
- Giochiamo?
Quella semplice richiesta lo colpì come uno schiaffo.
Avrebbe voluto, avrebbe dovuto rispondere positiva­mente. Non ave­va in realtà nessun imprescindibile im­pegno e comunque Lucrezia precedeva di gran lunga buona parte delle sue priorità, ma ora non se la sen­tiva...
- Domani. Domani ti porto al parco giochi, eh?
La lasciò davanti al televisore della nonna avvertendo un insop­primibile senso di colpa.


CAPITOLO V

Permetti.
Che cosa vai mai arzigogolando? Sono tutte scioc­chezze queste. Sono venuto quassù per farti visita? Anche; ma soprattutto, in fondo, per rimettermi, se­guendo il consiglio del dottor Heide­kind. Bhè, ed ora è dimostrato che ne avevo molto più bisogno di quanto lui e noialtri potessimo sognarlo. Io non sono certo il primo che credeva di limitarsi a fare qui una visitina e che in­vece ha dovuto adattarsi ben altrimenti. Pensa, per esempio, al figlio di Tous les deux. Non so se sia ancora vivo, forse sono ve­nuti a prenderlo durante l'ora del pranzo. Il fatto di essere malato è certo per me una sorpresa, ho biso­gno ancora di adattar­mi all'idea di essere un pa­ziente, uno dei vostri, invece che un ospite come sono stato finora.
Giovanni Castorp



Quella con Andrea era un'amicizia remota.
Non tanto per il dato temporale, che comunque faceva risalire il loro incontro a una ventina d'anni prima, ma per quelle che si sarebbero potute considerare ere ormai passate.
Dal loro incontro barricadero al presente ironicamente intimisti­co, da increduli sopravvissuti, s'erano accom­pagnati tanto nei velleitari propositi quanto nella col­pevole accidia.
Andrea era un tipo alto e magro dalla folta e anacroni­sticamente lunga chioma precocemente spruzzata di grigio, dalla barba incol­ta e rada e dai mobilissimi oc­chi sprizzanti curiosità dietro le spesse lenti dalla mi­nuta montatura circolare.
Anch'egli suo malgrado impiegato pubblico presso l'anagrafe cit­tadina, non s'era mai sposato, asfissiando Luca e gli altri suoi amici con le storie dei suoi tor­mentatissimi amori di tanto in tanto - fortunatamente - ricambiati.
Musicomane più che musicofilo, si piccava di posse­dere la più fornita discografia cittadina di rock e blues senza disdegnare per questo jazz e classica.
Gli aprì la porta con stampata in viso la consueta espressione un po' stralunata.
- Oh, ciao.
- Ciao. Disturbo?
- Figurati! - e si volse precedendolo nel lungo corri­doio di quel bazar che solo un temerario avrebbe po­tuto definire casa.
Più testardo che capace, era un ostinato esploratore di mercatini e inaccoglienti depositi di scorridori d'aste giudiziarie dove, tra polverose cianfrusaglie e vestigia del dubbio gusto naziona­le, riusciva a intravvedere in­sospettabili tesori d'arredamento che, a costo di im­mani sforzi, lacerazioni e tributi all'altare del faidaté, finivano per far scarsa mostra di loro nel generale af­follamento della casa.
Come se ciò non bastasse, lo si sarebbe detto un sa­cerdote d'un qualche strano culto della memoria per la pletora di ninnoli, cu­riosità e stranezze che con la loro presenza testimoniavano ogni sua pur minima avven­tura, quasi tentasse di catturare il tempo serrandolo in quelle immaginifere ampolle.
I pantaloni di morbido velluto a coste, il gilet e le ma­niche della camicia immancabilmente arrotolate sotto il gomito, lo guidò fino al suo sancta sanctorum, a quel che definiva con un eufemismo "studio", una stanza dalle pareti interamente tappezza­te d'armadi e scaffali colmi di dischi rigorosamente ordinati e cata­logati e ove troneggiava, quale una sorta di taberna­colo, un impianto stereo di assoluta fedeltà.
- Che vuoi?
- Dammi un whisky - rispose sprofondando nella paf­futa poltrona verde che mal s'accoppiava con lo squa­drato divano beige.
- Capiti proprio a proposito. Voglio farti sentire qual­cosa.
Non lo avrebbe mai messo in dubbio!
Con la fluida rapidità e l'accorta abilità d'un barman alle prese con la mistura d'un raffinato cocktail, An­drea prelevò dallo scaffale che Luca sapeva essere de­stinato alle "novità", una co­pertina da cui estrasse il prezioso vinile che depose sul piatto.
Luca impiegò un certo tempo per riconoscere nelle in­consuete so­norità quel pezzo così stranamente fami­liare.
- Fantastico! - Commentò Andrea - Non avrei mai immaginato che Hey Joe potesse essere rivisitata in questa maniera.
- Hey Joe - Ripetè Luca quasi a disagio.
- Te la ricordi, eh?
Luca annuì.
- Imbrattata di umori sanguigni - continuò Andrea - strizzafega­to. Una locomotiva sui binari di un'acidità nervosa.
- Già - sintetizzò Luca - Hendrix e la sua chitarra.
- I nostri sogni - argomentò Andrea - Le note come ra­soiate... 'Fanculo Jimi, perché non ci sei più?
Il disagio di Luca andava aumentando.
- Poi l'altra sera - proseguì Andrea - piomba Willy De Ville come un falco con la sua versione di Hey Joe. Cristo! Niente sudore e lacrime ma questa gigionesca atmosfera messicaneggiante... Chiudi gli occhi e guarda: tequila e cupole assolate! Senti: niente as­soli lancinanti e liquidi di chitarra malata. Senti: trombe, vio­lini, chitarroni e maracas che riscaldano il cuore e la fantasia.
Luca lo guardò forzando un sorriso.
- Immagina - continuò Andrea - un locale fumoso e maleodorante lungo il border tra Tombstone e Agua­prieta... tra vecchi ubriaco­ni e qualche bruna cameriera dal seno sudato... Il rock è lì, vecchio rocker. E' lì!... Per restarci.
- Già - sussurrò Luca - Come un relitto bogardiano.
Si compiacque della sintesi cinematografica che co­glieva in pieno il suo pensiero.
Andrea lo guardò interdetto attraverso gli occhialini che imman­cabilmente gli scivolavano sul naso.
- Cos'è successo?
- Niente.
- Ed è questo il problema - concluse Andrea.
- E' bello - riprese Luca riferendosi al brano che maci­nava il suo ritmo - Geniale, divertente.
- Ma non ti va.
- ... Preferivo Hendrix.
- E i nostri diciotto anni.
- Questi - fece Luca riferendosi al disco - sono i nostri quaran­ta.
- Magari! - gli rimandò Andrea.
- Già, magari fossimo così...
- Su! Che allora non siamo stati neanche degli Hen­drix.
Si sorrisero sornioni.
Come gli anziani che ogni mattina sfogliano i muri cit­tadini nel­la conta dei caduti cogliendo i nomi sui ma­nifesti funebri, com­battuti tra il sollievo del sopravvis­suto e l'angoscia d'un im­placabile assedio, anch'essi erano soliti pettegolare delle sorti subite da quelli ch'erano stati la loro generazione.
Immuni da grandi tradimenti, storditi da veniali com­promessi, s'erano mantenuti sostanzialmente fedeli a loro stessi a diffe­renza d'una pletora di "saltafossi" - l'espressione era di An­drea, ovviamente - che sull'al­tare della ragionevolezza e col viatico dell'esperienza se n'erano rientrati nei ranghi delle "persone assen­nate", avevano deciso, insomma, d'essere divenuti grandi e di dover lasciare alle spalle i sogni e i giochi dell'a­dolescenza.
Loro no.
Loro - a quarantanni suonati - si chiedevano ancora cosa avrebbe­ro fatto da grandi.
Spalleggiandosi vicendevolmente avevano respinto riottosi le lu­singhe dell'omologazione collocandosi nella società "provvisoria­mente", senza "mettervi su casa", con la valigia, o meglio la bi­saccia pronta dietro la porta della camera d'albergo.
E quella camera era piena dei depliant di spiagge eso­tiche e giungle lussureggianti, di vertiginose metropoli e di fumose e taglienti notti. Era piena di puntigliosi itinerari e dettagliati piani di viaggio.
Ma dalla stanza, loro non erano mai usciti, se non sul pianerot­tolo a guardar giù la vertigine della tromba delle scale.
Come gatti assonnati avevano lasciato che il tepore del camino li impigrisse, avevano lasciato che i loro dubbi e le loro insicu­rezze si celassero nell'accidia cullando future risoluzioni.
Ed ora il peggiore dei dubbi, quello d'una propria so­pravvaluta­zione di doti solo immaginate, s'insinuava inespresso ispessendo il loro legame.
Scrivevano entrambi. Di musica Andrea, testi teatrali Luca.
Andrea, mediocre chitarrista, aveva una decina d'anni prima ten­tato di metter su un'associazione che organiz­zasse concerti di qualità che portassero in quell'asson­nata cittadina "chicche" di rock sommerso e di imma­ginifica musica celtica, ma il fallimenta­re ritorno eco­nomico dell'operazione lo aveva presto costretto a ri­nunciare ed ora si barcamenava in un tormentato rap­porto epi­stolare con riviste specializzate rigorosamente selezionate, che di tanto in tanto lo facevano affiorare agli onori della tipogra­fia.
Luca, una antica e travolgente passione per il teatro, dopo una dignitosa attività d'amatore - e non da dilet­tante, come punti­gliosamente precisava - s'era affidato alla scrittura, senza pe­raltro proporre per le stampe i suoi lavori che sottoponeva a continue revisioni.
Generalmente ritenuto competente, curava a titolo gra­tuito pre­sentazione e critica degli spettacoli sulla pa­gina della cultura della testata locale.
Un po' poco per entrambi e per le loro aspirazioni.
- A proposito - rammentò improvvisamente Andrea - Hai saputo di Gianfranco?
- Gianfranco chi?
- Gigli, quello che recitava con te.
Luca annuì.
- 'Sta sera è in TV.
- Ah! E su che canale.
- Rai Uno. E' in uno sceneggiato... Adesso non ricordo il titolo.
- Hai capito!
- Forse sbaglio, ma non mi sembra che fosse molto bravo.
- Era così giovane - fece Luca sollevando le spalle.
- E intanto c'è riuscito.
- Sono contento per lui - disse Luca, in fondo sincero, ma allo stesso tempo ferito suo malgrado alla bocca dello stomaco - E' una questione di scelte - proseguì - Voleva fare l'attore e c'è riuscito.
- Ma tu eri più bravo.
Sorrise.
- Io amo il teatro, non fare l'attore: è una cosa diversa. Vedi, se vuoi fare l'attore non puoi star mica lì a sce­gliere i lavori e le parti, devi cercarti lavoro. Ed è dura. E' dura vivere col teatro. E' un mestiere come un altro, anzi peggiore, chè la pa­gnotta non te l'assicura mai nessuno. Sai quante ne ha dovute passare Gianfranco! Speriamo che gli vada bene... Io no. Io... io non sarei mai disposto a fare una cosa che non mi piace, che non mi interessa... io... Il teatro è una cosa troppo seria per vi­verci.
Sorrisero, protetti da quel consueto velo di purezza.
Se ne andò coll'inespresso dubbio d'una consolazione solo all'ap­parenza motivata, che quel sottile malessere non fosse estraneo all'invidia e che le sue motivazioni non stessero a velare una colpevole irresolutezza.


II° INTERLUDIO

Aguzzi e digrignanti, i bianchi cavalieri lo ricacciarono nell'o­scuro ventre della sua casa.
Uggiosa e raspante la loro voce rimandava la famelica luce di quegli occhi neri ed egli ne avvertì netta l'im­placabile petulan­za.
Poi sentì la cosa che s'ergeva oltre il diaframma - con le mani e la schiena puntellò la parete di fango - trenta­tré cubiti ad o­scurare l'astro, occhi di sangue ed alito di fuoco, dall'acqua si levava nel corpo di serpente.
Tonante fece sentire la sua voce aspra e terribile. Re­clamò il suo nome.
Chioccia la sua voce invocava la dea, mentr'egli scivo­lava ser­randosi le orecchie.
E poi tutto si volse e ciò ch'era di sotto fu di sopra e ciò ch'era alla luce fu alla notte.
Volse i suoi passi al fitto bosco e la frescura alleviò l'ansima­re del suo petto, mentre il suono dell'acqua lo guidava.
Alla fonte intrecciava la folta chioma una fanciulla. Ed egli a lei si volse.
Turgidi i capezzoli, a lui sorrise distesa sui fiori di giacinto.
E prima ancora che lui con lei giacesse ella si mostrò pregna. Il ventre gonfio come volta celeste, i seni gra­vide mammelle alle porte del cielo.
E piovve pioggia di miele e la terra fu sommersa, piovve oltre la cima degli alberi più alti, piovve sulle alte montagne dell'o­riente, piovve su lui e ogni cosa fu sommersa.
A fatica sollevò la testa dalle acque e vide il volto della donna approssimarsi a lui.
Ora il vento gelido del nord prese a increspare l'im­menso mare e i capelli di lei principiarono a danzare. La danza sinuosa li rivelò per serpi e le serpi presero, radiali, a incamminarsi.
Ed ella sorrideva e la pelle vellutata si tirava, ed ella sorri­deva e il volto tirato raggrinziva, ed ella sorrideva e gli occhi si segnavano di rosso, ed ella sorrideva ed il sorriso dilatò ol­tre i confini della bocca.
Brani di carne e spruzzi di sangue si proiettarono a raggiera mentr'ella gli si offriva.
Fuggì annaspando nella fanghiglia putrida, fuggì senza voltarsi indietro, fuggì.
Cadde riverso su una riva di nebbia, cadde riverso e lì rimase ansante.
La montagna era alta ed austera, la montagna era alta e silente.
Fuggiva ancora alla voce della donna, fuggiva ancora ai suoni delle sue parole, fuggiva cieco per le rocce taglienti, fuggiva rapido ferendosi le mani.
E fu il tuono ad annunciare la folgore sotto la coltre impenetra­bile del cielo. E i terribili artigli del vento lo scotevano ti­randolo nel baratro mentr'egli ancor più forte si teneva.
Mentre una pioggia calda lo bagnava, saliva ancora, attratto dal mistero.
Vertiginosa gli apparve la porta.
Capace di quaranta gioghi affiancati, si levava a di­smisura sopra il monte.
Vertiginosa gli apparve, e chiusa.
Viva di bestie immonde e crudeli, ghignata di mostri osceni, vide il riflesso delle sue paure sbarrargli il passo.
Ed egli spinse ed egli la percosse ma essa non si mosse.
Solo il riverbero d'un suono basso e profondo, lamen­toso e triste lo ferì nel fondo del suo cranio, solo il bronzo lo ammonì terri­bile.
E d'improvviso si trovò possente, levata, ritta, la lama infuoca­ta nel suo pugno.
E vennero in picchiata grandi rapaci col volto della donna e con gli artigli crudeli gli staccarono a brani le carni.
Ed egli roteando la spada li falciava in volo ed essi, monchi, rinnovavano l'assalto.
Lacerato e ansante fu solo di nuovo con la soglia.
Presala a due mani levò sul capo l'arma e l'abbatté fu­rente.
Urla e lamenti ghiacci accompagnarono lo scuro fluire dalla feri­ta che ogni cosa sommerse.
Kaish si svegliò madido e ansante.
Scostò la pelle che gli era servita da giaciglio e incerto si rizzò.
Caracollò fino all'ingresso della casa ed incurante del freddo uscì nel buio della notte stellata.
Guardò ad oriente in cerca d'un barlume di speranza.
La notte era fonda. Le stelle inseguivano il gorgo ad occidente.


CAPITOLO VI

Dopo mezzanotte. Mai sentito tanto silenzio. La terra potrebbe essere disabitata ...
Qui termino questo nastro. Scatola ... tre, bo­bina ... cinque. Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora pos­sibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuo­co che sento in me ora. No, non li rivorrei indie­tro.
Krapp



Giunse a casa ch'erano passate da poco le quattro.
Ascoltò con sollievo il messaggio di Giorgia sulla se­greteria te­lefonica che l'avvisava d'un suo ritardo per una visita con Lu­crezia da una zia malata. Continuava a voler stare da solo.
Non che la casa fosse mai stata per lui una tana.
Al contrario, non era mai riuscito a dissipare quel velo di e­straneità, quel sottofondo di provvisorietà che aveva accompagna­to il suo dimorare fin dalla primis­sima infanzia.
Forse perché nel primo decennio della propria esi­stenza aveva do­vuto errare al seguito delle peregrina­zioni del padre, funziona­rio statale, era curiosamente privo del senso d'un luogo d'origi­ne, d'un qualcosa che identificasse come la propria casa, quella vera, non occasionale o accidentale. Conservava un ricordo con­fu­so, quasi un non-ricordo dei luoghi ove aveva abi­tato e solo a guizzi si facevano strada su, lungo lo stretto cunicolo della co­scienza, squarci dell'immagine ora d'un largo davanzale, ora d'u­na lacerazione della carta da parati. Curiosamente, anche quando le sue re­sidenze s'erano fatte più stabili e le età più prossime al presente, aveva continuato a non fissare nella mente il netto ricordo delle case appena abbandonate la cui immagine si rifran­geva al chiuder della porta. Solo l'austera e lugubre casa dei nonni, afflitta dalle ombre, aveva sedimentato nei suoi ricordi un frutto, non di familiarità ma d'inquietudine e paura, pegno di un'im­maginazione troppo acuta.
E forse a seguito di una tale mal-formazione s'era an­dato co­struendo quell'"attesa d'altro", quell'atmosfera da sala d'aspet­to per un ipotetico e sempre prossimo viaggio.
Viveva con la sindrome dell'accampato depredando gli spazi col suo tempo.
Anche dopo il matrimonio con Giorgia ed il trasferi­mento in un appartamento del padre di lei, la situa­zione non era migliorata e se non fantasticava più, al­meno ad alta voce, d'una fuga dalle catene della pro­vincia, in cuor suo vagheggiava quell'esplosione che d'un sol colpo gli rendesse ciò che a vent'anni aveva sognato cancellando all'istante anche la concretizza­zione, per così dire, topica, della sua mediocrità.
S'era chiuso alle spalle la porta d'ingresso evitando d'accendere la luce ed affidando alla memoria il suo cammino pei vicoli di quell'isolato.
La parabola di sordi tonfi della palla del figlio degli inquilini del piano di sopra e la roca iperbole d'un mo­tore a scoppio in­fransero la quiete tombale della casa, mentre le lame filtranti dai pertugi d'una serranda sug­gerivano le forme accucciate in sonnacchiosa attesa.
S'era tolto il giaccone lasciandolo cadere sul divano del salone e aveva raggiunto la poltrona del suo studio.
Sulla stanza, un rettangolo decisamente più lungo che largo, in­combevano le scaffalature stracolme dei suoi libri, unico suo reale possedimento.
Fin dalla primissima infanzia era stato pervaso da un'attrazione quasi morbosa per la carta stampata e, con una sorpresa oscillan­te tra il compiacimento e la preoccupazione, la madre non aveva perso occasione per parlare di quel figlio più attratto dai libri che dalle scanzonate corse dietro ad un pallone.
Instancabile fagocitatore, privo d'una guida, non s'era mai muta­to in raffinato buongustaio e, ragioniere per la solida quanto miope concretezza dei genitori che l'avevano scoraggiato dall'in­traprendere la lunga ed in­certa via del "classico", s'era ritro­vato il cruccio d'un'e­norme poltiglia di nozioni e concetti priva del collante per formarvi mattoni.
Questo era almeno ciò che temeva, costringendolo ad una inconfes­sata soggezione o, quantomeno, a palesare una modestia che gli calzava stretta come un paio di scarpe nuove.
Ma nondimeno egli provava una sincera gratitudine per quei libri che, come tanti sommessi pigmalioni, l'avevano introdotto ai se­gni ed ai segreti del suo uni­verso parallelo, sfera elastica di sogni ed ambizioni in cui plasmandosi plasmava, in cui accuccian­dosi so­gnava.
Sfiorò col polpastrello dell'indice il dorso ora morbido ed ora duro dei libri a lui prossimi, quasi alla ricerca d'un conforto fisico: quel confuso e disarmonico suc­cedersi di sensazioni tat­tili gli rimandava l'idea d'un qualcosa di vivo.
Pensò ai suoi libri come ad una comunità, pensò che la polvere e l'irrazionalità dei suoi incasellamenti fossero piscio e vita contro il candore funereo di tante librerie demandate all'arredo dei mattoni.
S'approvò mentalmente risoluto. Ma subito si chiese cosa valesse il suo orgoglio consolatorio e finalmente, accesa la nera lampada da tavolo, s'accucciò di fronte agli sportelli che aveva di fron­te.
L'armadietto era situato in basso all'estremità sinistra d'uno scaffale. Alto e largo meno d'un metro, era l'unico pertugio non "a giorno" e, per tale ragione, de­stinato ad archivio.
Aprì entrambe le ante e gli apparve il quadro che ben conosceva.
L'armadietto era dotato d'un piano intermedio. Nella zona sotto­stante, sul lato sinistro, una serie di cartelline marroni ed az­zurre in cartone pressato, frammiste ad altre in cartoncino di color mattone, erano ordinata­mente sovrapposte l'una all'altra nella solida testimo­nianza della metodica organizzazione di Gior­gia, cui era demandata la conservazione dei documenti e lo "sca­denzario" familiare. A destra delle cartelline, a conferma, anco­ra, della previdenza di Giorgia, v'erano una serie di fogli di carta per pacchi-dono ben ripiegati ed ordinati, rocche di nastro di diversi colori per quei futuri doni, una lunga e appuntita forbice, una chioc­ciola col nastro adesivo, una busta di carta contente fiocchetti e decorazioni autoadesive ed una scatoletta quadrata contente i festoni utilizzati, in verità, solo per i compleanni di Lucrezia.
Sul piano superiore, quello che una sorta di tacito ac­cordo aveva assegnato a Luca, la confusione regnava sovrana.
Carte, cartelline, buste rigonfie e basse scatole da ca­micia s'ingolfavano fino a premere sul legno superiore.
Conosceva quei mari, quasi disegnassero la mappa della sua co­scienza, ma come una sorta di pellegrino lasciò che le mani s'av­venturassero in una esplora­zione.
I fogli più ingialliti, quelli grandi, dalla carta ruvida e pol­verosa, quelli tante volte sfogliati ad uno ad uno davanti alla porta d'una scuola o agli incroci ghiacciati d'una strada ope­raia:
"In quanti modi si può dire basta? Je t'aime. I love you. Ti amo."
Sorrise e poi:
"Noi la vita non l'imparammo dai libri sacri di Marx e di Lenin, perché l'angoscia non è sovrastruttura."
Riordinò quei fogli e l'attenzione fu attratta da una sca­tola dalle dimensioni insolite, un paio di decimetri per lato con un'altezza di non più di due centimetri.
Era bianca e patinata.
L'estrasse facendo attenzione con l'altra mano a non provocare lo smottamento generale e poi l'aprì.
Conteneva ben ordinati i fogli spessi e satinati d'una preziosa carta da lettere d'un verde intenso di cui ri­cordò, vivido l'ac­quisto.
Sfogliò le pagine quasi fossero un mazzo di tarocchi.
Erano segnate dai caratteri d'una macchina da scrivere che lui riconobbe essere la vecchia e pesante "OLIVETTI" del padre. Quel­lo scartare verso l'alto della "erre" gli tornò in mente netto come la cura pro­fusa in quella "bella":
"Quando l'universo era il grigio e incontrastato regno della Leg­ge, i Sette Principi dell'Ordine lasciavano che il sorriso pater­no del loro pensiero regolasse la vita degli uomini.
I sette canuti volgevano lo sguardo dalla cima del monte al mondo degli umani e, benigni, apprezzavano assentendo col capo, i tita­nici sforzi che gli uomini compivano per sostenere l'implacabile ritmo che il si­gnore del Tempo scandiva con l'enorme grancassa.
- Ciò è bene - dicevano e, compiaciuti, lasciavano ca­lare sul mondo i doni della loro cornucopia stracolma dell'impalpabile polvere che pian piano, ingrigendo l'anima e i corpi, rendeva la pace dell'ordine e la sere­nità del silenzio.
Per incommensurabili eoni nulla venne a turbare il Regno della Legge.
Ma venne l'era in cui il Signore della Luce, spossato dalla stan­chezza, reclinando il capo s'addormentò.
D'improvviso la luce svanì e l'universo, che mai aveva conosciuto le tenebre, fu scosso dagli artigli del ter­rore.
L'Estraneità, immane bestia, si levò dagli abissi trasci­nando con sé le orride e oscene legioni del Caos: anime deformi da sempre nascoste nel fondo delle ca­verne e di tutti i luoghi dove neanche il più flebile ri­verbero della luce era mai giunto.
E il Caos fu nel mondo.
I Principi della Legge s'affrettarono a risvegliare il Si­gnore della Luce che, inorridito, levato al cielo il suo Sigillo, dis­sipò le tenebre.
Ma ormai era troppo tardi, il popolo del Caos fuggì a nascondersi nei propri oscuri rifugi con scolpita nel cuore la promessa di riassaporare ancora quell'ine­briante sapore della libertà.
E fu così. Ed è così."
Un lampo. Il segno della biro sul cartoncino della MIDI s.n.c., fabbricante di infissi in alluminio:
"Le mie parole, scarni proiettili abbaiati alla luna, in­nalzeran­no sbuffi d'asfalto al tempo del valzer."
Gli capitarono tra le mani dei fogli di carta velina dili­gente­mente spillati sul bordo superiore sinistro.
I caratteri minuti d'una macchina da scrivere che lui non ricor­dava si susseguivano fitti e compatti:
" Alla Cooperativa dei gruppi
e operatori culturali
Queste poche note si rendono necessarie per definire la mia posi­zione specie ora, dopo che il mio atteggia­mento rende plausibile qualsiasi interpretazione.
Fermamente convinto che siano i mezzi a prefigurare il fine e non questo a giustificare i primi, avevo già avvertito, nel più o me­no recente passato, un notevole disagio nei confronti degli at­teggiamenti e delle posi­zioni espresse dalla Cooperativa e la proposta della "Consulta", approvata all'unanimità dai membri pre­senti, ha avuto per me il potere di ricomporre i mattoni di una costruzione che ormai da tempo si andava edi­ficando.
Mi spiego: le motivazioni (almeno quelle espresse!) che avevano portato alla costituzione di una sorta di aggregazione degli ope­ratori culturali nel Coordina­mento e successivamente, con un'op­portuna "decantazione delle scorie", nella cooperativa, erano mo­tivazioni che si legavano ad una visione dell'attività culturale caratterizzata dall'estraneità e dal confronto-scontro con l'i­stituzione. Il richiedere strutture autoge­stite (i centri) e non soldi per inutili attività, il rifiutare all'istituzione l'auto­rità di esprimere giudizi di merito e conseguenti discriminazio­ni, erano elementi distintivi e costitutivi dell'aggregazione.
Ma il potere politico e l'istituzione non sono soliti muoversi in maniera realmente incoerente ed episo­dica. La legge regionale a­veva ed ha un preciso fine facilmente individuabile se si osserva che gli estensori della legge stessa sono i degni figli del MIN­CULPROP e i suoi applicatori in sede locale sono i degni eredi del MINCULPOP. Il disegno è palese, ad una feroce normalizzazione politica ed esistenziale, caratterizzata dalla criminalizzazione del dissenso e dall'emarginazione del diverso, si accompagna la nor­malizzazione culturale che passa per il riassorbimento delle culture e delle attività "altre" mediante il filtro dei canali istituzionali.
E quanto sia vincente e capillare la manovra lo si os­serva nel nostro ambito: gli operatori, quegli stessi operatori che avevano trovato la loro "poetica" in con­trapposizione all'istituzione og­gi chiedono all'istitu­zione stessa legittimazione.
Passi questo per i fautori dei teatri stabili, ma dove fi­niscano i discorsi sulle minoranze non è dato saperlo.
Certo che l'ingloriosa fine da cani da salotto col collare in­gioiellato non dovrebbe adattarsi ai vecchi lupi del­l'inattua­lità..."
Passò oltre.
Ora era il retro d'un foglio intestato dell'ufficio a con­tenere la sua grafia puntigliosa e tondeggiante, quasi femminea:
"E già, un cubo è sempre un cubo. Non c'è niente da fare, comun­que lo si metta resta sempre un cubo.
E cosa c'è di più cubo d'un cubo? Solo un cubo.
Mettilo in cubetti, mettilo in zollette, in scatoline, sca­tolet­te, scatole, scatoloni, casse... il cubo sarà sempre lì, a fare il cubo.
Un cubo, sei basi che comunque le metti sono ben piantate.
Cosa c'è di più stabile di un cubo? Solo un cubo.
Datemi una leva e solleverò il mondo!
Quello sì ... rotola! Ma mettiti a sollevare un cubo. Si, la le­va... dico, la leva dove la metti?
Certo che ognuno dovrebbe avere il suo cubo... Senza cubo che co­sa si può fare? Al massimo quadrare il cerchio. Bella consolazio­ne!
Poi va a finire che ci si vergogna di ammettere di non avere il cubo e allora si inventano le scuse del tipo:
- Ma che dici! Certo che ho il cubo. Questo è un cer­chio quadrato da passeggio. Il cubo lo lascio a casa... che vuoi, coi tempi che corrono!"
Scosse la testa. Ora navigava tra la lucida carta delle fotoco­pie:
"Apocalittico tuono-amaranto (che sia finita l'illu­sione?).
Le note panciute della tromba delle scale intonano un requiem di­vertito mentre l'occhio plafoniera ammicca.
Attenzione signori, è pericoloso sorridere di me: potrei calmo, placidamente calmo, sferrare calci ai denti po­melli sganasciati delle porte, potrei sgozzare il silenzio alle lame-campanello di ogni casa. Potrei rizzarmi, laido, ad imbiancare in corrimano che nella corsa la bimba ingenua afferrerà... ah, se delle mani fa­cesse lecca-lecca!..." saltò: "Cosa importa se di cera ho pa­stic­ciato le penne? Lascia almeno che io fonda le mie irriverenti a­lucce tra gli infuocati raggi del tuo ventre."
Ghignando si spostò sul lato destro del ripiano dove buona parte degli scritti se ne stavano protetti in cu­stodie di plastica tra­sparente. Erano i suoi lavori tea­trali diligentemente scritti, riscritti e conservati nelle innumerevoli versioni.
Tralasciò le custodie più panciute, quelle in cui la gravidanza s'approssimava al parto e dal fondo estrasse il pacco dei suoi amori fugaci.
Quella custodia trasparente era come un preservativo contenente le sue masturbazioni e i suoi coiti interrotti. Foglio dopo fo­glio lancinanti guizzi di piacere s'erano arrestati in un lampo fauto:
Miro - Un'ora tarda per un luogo tanto insolito, Leto.
Leto - Cosa volete dire, padre?
Miro . Credevo foste solito santificare la vigilia del­l'alba nel­le bettole lungo il fiume.
Leto - (con un inchino) Vogliate avere la bontà di non menzionare tra i vostri ricordi la perversione di questa notte.
Miro - Che avviene? Quale sottana v'ha immalinco­nito?
Leto - Siete dunque un così profondo conoscitore d'uomini, Miro, che nulla vi può essere taciuto?
Miro - Ben misera prova m'offre la vostra reputazione, Leto.
Leto - Voi piuttosto, padre, l'ora delle devozioni mat­tutine è lontana.
Miro - Altro dovere e altro magistero m'hanno impo­sto la peniten­za di questa notte insonne.
Leto - Che accade dunque? Il duca...
Miro - Abbiate la bontà di risparmiarmi un rifiuto: il fatto non m'appartiene."
E, quasi a scriver fosse un'altra mano:
"Sala d'aspetto. A sinistra un tavolo con dietro, seduto, un vec­chio decrepito e rinsecchito: Pietro. Barba e ca­pelli lunghi e bianchissimi, indossa una lunga tunica bianca con le ampie mani­che svolazzanti. E' intento alla lettura di un quotidiano: "L'e­ternità".
Si sente bussare alla porta. Pietro non dà segni d'avve­dersene. Bussano di nuovo... ancora... La porta viene socchiusa e fa capo­lino Francesco Grandi, un uomo sulla cinquantina, anonimo:
Grandi - E' permesso?
Pietro - No!
Grandi - Ma...
Pietro - Ma, ma, ma cosa!? Cosa vuole saperne lei! Eh?... No, di­ca, dica.
Grandi - Veramente...
Pietro - Veramente cosa? Neanche arriviamo e già abbiamo le no­stre verità, eh?!
Grandi - Ma io...
Pietro - Ma lei dovrebbe fidarsi di chi ha più espe­rienza di lei.
Grandi - Io non volevo...
Pietro - Volere!! Ma dove crede di essere, eh?! Si metta bene in testa che qui l'erba voglio...
Grandi - Cresce solo nel giardino del re.
Pietro - Non cresce per niente!!
Grandi - Mi scusi.
Pietro - E perché dovrei? Ricominciamo con le pre­tese!"
Non proseguì, lo sguardo perduto nell'oscura caverna dell'arma­dietto.
Quel confuso ribollire, ingenuo, folle, saccente e di­vertito, scritto all'apparenza da cento mani diverse, era imbastito da un filo sottile, da una gioia disperata e da una sublime angoscia.
Ebbe paura di non riconoscervisi più, d'essere la ce­nere di quel camino.
Con calma, quasi temesse il tremore delle mani, ripose sul ripia­no le sue carte e chiuse gli sportelli quasi fos­sero lapide al sepolcro.
Prese il giaccone e se ne uscì, di nuovo in fuga.


CAPITOLO VII

Intorno a te ci sarà il vuoto infinito, tutti i morti di tutti i tempi non basterebbero, risuscitando, a colmarlo, e sarai come un sassolino in mezzo alla steppa ... Si, un giorno saprai cosa vuol dire, sarai come me, solo che tu non avrai nes­suno, perché tu non avrai avuto pietà di nes­suno e non ci sarà più nessuno di cui a­ver pietà.
Clov



Abitava quasi all'estrema periferia della città, in una di quelle palazzine d'edilizia convenzionata ornate d'un'il­lusione di verde all'interno della recinzione. Quella ri­stretta striscia, scampata in ossequio alle norme urba­nistiche all'asfaltazione, accompagna­va il perimetro della proprietà erigendosi, contro il basso mu­retto in finta pietra viva sormontato da un'alta inferriata, a fitta e impenetrabile siepe che escludeva lo sguardo degli estra­nei.
Percorrendo in auto la via, che come tante altre paral­lele era fiancheggiata da teorie di consimili coopera­tive, con un vago senso di apprensione, paragonò le basse e cieche mura del magreb ai fortilizi condomi­niali.
Le spesse mura, a protezione dal caldo e dalla sabbia del deser­to, le mura erte sulla frescura e l'acqua e la sensualità.
Sorrise amaramente all'incongrua nozione del benes­sere, che scam­biando il numero di cose per ricchezza, cedeva i cortili al puzzo ed al rumore delle auto e la socialità del vicolo e della piazza alle rissose riunioni condominiali.
Il sole, lentamente, scivolava all'orizzonte.
Si mosse nuovamente verso il centro.
Senza un preciso scopo s'orientò verso la sella che, volgendo a mezzogiorno, congiungeva il borgo alla collina del monastero.
Questa, come ovviamente il nome suggeriva, era do­minata da uno squadrato e anonimo convento bene­dettino mai assurto nel passato a particolari onori e un tempo feudatario dell'intera collina e dei boschi e dei terreni che dai suoi piedi si estendevano nella vallata verso il mare.
A ridosso del convento un tempo s'appoggiavano le pietre, i fan­ghi e i legni di enfiteuti e mezzadri, ma ora in luogo della fru­gale miseria contadina erano i rovi e l'edera a popolare i rude­ri.
A partire dalla conclusione della seconda guerra mondiale, anche profittando di qualche danno effetti­vamente arrecato all'abitato da qualche sporadico bombardamento, gli abitanti del borgo e qualche fore­stiero arrivato per lavoro, s'erano dati ad un ende­mico assalto della proprietà ecclesiale trasportando lungo il pendolo della sella le più eterogenee materie edili.
Il risultato di questo lavorio era stata l'eruzione sul manto roccioso e verde della collina di ville, villini e villette dei più disparati colori e delle meno avvedute architetture, che come un'epidemia s'andavano esten­dendo a macchia di leopardo verso valle, accompa­gnate dalla ramificazione di tortuose e varicose stra­delle di collegamento.
Luca aveva potuto seguire quasi per intero quella tra­sformazione dato che, giunto con la famiglia oltre trent'anni prima, aveva abitato nel primo periodo, in affitto, proprio in uno dei primi villini bifamiliari co­struiti al di là della sella di fronte al borgo.
Quel che coscientemente era stato un vagare a caso, lentamente si trasformò nel lento dipanare del filo della memoria.
Ricordava chiaramente i rovi e la boscaglia che appena oltre il ciglio della strada si precipitavano giù per il pendio scosceso, percorso dai sentieri battuti dai piedi delle bande e le capanne, rifugi sacri di assi e di la­miera, protetti dalle radici d'un al­bero più grande e dalle fronde mimetiche per gli occhi dei nemi­ci. Ri­cordava le scorrerie sul pendio avverso della sella a ven­dicare la distruzione o l'intrusione o a propiziare le altrui fu­ture ritorsioni. Ricordava le fitte sassaiole e i graffi misti a polvere nell'ansimare della corsa.
Ricordava il selciato che tra due fila d'olmi se ne saliva imper­cettibile sino alla porta del monastero e le teme­rarie corse su quell'unico falsopiano dietro la palla di plastica acquistata nel negozio di alimentari e diversi di Nazzareno, il bazar delle mi­nute utilità e dei sem­plici piaceri.
Ricordava le passeggiate domenicali al passo indispo­nente e pla­cido dei suoi, giù per la sella a risalire il borgo fino alla piazza, ed i coni gelati dei caldi pome­riggi estivi.
Ora quel ch'era stata la zona d'ombra tra l'urbano e la campagna, tra il borgo e la città s'era dissolta irrime­diabilmente all'a­vanzare delle case, delle strade, dei cassonetti dei rifiuti, delle auto popolari e delle an­tenne TV.
Non che si sentisse un nostalgico dei bei tempi andati. Ferme, erano presenti nella sua memoria le ristrettezze quotidiane che anche una famiglia piccolo borghese come la sua aveva dovuto so­stenere. Ma quella tra­sformazione gli procurava un lancinante senso di per­dita, come se il prezzo che s'era dovuto pagare fosse stato in una qualche misura troppo alto, come se ciò che s'era perso avesse dissolto con sé qualcosa d'es­senziale.
Ma subito gli risaliva il dubbio che questa sensazione traesse le sue motivazioni dal suo punto di vista perso­nale, da un suo pie­gare le cose sotto il peso dei mat­toni della sua formazione. Si chiese con una solidarietà nuova quale sgomento dovesse perva­dere l'animo del padre.
S'avvertì naufrago in terra straniera, possessore d'un codice di segni destinato a svanire nel solco d'una ruga sul volto raggrin­zito dello storia.
Riprese a correre con l'auto verso il borgo lungo la strada che con lievi saliscendi costeggiava l'abitato fino al "baretto".
La costruzione - poco più d'un chiosco -, che dava il nome a quella zona, era al centro d'un ampio viale ombrato da alti e ri­gogliosi tigli che sul lato esterno, dopo un ampio marciapiede, s'affacciava sulla vista panoramica della città bassa.
Vagamente, ricordava la sistemazione della zona nel corso della sua prima adolescenza. Quel ch'era stata una strada in cui la banchina della carreggiata s'ap­poggiava all'antico muretto in pietra posto ad argine d'un mediocre salto, a causa d'uno smotta­mento, aveva visto l'erezione d'un possente muro di contenimento che per calcolo o astruseria ingegneristica si prolun­gava in una serie d'archi e pilastri con l'effetto, al li­vello della strada, di allargarne la sede di diversi metri.
Nei primissimi anni, per quell'inerzia delle consuetu­dini che ac­compagna le comunità umane, il luogo era rimasto estraneo alle usuali rotte dei concittadini ed il baretto che v'era stato edi­ficato trascinava una magra vita in compagnia di qualche pensio­nato patito di tres­sette.
Quando i primi "capelloni" di provincia si schiusero a suscitare scandalo ed allarme, certo a voler sottoli­neare la loro estra­neità, elessero a sede il luogo che, essendo l'altro fuoco dell'ellisse, assurse ai fasti dell'at­tualità.
Da allora ogni sorta di ribellione o estraneità genera­zionale s'era susseguita in quel luogo sedimentando strati fra loro im­permeabili di conformisti dell'anticon­formismo. Il ricambio era quasi inavvertibile, ché i nuovi non avevano bisogno di farsi largo tra ranghi d'improvviso radi, come se quelli ch'erano stati i "maledetti" se ne risalissero di comune accordo pei vi­coli del­la città vecchia come salmoni su per il ruscello a germinare e poi morire.
Luca era appartenuto alla generazione dell'impegno, degli eskimo e dei panni comprati al mercato ameri­cano. Poi s'era fatto attore della dissoluzione, dello smantellamento goliardico di quelli ch'erano stati i capisaldi e quindi se n'era risalito fiutando la corrente, inavvertitamente, senza una scelta cosciente.
Ora il luogo aveva la nomea - e Luca non dubitava che fosse fon­data - d'essere la sede dello spaccio ed il ri­trovo di quei ra­gazzi che, in nome d'un male interpre­tato edonismo, sacrificavano se stessi ai miti del mo­mento.
Non era solito tornare in quel luogo, non per delibe­rato proposi­to, ma per istintiva ripulsa.
Fermò la macchina e scese fendendo con fatica la cor­rente dell'e­straneità.
Giunse al baretto e più sulla spinta che per reale desi­derio or­dinò un caffè.
- Luca!
Si volse, sorpreso dell'incontro.
- Oh, Armando!
Il tono di gioviale sorpresa fu avvilito dall'assenza di gesti cordiali.
Armando era una vecchia amicizia del baretto. Anzi di più. Era della ristretta cerchia con cui aveva condiviso il disimpegno le­gando lo sberleffo allo spinello ed il poetare al rosso pastoso del barolo.
Ma Armando non aveva risalito la corrente, non aveva avvertito il richiamo del ruscello e s'era fermato al­l'ombra di quei tigli.
I capelli unti e fastidiosamente lunghi con quella scriminatura, l'occhio irridente e vacuo, le spalle curve, puzzava d'alcool.
- Come va? - Tentò Armando.
- Insomma...
- Che fai?
Luca alzò le spalle:
- Lavoro. - e lo guardò fisso negli occhi con le labbra serrate in una specie di sorriso. Lo detestava. Dete­stava quella vita al­la deriva. Non provava alcuna com­passione o senso di colpa di fronte a quello ch'era stato quasi un fratello.
- Bhé, ci vediamo - fece Armando cancellando il di­sagio nella stretta del bicchiere e volgendosi ai ven­tenni con cui s'accompa­gnava.
Lo guardò per un attimo e comprese che non gli per­donava, non gli avrebbe perdonato d'essere la manife­sta prova delle loro antiche velleità. Di smitizzare il sogno nel delirio. D'insinuare il dub­bio ch'essi non avessero mai avuto alcuna reale possibilità.
- Quant'è? - Chiese al barista
Alla risposta dell'uomo pagò e uscì dal locale.
La sera s'andava facendo umida, il vento, tagliando la vallata, aggrediva il borgo da quel lato.
Sollevò il bavero del giaccone e lentamente s'incam­minò a piedi per uno dei vicoli che risaliva all'interno dell'abitato antico.
Era esausto.
D'un tratto comprese per intero quello che avvertiva.
Al di là dell'aneddotica anagrafica era vecchio.


CAPITOLO VIII

Una tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agi­tare delle immagini, delle im­magini sopra di lei, delle immagini candide so­pra di lei pensierosa negli occhi giovani ...
Maia ... tesseva un velo, ove si vedevano ondeg­giare le immagini di tutti gli esseri, ed egli muto si arrestò dinanzi ...
Campana - Schuré



Vagò senza meta ora per le salite che rimontavano ra­diali il col­le ed ora per le viuzze che in cerchi concen­trici ne scolpivano le quote.
Lentamente l'umidità serale calava il suo impalpabile velo di fo­schia che riverberava al giallo delle luci delle lanterne in fer­ro battuto fissate in alto ai muri degli in­croci.
Quasi subito s'era trovato solo e, a mano a mano che s'andava al­lontanando dal baretto e dal selciato che saliva su, alla catte­drale, i muri delle case s'andavano vuotando dei segni di una presenza umana.
I portoni, ora nobili ed arcuati, dalla pietra di volta sfregiata da un indistinguibile stemma patrizio, ora più solidi, d'una pra­ticità mercantile nella linearità d'un ar­chitrave appena velato dalla ruvida lima del tempo, ora modesti nella loro cornice di calcina smozzicata, sem­bravano posti a celare in pietoso ufficio le ingiurie del tempo.
Del resto Luca era consapevole dello spostamento del baricentro cittadino verso la parte bassa e del progres­sivo spopolamento delle aree che, più distanti dai luo­ghi che conservavano un ruolo nel nuovo assetto ur­banistico, quale la cattedrale e l'antico pa­lazzo del go­verno, avevano subito prima la scomparsa delle atti­vità commerciali ed artigiane, quindi la fuga degli abitanti at­tivi ed ora il lento stillicidio della dipartita degli an­ziani.
Non avrebbe saputo dire dove si trovasse.
Era in una piazzetta che s'apriva sul lato della strada.
Chiusa ai lati dalle case, s'arrestava sul fondo in una sorta di bastione sormontato da case ubicate ad una quota superiore.
Ai piedi del bastione s'inerpicava, tagliandone di tra­verso la figura, una stradina protetta sul lato della piazza da una balau­stra a forma di lunghe e stilizzate anfore accostate.
S'avviò da quella parte.
La stradina si perdeva oltre l'arco d'un ballatoio illu­minato dalla lampadina d'una lanterna.
Risalì per il selciato fatto di bassi e lunghi gradini ros­sastri, al centro, e chiari, in pendenza, ai lati, per per­mettere l'anti­co transito dei carri.
Fece qualche decina di metri fino a trovarsi nell'oscu­rità pres­socché assoluta.
Considerò l'opportunità di tornare sui suoi passi chie­dendosi la ragione di quella sorta di esplorazione in cui inavvertitamente s'era avventurato.
Era comunque sorpreso e affascinato dalla scoperta di quella sera che gli consentiva per un momento di pen­sare ad altro, di rompere il cerchio dei pensieri che fin dal mattino lo stringevano da presso.
Decise con cautela di fare ancora qualche passo prima di ridi­scendere.
Fu dopo la curva che vide di lontano la luce.
Poco più d'un lucore, ma d'un caldo giallo, baluginava nella strada andando a morire nella fluorescenza della parete di fron­te.
S'avvicinò curioso.
Era una vetrina dalla classica intelaiatura all'inglese.
Il legno, nella parte bassa sobriamente istoriato da se­gni e ri­lievi geometrici, s'innalzava in un piacevole re­ticolato ad in­corniciare i vetri smerigliati sui bordi.
In bella mostra su un'etagère in legno scuro, accostata immedia­tamente dietro i vetri, si vedevano delle fragili ampolle di ve­tro soffiato, sottili ed eteree dei più di­versi e cangianti colo­ri, bottigliette molate dalle mille sfaccettature, piccoli scri­gni di fine ceramica minuzio­samente dipinti, terre cotte nelle più disparate forme d'animale ed un'infinità di originali se non strani me­daglioni, ora in legno ora in quel che si sarebbe detto argento.
Si chiese tra il sorpreso e il divertito chi potesse aver aperto un simile negozio di chincaglierie - già di per sé di dubbia ap­petibilità commerciale - in un angolo così sperduto della città.
In quel mentre un aperto sorriso lo sorprese da dietro i ninnoli.
Non s'era avveduto del proprietario e non poté esi­mersi dal provare un lieve imbarazzo.
Una mano l'invitò ad entrare.
Più che altro per solidarietà verso chi giudicava espo­sto ad una ben rara clientela, si decise ad entrare ab­bassando la maniglia cromata della porta.
- Belle, vero? - disse l'uomo facendo cenno alla ve­trina.
Molto - rispose Luca con cortesia mentre osservava lo strano ti­po.
Una selva di capelli candidi facevano da corona ad un viso gras­sottello e gioviale su cui due folti baffi dise­gnavano un eterno sorriso. Due occhi mobilissimi lo scrutavano da sopra la montatu­ra d'osso d'un paio d'occhialini da lettura. Piccolo e dalle mani tozze, ve­stiva pantaloni e gilet dello stesso tessuto di velluto a coste che, sbottonato, rivelava due larghi straccali sulla mor­bida camicia di flanella a quadri.
- Certo, - riprese Luca - mi sono meravigliato di tro­vare un ne­gozio come il vostro da queste parti.
- E perché?
- Bhè, è un po' isolato.
- Questo è vero.
- Non dovete puntare su clienti occasionali.
- Effettivamente - convenne l'uomo - La mia non è una clientela occasionale.
- Comunque è strano. Sono più di trent'anni che abito in città ma non ricordo d'essere mai stato da queste parti. Credo d'essermi perso.
- L'acqua va al mare ed il fumo al monte - sentenziò il vecchio - Per questi vicoli non ci si perde. Ditemi, cosa desiderate?
- In realtà curiosavo - spiegò Luca - M'ha sorpreso la luce del vostro negozio nel vicolo buio e mi sono av­vicinato.
L'uomo annuì compito.
- Sono capitato qui per caso. - quasi protestò Luca.
- Non si arriva qui per caso. - Interloquì con un gar­bato sorriso l'altro.
Luca giudicò inutile discutere della cosa con l'uomo evidentemen­te un poco tocco e cambiò discorso:
- Comunque è molto bella la vostra oggettistica. Ven­dete al det­taglio o rifornite anche i negozi di bombo­niere?
L'uomo rise divertito.
- Ho detto qualcosa che non va?
- Perdonatemi - rispose l'uomo asciugandosi una la­crima col faz­zoletto che s'era levato dalla tasca dei pantaloni - Non è colpa vostra.
- Cos'ho detto di tanto buffo?
- Nulla, nulla! Vi assicuro - tentò di rassicurarlo l'uomo - Bom­boniere!
- Perché, cosa sono? - domandò interdetto Luca.
L'uomo non rispose, ma levato l'indice a domandar tempo, s'avvi­cino allo scaffale prelevando un'ampolla dalla forma allungata d'una goccia. S'avvicino a Luca e sollevato l'oggetto glielo mostrò in controluce.
Quel che ad un'osservazione distratta sarebbe parsa una leggera opalescenza dell'ampolla, che cangiava iridescente ai giochi ca­pricciosi della luce, si rivelò es­sere una sorta di vapore che s'agitava roteando prigio­niero del sottile vetro.
- Essenze! - sussurrò il vecchio strabuzzando gli occhi.
E con insospettata velocità ripose l'ampolla, prele­vando una bot­tiglia a palla con un lungo e stretto collo.
Sorridendo sollevò la bottiglia all'altezza del viso di Luca e, tenendola per le estremità tra l'indice e il pol­lice delle due mani, prese a farla oscillare lentamente.
Il liquido, d'un azzurro elettrico, che la riempiva per la metà, sembrava rispondere pigramente a quelle solleci­tazioni e solo da impossibili inclinazioni sem­brava cedere alla gravità in gibbose onde oleose che pigramente se ne scendevano per l'assurda angola­tura di quel piano.
Quindi prelevò per il gambo una bottiglina a calice, contenente un liquido d'un giallo paglierino, e sfio­rando con un dito dell'altra mano le molature della coppa provocò un inatteso ri­bollio del contenuto.
- Essenze?
- Si, essenze.
- Ma di che?
- Dipende - rispose il vecchio mordendosi il labbro in­feriore e roteando gli occhi come in cerca d'una rispo­sta - Ci sono i vapo­ri, i liquidi, le terre - e prese dalla mostra una scatolina di ceramica bianca in stile sette­cento finemente istoriata di scene silvestri che scoper­chiò sotto il naso di Luca mostrando una fi­nissima polvere verde smeraldo - I fumi - e indicò le terracotte in forme di animali.
- Ma a che servono? - Chiese Luca cercando di trarre il classico ragno dal buco.
L'uomo sollevò le spalle:
- Questo lo sa chi le acquista.
- Come! - esclamò Luca un po' esasperato - Lei non sa a cosa ser­vono le cose che vende?
- Si - Rispose candidamente il vecchio.
- Non capisco.
- Molti arrivano qui come lei, in cerca di qualcosa...
- Ma io... - tentò di protestare Luca.
Il vecchio lo zittì con un'espressione implorante e sol­levando il palmo della mano in un invito all'attesa.
- Non sempre sanno come o perché vi arrivano, ma presto o tardi entrano da quella porta e scelgono sicuri una delle mie essenze. Perché? Perché proprio quella tra le tante? - alzò di nuovo le spalle - E chi lo sa!
Luca s'era ormai convinto d'avere a che fare con un pazzo e tentò di tagliar corto:
- Costano molto le vostre essenze?
- In denaro intendete dire?
- Si.
- No. Sono ad offerta.
- Cioè?
- E' l'acquirente che decide il prezzo.
Luca non riuscì a reprimere un sorriso - Ma non te­mete che qual­cuno...
Anche l'uomo sorrise - Il prezzo è sempre congruo.
Luca si strinse mentalmente nelle spalle e si guardò in­torno in cerca d'un possibile regalo per Giorgia.
- Posso scegliere un'essenza?
L'uomo assunse un'espressione contrita - Mi spiace, ma non siete ancora nella condizione.
- Bhè, questo è affar mio.
- Mi dia retta. Ascolti il vecchio Torquato. Si faccia un giretto per la zona, beva un bicchiere alla mia salute all'osteria della Luna Nuova su nella piazzetta e poi decida. Tanto, io sono aperto tutta la notte.
Luca era un po' irritato dalle stranezze e dall'irraziona­lità del vecchio ma ritenne di non contraddirlo:
- Dove sarebbe questa piazzetta?
- Poco più avanti, proseguendo per il vicolo. Non può sbagliare. Dica all'oste, Edoro, che la mando io, Tor­quato.
Non riuscì a trattenere un sorriso sulla stranezza di quei nomi.
- Se ha fame, quello è il posto giusto. Si affidi a Edoro e me lo saprà ridire.
- Bhè, grazie...
- Di nulla. Io sono qui, a sua disposizione.
E il vecchio Torquato gli aprì la porta cedendogli con sussiego il passo.
Luca avrebbe volentieri riguadagnato la strada illumi­nata ma l'ingombrante cortesia del negoziante sulla porta gli impose l'alternativa.
- Dunque la piazzetta è di là?
- Si, poche decine di passi. Non può sbagliare.
- Di nuovo grazie e arrivederci.
- Arrivederci.
S'avviò con passo tranquillo nella direzione indeside­rata. Fatta una decina di metri si volse per cogliere l'ultimo gesto di salu­to di Torquato sempre implaca­bile sull'uscio del negozio.
Rassegnato s'avvio all'osteria della Luna Nuova.


III° INTERLUDIO

Tese l'orecchio ed il rumore si ripeté sordo contro le pareti cieche della casa.
Mentre senza fretta s'avviava all'uscio si chiese chi fosse a ri­chiamare la sua attenzione. Forse un vian­dante in cammino da ter­re lontane, ignaro e inconsa­pevole, forse un esule scacciato dal­le mura della sua città, forse.
Si fermò al limitare dell'ombra, severo, lasciando che il sole alto gli schiarisse tratti del viso e della sua pos­sente struttu­ra.
Un piccolo gregge di capre brucava la radura che, ampia, si per­deva all'orizzonte, dove le vette segna­vano il limite estremo dell'altipiano.
Discosto rispetto all'uscio, sul ciglio del terrazzo che in quel punto segnava una piccola depressione del ter­reno, accovacciato all'ombra di un pruno, un giovane - poco più d'un ragazzo - dallo sguardo sudato, lo fis­sava dimentico della selce che ancora stringeva nella mano.
- Sono tue le capre? - chiese Kaish con la sua voce cupa come il rombo del tuono all'orizzonte.
Il giovane deglutì assentendo.
L'uomo sorrise, ma solo con le labbra, senza che nulla trasparis­se dall'espressione severa del suo volto.
- Che vuoi? Perché percuoti la mia casa?
- Io sono Shilish, figlio di Murshilimeni, pastore di capre ... - iniziò col volto paonazzo, bagnato dal su­dore, nella consueta formula di presentazione.
- Ed io sono Kaish e questa è la mia casa - l'interruppe brusco - Ti ripeto, che vuoi?
- ... Telipinush, per volere della grande madre, signore di Khat­ti e di tutte le terre dell'altopiano - riprese Shi­lish col tono di chi s'era ripetuto quel discorso per tutta la strada dalla città a quella casa - ti manda a dire che il tempo del re bambino è giunto al termine.
- Lo so - rispose Kaish annusando l'aria addolcita dai primi te­pori.
- Egli ti invita al grande sacrificio che le sacerdotesse del tempio officeranno al tramonto.
- In città?
- No! - si lasciò sfuggire inorridito il ragazzo - Nella piana dei campi, oltre il bosco sacro della dea ... Teli­pinush ti chie­de di narrare una delle tue storie.
E senza attender risposta il ragazzo si rizzò veloce cor­rendo in direzione delle sue capre. Con fischi striduli e roteare del ba­stone diede l'abbrivio al gregge e solo allora s'azzardò a getta­re uno sguardo alle sue spalle, all'uomo possente che se n'era rimasto, immoto, sul­l'uscio della casa.
Lo seguì con lo sguardo finché scomparve con le sue capre oltre il crinale d'una dolce collina. Volse allora lo sguardo alla città così vicina e allo stesso tempo così lontana. Dalla sua ca­sa distingueva chiaro il ba­stione di terra che la cingeva tutta lasciando le sole aperture delle due porte, quella che accoglieva il primo raggio del sole la mattina e quella che ne attendeva l'ultimo riverbero serale. Nulla o poco si intuiva invece del de­dalo di case che dentro si ammassava mentre alta nel centro spic­cava la figura del grande tempio di mattoni cotti al sole.
Pensò agli abitanti della città, timorosi e ostili a un tempo, soffocati da mura affacciate su altre mura in­combenti, dove lo stesso respiro del dio Teshup, pos­sente e libero sull'altipiano, si frantumava disperden­dosi, dove il puzzo degli escrementi s'ac­compagnava al vano parlare degli uomini.
Cosa aveva egli, Kaish, da spartire con loro e con la loro immon­da città? Quale debito di riconoscenza aveva contratto con Teli­pinush e la sua gente? Nulla, eppure lui sapeva che, a dispetto dell'odio e della paura, egli avrebbe accettato l'invito e attor­no al grande fuoco avrebbe narrato dei suoi sogni a quegli stol­ti. Forse per le labbra profumate di Hattushimeni, per il suo ventre, forse per lei che, sorpresa alla fonte sacra, l'aveva seguito nella casa giacendosi con lui con ardente languore.


CAPITOLO IX

Ci ritrovammo ancora una volta in quella grande sala male illumi­nata e sporca, piena di un sonno­lento brusio umano e confusa ba­raonda. Ma quando ci fummo aperti un varco tra la folla, di­nanzi a noi emerse un immenso sipario azzurro pallido, come il cielo di un altro firmamento ... Quel cielo finto si espandeva e fluttuava in lungo e largo, gonfiandosi al soffio potente del pathos e dei grandi gesti, all'atmosfera di quel mondo arti­ficiale e scintil­lante che si ergeva là, sulle impal­cature risonanti del palcosce­nico.
Bruno Schulz



Ebbe appena il tempo d'abituarsi all'oscurità in cui i profili delle cose disegnavano lo spazio.
Un vago chiarore lunare gli mostrò l'aprirsi della strada in una piazza rettangolare dalle misure conte­nute. Al centro di essa s'intuiva più che vedere il pic­colo gruppo marmoreo d'una fontana mentre sul lato più distante una larga e breve scalinata immette­va su di un altro vicolo che costeggiava, tangente, la piazza.
Si guardò intorno alla ricerca del locale.
L'intuì più che vedere sul medesimo lato dal quale era arrivato.
L'arco a sesto acuto del portale suggeriva un'origine medievale avvalorata dall'insegna di legno che dondo­lava appesa mediante due catenelle al ferro battuto d'­un'asta.
Nessuna luce trapelava dagli scuri e Luca si chiese se non fosse il caso di tornare sui suoi passi. S'accostò alla porta tendendo impercettibilmente il collo per cogliere il minimo segnale d'una qualche attività.
Sommesso, ma inequivocabile, avvertì un brusio di voci e si deci­se.
La porta s'apriva su una sorta di breve corridoio par­zialmente ingombrato da alcune botti addossate alla parete di sinistra. Il soffitto a volta proseguiva nell'in­terno dove il locale si allar­gava in una prima sala do­minata da un vecchio bancone d'osteria dal piano in marmo su di un legno dipinto d'un verde penicillina. Una vecchia credenza, un paio di tavoli e rozze panche completa­vano l'arredo.
Solo un vecchio se ne stava seduto, le spalle contro il muro, sorseggiando chissà quali pensieri in un bianco sfuso. Le poche dita rimaste nel "mezzo litro" dalla larga bocca che gli era da­vanti suggerivano che le sue elucubrazioni volgevano al termine.
Dalla piccola porta quasi celata dal bancone com­parve l'oste: un uomo grande e grosso dall'incipiente calvizie malamente maschera­ta dal riporto dei capelli.
Sentito Luca, se ne venne fuori dal bancone. In mani­che di cami­cia, cingeva alla vita uno spiegazzato grembiule sotto il debor­dante stomaco.
- Buona sera.
- Buona sera. Lei è Edoro?
- Si - rispose l'oste assumendo un'espressione interro­gativa.
- Mi manda Torquato - spiegò Luca.
- Capisco - fece Edoro - Vuole mangiare qualcosa?
- Per ora no. Berrei qualcosa.
- Un bianco?
Luca annuì.
- Se vuole vada nella sala interna - ed indicò alcuni gradini che sulla sinistra se ne scendevano per un basso e stretto passaggio - C'è il camino acceso - spiegò.
- Grazie - rispose Luca, poi fermando con un gesto l'uomo - C'è un telefono?
L'oste assunse un'espressione dispiaciuta - No.
- C'è una cabina nelle vicinanze?
- Mi spiace, no.
- Pazienza - lo rassicurò Luca.
S'avviò per gli alti gradini che gli erano stati indicati.
La scala immetteva in una grande sala anch'essa dai soffitti a volta con un grande camino acceso all'angolo più interno.
Una serie di tavoli, di panche e di oggetti rustici appesi alle pareti ne costituivano l'arredo.
Con un certo sollievo Luca constatò la presenza di di­versi avven­tori che già ad una prima sommaria oc­chiata non sembravano essere i classici e canonici fre­quentatori d'osteria.
Si sedette al tavolo più prossimo alle scale.
Evitando di lanciare sguardi indiscreti, tuttavia non mancò di osservare coloro che, seduti a un tavolo vi­cino, gli mostravano il viso di trequarti.
Erano due uomini, asciutto e nervoso l'uno, compas­sato l'altro, con un provocatorio e luciferino pizzetto il primo e una barba corta e compatta l'altro. Sembra­vano male assortiti tanto erano distanti il sovrabbon­dante maglione alla dolce vita del primo e l'impecca­bile gessato sotto il papillon purpureo del secondo.
- Certo, non c'è alcun dubbio - diceva il primo mentre l'altro sorseggiava un bicchiere di rosso - L'uomo è partito dal sogno. Pensaci, sballottato da forze ed energie che non poteva compren­dere e che gli causa­vano angoscia e preoccupazione, a cosa si sa­rebbe po­tuto aggrappare? Quale strumento aveva a portata di mano per entrare in contatto e tentare di interferire con il mistero?
Silenzioso e discreto l'oste pose davanti a Luca un quartino di bianco ed un bicchiere.
- Sarebbe l'origine della magia - considerò l'altro.
- Certo, ma non solo. Cos'è che soprattutto angoscia l'uomo?
- La morte.
- Di più. E' l'intima connessione che avverte tra la Morte e il Tempo.
Luca ascoltava attento.
L'uomo continuò: - E' la Durata. Cioè quel che è de­terminato dal concepire l'inconcepibile: il prima e il dopo.
L'altro annuì drizzando la schiena.
- Ed è allora che l'uomo s'aggrappa all'illusione reli­giosa della vita oltre la vita.
- Già, creando il mondo divino attraverso un'espres­sione religio­sa che non è altro che la codificazione di un linguaggio.
- Qui parli soprattutto del linguaggio delle immagini e dei sim­boli.
- Si. Anche verbale, comunque. E la chiave è proprio nel rapporto antico che si è venuto a stabilire tra il lin­guaggio e il sogno in cui l'uno è misura e modello del­l'altro e viceversa.
Luca interloquì senza avvedersene:
- Del resto Fromm dice che il sogno è la prima chiave del lin­guaggio simbolico.
- Dell'unico linguaggio universale che la specie umana abbia mai creato: quello dei miti e delle fiabe - annuì l'uomo all'indiriz­zo di Luca - E non è un caso se men­tre si codifica il sistema so­gno come sistema fonda­mentale di interazione con l'ultramondano e di esor­cizzazione della morte, nasca e si definisca il sistema della Letteratura come metafora ed allusione all'ombra acquattata dietro la terribile idea di Durata.
Luca avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma l'affol­larsi delle idee che quel discorso gli aveva suscitato appena oltre la soglia della razionalità non ne faceva filtrare alcuna in una forma com­piuta tale da essere espressa.
Sorrise sperando di non assumere un'espressione idiota.
- Unisciti a noi - l'invitò il compassato
- Grazie - e si trasferì al tavolo dei due - Luca Mare­schi - si presentò.
- Alberto - rispose l'uomo in papillon
- Camillo - concluse l'altro.
In quel mentre entrò nella sala l'uomo che la mattina aveva così traumaticamente incrociato il suo cammino nella passeggiata fuori delle mura.
A parte uno zuccotto di lana calcato sul capo, non pre­sentava al­cun cambiamento, anche la sporta diligente­mente serrata nella ma­no destra era la stessa.
Luca ebbe una frazione d'imbarazzo.
L'uomo, rapido e meticoloso, si spostava di tavolo in tavolo in­curante degli avventori, come alla ricerca di qualcosa sugli assi levigati di quei piani.
Di tanto in tanto si fermava a raccogliere angoli di carta e fo­glietti spiegazzati che, aiutandosi con la luce riverberata dal camino, leggeva senza voce masticando le parole a bocca aperta, quindi con gesto repentino della mano faceva scomparire nella sporta.
- Ho già incontrato quel tipo - disse a mezza voce Luca
- Chi, Lodovico? - chiese Alberto.
- Frequentando la Luna Nuova l'incontrerai ogni sera - lo informò Camillo.
- Ma chi è?
- Una volta aveva una tipografica in via della Conci­liazione - riferì Alberto - Niente di speciale: un paio di Linotype per av­visi di svendite, biglietti di presenta­zione e manifesti mortua­ri. Poi un giorno ha mandato al diavolo bottegai, illustri scono­sciuti e parenti in gramaglie e s'è messo a stampare poesie.
- Poesie?
- Già, adesso ha una piccola stamperia nel vicolo qui sopra.
- E' un sanfedista della carta stampata - fece Camillo con un to­no che lasciava trasparire una certa dose di riprovazione.
Luca lo guardò interrogativo.
- Trova blasfemo impegnare le "Sacre Macchine" nei fatui trastul­li quotidiani - gigioneggiò Camillo - Esse hanno da servire la Memoria.
- Ogni sera raccoglie ciò che gli avventori della Luna Nuova la­sciano sui tavoli per poi stamparlo.
- Ma perché? - chiese ancora Luca.
- Perché di ciò che conta resti traccia nella Memoria oltre che nella Coscienza del mondo.- spiegò Camillo sottolineando con la voce le maiuscole.
- Ma chi lo paga?
- Oh, non lo fa per soldi - rispose Alberto - Stampa sulla carta che riesce a procurarsi, dieci, venti copie... a volte una!
Del resto non le vende. Nessuno sa dove le tenga le sue pubblica­zioni.
- Ma ognuno lascia ai tavoli della Luna Nuova il suo tributo all'immortalità - concluse beffardo, forse, Camillo.
- Questa mattina - raccontò Luca - ero al parco fuori le mura quando m'ha guardato e ha cominciato a par­larmi di tombe e chessò io.
- Lodovico ha l'occhio lungo - sentenziò Alberto - Tant'è che sei qui.
- Che vuoi dire? - Chiese Luca sentendo ancora la fa­tica della familiarità di quel "tu".
Alberto non rispose e sorridendo sollevò il bicchiere nell'invito ad una sorta di brindisi pregno di significati latenti appena ol­tre la soglia della coscienza.
L'oste arrivò nella sala col piatto d'una minestra fu­mante che sistemò su un tavolo, quindi risalì le scale per ricomparire da lì a poco col mezzo litro ed il bic­chiere.
Lodovico si sedette allora al tavolo cominciando a mangiare dili­gentemente.
Luca avvertiva appena quella sottile sensazione d'im­barazzo che in altre occasioni avrebbe spinto in avanti possente e soffocante il suo diaframma.
La disarmante tranquillità con la quale era stato ac­colto dai nuovi due compagni s'era andata unendo a un desiderio di comuni­cazione che in rivoli e torrenti sentiva risalire per la sua co­scienza in cerca d'una via per affiorare in superficie.
Sentiva che tutta l'inquietudine che s'era portata, pe­sante far­dello, per tutta la giornata, se ne restava ora accucciata in un cantuccio sulla panca lì al suo fianco.


CAPITOLO X

Il fremito che percorreva la superficie di quel cielo, il respiro di quell'immensa tela da cui crescevano e prendevano vita le ma­schere, tra­divano l'illusorietà del firmamento, generavano quel palpito di realtà che nei momenti metafisici avvertiamo come il balenare del mistero ... ed io sapevo che presto sarebbe venuto il momento in cui la tensione del mistero avrebbe raggiunto lo zenith, e allora il cielo rigonfio del sipario sa­rebbe esploso davvero, sollevandosi a mostrare cose inaudite e stupefacenti.
Bruno Schulz



- I sogni di Kessi - riprese Camillo, che evidentemente aveva continuato a seguire il filo d'un suo pensiero - sono tipici e non ha importanza se discendano dai miti o se abbiano contribuito a determinarli.
- Qualcuno ha detto che il mito è il pensiero sognante di un po­polo, come il sogno è il mito dell'individuo - citò Alberto.
- Già e i sette sogni di Kessi sembrano prelevati da una sorta di lista modello.
Luca aveva perduto i riferimenti.
- Kessi? - domandò
- Kessi è il protagonista di una storia ittita scritta oltre quaranta secoli fa. Una delle prime storie tradotte dalla tradi­zione orale - spiegò tranquillamente Camillo - Ci sono arrivati solo due frammenti: la parte iniziale nel­l'originale ittita e una piccola parte di una versione ac­cadica.
Kessi è un abilissimo cacciatore su cui fanno affida­mento anche gli dei per il loro cibo quotidiano. Un giorno però Kessi si in­namora di Shintalimeni - la più giovane di sette sorelle, dagli occhi splendenti e dalla voce meravigliosa - e dimentica la cac­cia trascorrendo i giorni gli occhi negli occhi della sua innamo­rata. Quando la madre riesce a farlo tornare a caccia sulle col­line, la ruota del destino si è volta contro di lui e tutta la selvaggina è nascosta nelle tane. Dopo giorni di inutile caccia e sfuggito a stento alla crudeltà degli gnomi delle montagne che prima vorrebbero farlo a pezzi e poi si accontentano di rubargli il mantello nel sonno lasciandolo al gelo, una notte Kessi fa de­gli strani sogni, quelli appunto di cui parlavo. E questi sogni, ognuno di essi, ha un significato che la tradi­zione popolare as­socia alla morte. Prima Kessi si viene a trovare dinanzi ad una porta enorme che non riesce ad aprire nonostante tutti i suoi di­sperati sforzi. Poi, nel cortile di una casa, un uccello gigante­sco piomba a ghermire una donna che insieme ad altre è intenta a faccende domestiche, poi ancora un lampo infuocato seguito da una folgore colpisce un gruppo di uomini che attraversano un grande campo, quindi Kessi vede una folta schiera di suoi antenati che alimentano e mantengono alta la fiamma d'un fuoco. In un altro so­gno si vede con le mani e i piedi legati da catene simili ai monili delle donne, quindi, pronto per la caccia, si trova la strada sbarrata all'uscita a destra da un drago e a sinistra da sozze e orride arpie.
Fin qui il frammento ittita, ma noi sappiamo che il racconto po­polare, quando ad un certo punto della nar­razione interviene un sogno, da quel momento in poi diviene la descrizione di come quel sogno si realizzi. Ed è allora logico che la storia continui con Kessi che torna sulle montagne alla ricerca della porta dell'A­verno, cioè della porta che non si può aprire. D'altra par­te, anche nel Gilgamesh compare, quasi identica, questa porta che immette nella galleria sotterranea che il dio Sole attraversa di notte e che conduce al mondo dei morti. Solo che, mentre Gilga­mesh è chiamato a dare la misure dell'universo, Kessi è destinato a dare alla letteratura le sue stesse misure e quelle del mondo dei morti. Utnapistim, l'Antico dei Giorni, il viaggia­tore dell'Arca che vive immortale nella terra dove il tempo si è fer­mato, insegna a Gilgamesh che l'immor­talità è come un sogno ad occhi aperti, mentre Kessi insegna a tutti i protagonisti dei successivi poemi che vogliano forzare le sorti del destino, che il regno della Morte non può essere concepito che attraverso il so­gno. Così all'alba della civiltà, Kessi il Cacciatore so­gna e sognando definisce i modelli per gli sviluppi successivi della letteratura e della poesia, le metafore oniriche della morte che danno per sempre senso alla metafora delle metafore e cioè alla Letteratura che mima l'Universo.
- Hai fatto perdere il filo anche a me - fece Alberto con un sor­riso.
- Che fine fa Kessi? - chiese Luca
- Oh, scusate - riprese Camillo - In realtà sembra che a Kessi il Cacciatore si possa far risalire il mito di Orione. Una ricostru­zione plausibile della storia an­data perduta è questa. Kessi rie­sce a trovare la porta, ma non può entrarvi perché ciò non è con­cesso a nes­sun mortale. Tra i defunti vi è Udipsharri, il padre di Shintalimeni che, ansioso di avere notizie dei suoi cari, rie­sce a convincere il dio Sole a far entrare Kessi. Il dio Sole di­ce però a Udipsharri di legare con dei mo­nili le mani e i piedi di Kessi perché egli, al termine del viaggio nel mondo dei morti non potrà tornare tra i vivi e dovrà morire. Così Kessi attraver­sa il mondo dei morti, ma giunto in vista della porta del mattino im­plora il dio Sole che, impietosito e ricordando quanta selvag­gina avesse sacrificato Kessi in suo onore, non potendolo riman­dare tra i vivi, lo trasporta nel cielo trasfigurato nella co­stellazione del cacciatore, Orione, appunto, e al suo fianco col­loca Shintalimeni e le sue sorelle, ovvero le sette pleiadi.
- Affasciante - disse Luca stordito e consapevole d'aver più av­vertito che compreso il discorso dell'altro. Del Gilgamesh s'ac­contentava di sapere che fosse un poema sumerico, mentre dell'in­tero discorso, che Camillo stesse tentando di definire i paradig­mi della letteratura universale attraverso quella sorta di navi­gazione controcorrente alla ricerca delle fonti.
Si guardò intorno stupefatto: dov'era capitato?
In quel mentre dalle scale spuntò una giovane donna sui venticin­que anni, longilinea senza essere alta, i fianchi stretti ed il seno appena accennato, vestiva stretti pantaloni su morbidi scar­poncini ed una giacca dal bavero rialzato sul maglione dall'alto e ripiegato collo. I capelli castani, corti e scarmigliati, ave­vano un taglio quasi maschile, gli occhi, due fari azzurri.
Si guardò intorno con un gesto di saluto della mano, poi s'avvi­cinò a Lodovico, lo carezzò sul capo sussur­randogli qualcosa in un orecchio, gli lasciò sul tavolo un biglietto ripiegato e si voltò.
Sorrise al loro indirizzo e s'avvicinò.
- Ciao - e baciò sulla bocca Camillo e Alberto, poi guardò con un sorriso interrogativo Luca.
- Io sono Luca - si presentò sorridendo lui.
- Shintalimeni - rispose a sorpresa la ragazza gettando un'oc­chiata divertita a Camillo.
- Non ti fidare mai di Fosca - rispose sorridendo a denti stretti Camillo.
- Poeta? - Chiese Fosca a Luca.
- Drammaturgo - rispose dopo un fulmineo esame di coscienza Luca.
- "Salve, mio grande padrone; signore venerabile, salve!" - co­minciò a recitare Fosca, con un tono di tranquilla naturalezza che inizialmente sconcertò Luca - "Eccomi pronto ai tuoi deside­ri: pronto a volare, a nuotare, a lanciarmi dentro il fuoco, a cavalcare sulle nubi ondose. Su, piega Ariele e la sua intelli­genza ai tuoi ordini potenti."
Quella traduzione nobile lo colpì con fulminei, abba­cinanti ba­gliori.
- Di chi...?
- Quasimodo - fu la lapidaria informazione di Alberto.
- The Tempest nella traduzione di Quasimodo - spiegò Camillo - E' il pezzo forte di Fosca.
- Reciti?
- "Che vuole il mio potente padrone? Eccomi!"- fece per tutta ri­sposta la ragazza.
Cercando di raccapezzarsi tra i suoi ricordi del dramma shake­speariano improvvisò:
- Tu e i tuoi aiutanti avete fatto bene il vostro lavoro prece­dente e ora dovrò utilizzarvi in un trucco ana­logo. Va a chiamar­li che ho promesso di offrire uno spettacolo della mia arte magi­ca.
- "Subito?"
- Si.
- "Non dirai né "va'" né "vieni", né a tempo "bene, bene", che lieve sulla punta dei piedi sarà giunta viva e pungente schiera. Mi ami, padrone, è vero?"
- Si.
Fosca lo baciò sensualmente e quindi sussurrò alitan­dogli in boc­ca:
- "We are such stuff as dreams are made on; and our little life is rounded with a sleep." - e nell'orecchio gli tradusse - Noi siamo di natura uguale ai sogni, la breve vita è nell'arco d'un sonno".
Luca sentì montare, pulsante, la vertigine dell'eccita­zione.
Fosca tranquillamente si sedette sull'ultima sedia rima­sta libera del tavolo e allegramente proclamò:
- Ho fame!
- Edoro! - gridò allora scherzosamente Alberto - Oste della malo­ra!
Luca guardò interdetto Fosca. Strano a dirsi non era imbarazzato per quel che era accaduto. Non che fosse d'una particolare timi­dezza nei confronti dell'altro sesso o che patisse gli spazi d'i­niziativa che s'era con­quistato negli ultimi decenni, ma quel sottofondo di riservatezza, che sempre accompagnava il culto del suo orgoglio, in altre circostanze, di fronte a ciò che in pub­blico era avvenuto, lo avrebbe messo a disagio
Ora, invece, forse a causa della tranquillità dei suoi nuovi com­pagni, forse a causa di quel sottile senso di incredulità che an­cora gli ovattava le reazioni, sentiva solo il bisogno d'aver chiara la sua collocazione.
- Che c'è da mangiare? - domandò
- Lascia fare a Edoro - gli ripose Alberto.
In quel mentre arrivò l'oste.
Fosca, le mani a coppa a sostenere il mento sul piano del tavolo, ad occhi chiusi sospirò:
- Ho fame.
- Per tutti, Edoro - fece Alberto mentre Camillo scara­bocchiava qualcosa nervoso.
L'oste se ne tornò su per le scale.
- Io dunque sarei Prospero? - tentò Luca.
Fosca non rispose.
In quel mentre un improvviso, convulso movimento distolse l'at­tenzione di Luca.
Spostò lo sguardo appena in tempo per vedere Camillo avventarsi su Lodovico, il tipografo, che, silenzioso, s'era avvicinato al tavolo ed ora, strattonato per le spalle, agitava nel pugno della mano uno stropicciato foglio di carta.
- Lascialo! - quasi gridò Camillo.
Il vecchio serrò ostinato la mano mentre l'altro lo sco­teva.
I due avvinghiati se ne andarono quasi a passo di danza per la sala tingendo del rosso del duello il verde muschioso del rifu­gio.
Fu Alberto - venti occhi d'un tratto attenti - che, china­tosi sui corpi finiti a terra, riuscì a dividerli.
- Lo sai che lui non vuole - diceva a Lodovico con dolcezza - La­sciami il foglio. Per questa notte hai già fatto buona caccia.
La mano del vecchio, protesa in uno spasmo, si rilassò a poco a poco fino a crollare fiduciosa nel palmo of­ferto da Alberto.
Per qualche secondo i due rimasero a terra, mentre nel generale silenzio s'avvertiva chiaro il loro ansimare. Poi, lentamente, Camillo s'alzò e, senza sollevare lo sguardo, preso il foglio conteso che la mano di Al­berto gli offriva, se ne tornò a sedere nascondendo nella tasca dei pantaloni il suo tesoro. Alberto al­lora, ponendogli una mano sotto il braccio, aiutò il vecchio ad alzarsi. Questi, gli occhi sempre febbrili e mobilis­simi, cercò la sua preziosa sporta e, recuperatala, curvo s'avviò all'uscita.
L'oste, che silenzioso aveva assistito al tutto, si scostò dall'ingresso delle scale, dove s'era fermato, per la­sciarlo pas­sare.
Fosca non s'era mossa, come non si fosse avveduta di nulla.
Alberto era intento a ripulirsi i pantaloni mentre Luca guardava Camillo inquieto.
- Non voglio... - disse Camillo - Non sopporto quel suo fare ra­pace.
- In fondo non fa nulla di male - gli rispose Alberto
- Niente!? - sferzò Camillo
- Mangiate - Fu lapidario Edoro mentre disponeva i piatti fumanti ai quattro lati del loro tavolo.
Fosca sospirò uscendo dalla "trance" e dopo un ampio respiro as­sunse un'espressione deliziata alla vista del suo piatto.
Anche Luca guardò.
Una densa zuppa di fagioli cannellini e broccoletti mandava amba­sciatore di delizia, il suo profumo. Mangiò di gusto.
Dopo un istante di religioso silenzio, quasi che l'essere stato ammesso al pasto comune potesse assumere il senso dell'ammissione nel cerchio di quel branco, diede voce alle domande che gli ron­zavano inquiete.
- E' da molto che esiste questo locale?
Al solito fu Alberto a fornirgli una risposta.
- Di sicuro è da prima che io nascessi.
- E' strano, perché non ne avevo mai sentito parlare e d'altra parte non conoscevo affatto questa parte della città. Come si chiama la piazzetta?
- Che io sappia, della Luna Nuova - gli rispose con un'alzata di spalle Alberto.
- L'avrei giurato! - esclamò con un sorriso sarcastico Luca - Co­munque ci sono arrivato per caso. Mi sono perso per i vicoli fino a finire in uno strano negozio di un certo Torquato.
- E che dice il vecchio Torquato? - domandò Camillo.
- Lo conoscete? - chiese Luca
- Qui tutti conoscono Torquato - gli rispose in un sor­riso Alber­to.
- Uno strano tipo - fece Luca attendendo invano una reazione - ... lui e le sue essenze.
Fosca cominciò a disegnare ghirigori con l'indice della mano sul dorso della mano di Luca.
- E' strano però - tentò di nuovo lui - che in un posto come que­sto, una specie di cenacolo di artisti...
- Convivio - lo corresse Camillo.
- Bhè, non sono in molti quelli che scrivono in città e bene o male li conosco un po' tutti... O almeno cre­devo di conoscerli... Eppure non ho mai sentito parlare di questo posto.
Alberto versò da bere e Luca rinunciò.
- Scrivi? - domandò ad Alberto.
- Neanche per idea! - fu la secca risposta dell'altro.
Fu Fosca questa volta che tradusse la reazione.
- Alberto è un cultore dell'inutilità, del gesto futile e subli­me.
- Un dandy - sintetizzò Luca
- Sarebbe dandy se non avesse cuore - fu il commento dal sapore quasi accusatorio di Camillo.
Fosca carezzò le guance di Alberto.
- Povero Alberto, condannato alla generosità.
- 'Sta notte lo faccio - disse serio Alberto.
Camillo lo guardò negli occhi fisso e impenetrabile.
Fosca in silenzio, senza un singulto, iniziò a lacrimare.
Luca era di nuovo, totalmente disorientato.
- Usciamo - fece Alberto.
Luca vide Camillo e Fosca alzarsi ed avviarsi dietro ad Alberto che s'era già voltato.
Dopo un attimo d'incertezza li seguì.


CAPITOLO XI

Lord Patchogue e la sua immagine si fanno len­tamente incontro l'uno all'altra. Si studiano in silenzio, si fermano, s'inchina­no. Da quale ver­tigine è stato colto Lord Patchogue. Fu breve, facile e magico: Lord Patchogue si è lanciato a testa bassa (...). Lo specchio all'urto, al tra­passo, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall'altra parte (...) Sola a sanguinare im­per­cettibilmente era la fronte di Lord Patchogue (...).
All'indomani due operai vennero a sostituire lo specchio. Una volta terminato il loro lavoro, Lord Patchogue era scomparso.
Jacques Rigaut



Il freddo della sera l'intirizzì.
Il gelido soffio della tramontana s'era insinuato nei vi­coli di­sperdendo la foschia e la limpidezza cristallina dell'aria salu­tava il chiarore lunare.
Il silenzio delle case era agghiacciante.
S'avviarono per la scalinata al seguito di Alberto, Camillo nel turbine d'uno spolverino sbottonato e Fo­sca quasi dolorosamente aggrappata al braccio di Luca.
In cima alla scalinata piegarono verso destra dove la strada sa­liva leggermente. Alberto camminava spedito puntando ad una pre­cisa meta.
- Dove andiamo? - chiese Luca sussurrando a Fosca.
Lei non rispose ma si strinse ancor più a lui. p73
Voltarono a sinistra dove la strada s'allargava e se ne saliva interrotta ogni tre, quattro metri, da un gradino che ne addolci­va la pendenza.
A guardia dell'ultimo gradino, nel mezzo del cam­mino, una colon­nina d'aspetto fallico immetteva in una piazza più larga lieve­mente in pendenza. Chiusa su tre lati dalle case e da viuzze si­mili in tutto e per tutto a quella che avevano percorso, s'affac­ciava sul dorso tar­taruga dei tetti rossicci delle case, protetta da un para­petto in ferro battuto.
In alto, finalmente libera dal velo discosto delle case, la luna mostrava il suo pacioso faccione.
Decentrato verso il lato più interno della piazza, un grosso fon­tanile, di quelli un tempo utilizzati per l'ab­beverata di uomini e animali, quasi splendeva nella sua tinta chiara.
Alberto puntò dapprima al corrimano, quasi ad annu­sare l'aria, e poi al fontanile che parve studiare atten­tamente.
Anche Luca l'esaminò con più attenzione.
Privo di un qualsiasi elemento architettonico che ne nobilitasse in una qualche misura la struttura, aveva dovuto costituire in passato un punto di riferimento essenziale per la vita sociale e relazionale della minuta umanità del quartiere. Sul fronte, il vascone paralleli­pediforme era alimentato dalle cannelle metalli­che che, distanziate di circa un metro tra loro, facevano cadere l'acqua dalla parete interna più alta delle altre di buoni quat­tro o cinque palmi. Ai lati, le già spesse pa­reti s'allargavano in piani metallici grigliati, evidente­mente sovrapposti alla struttura in epoca più tarda.
Sul retro, un'altra vasca, questa a forma di semicer­chio, occupa­va buona parte della lunghezza del fon­tanile, lasciando solo ad un'estremità lo spazio per una fontanella evidentemente destinata al prelievo dell'ac­qua potabile. La vasca posteriore presentava la parete interna fortemente inclinata, denunciando in tal modo la sua vocazione ai lavori di lavanderia.
Luca s'immaginò quel luogo un tempo vivo e pregno delle ciarle delle donne intente al lavoro o in fila con la brocca, le urla e le corse dei bambini e l'acre odore degli animali da soma portati ad abbeverare.
Ora le pareti interne del fontanile erano nere e verda­stre dalle muffe che nessuno s'era più preoccupato di eliminare e l'acqua se ne scendeva gorgogliando un ri­chiamo a cui nessuno sembrava più dare risposta.
Provò un senso d'inquietudine e, interrogandosi, s'av­vertì, all'imbrunire delle percezioni, intruso e profana­tore, quasi che nella notte silenziosa e tersa vagassero i fantasmi, unici legit­timi inquilini di quel luogo. Tentò di scrollarsi di dosso quell'idea senza riuscire, peraltro, ad evitare di gettare la co­da dello sguardo alle sue spalle.
Sulla superficie dell'acqua, limpida nel continuo fluire, si ri­flettevano le loro immagini, scure nel chiarore della luce luna­re.
Camillo poggiò una mano sulla spalla di Alberto e poi la strinse con pressante energia.
Questi si voltò, le pupille leggermente dilatate, a guar­darlo ne­gli occhi.
Camillo scosse la testa, deglutì incapace di dire qual­cosa e lo abbracciò stringendolo disperatamente.
- Non farlo - Sussurrò infine.
Fosca piangeva sommessamente.
La mente di Luca aveva preso a ragionare vorticosa­mente, non riu­sciva a capire che cosa stesse avve­nendo, ma un campanello d'al­larme gli segnalava l'imminente verificarsi di un qualcosa, si, di dramma­tico, ma sopratutto di incongruo. Avvertiva l'incom­men­surabile distanza tra la percezione che aveva avuto di quel luogo e la funzione rituale che andava assu­mendo.
Alberto baciò Fosca e porse la mano a Luca in una stretta decisa e vigorosa, quindi con estrema tranquil­lità si sbottonò il pale­tot e lasciò che gli scivolasse dalle spalle per poi affidarlo a Camillo. Servendosi d'una grossa pietra che sembrava posta lì al­lo scopo, salì sul bordo stretto e scivoloso del vascone e se ne rimase immobile per qualche secondo.
L'immagine della sua figura si rifletteva, intera, sul pelo dell'acqua.
Volse appena il capo verso i testimoni, il sorriso im­percettibil­mente triste, e sussurrò:
- Vado nello specchio.
Si lasciò cadere nell'acqua, ritto, come fosse una sta­tua, rom­pendo in un'esplosiva proiezione l'apparente solidità del liqui­do.
I tre furono investiti dagli schizzi.
Luca, come in un sogno, si sporse a guardar dentro.
All'incerta luce della luna, l'increspata superficie la­sciava in­travvedere il corpo di Alberto teso nell'innatu­rale tentativo d'opporsi alla forza che l'acqua profon­deva per risputarlo fuori.
Era voltato il volto verso l'alto, gli occhi spalancati.
D'improvviso la bocca, fino ad allora serrata, s'aprì come in un urlo silenzioso lasciando uscire grosse e ondeggianti bolle d'a­ria che corsero rapide alla super­ficie.
Nella frazione d'attimo che seguì Luca comprese - ve­ramente - il senso estremo di quel gesto e il suo disa­gio per quel luogo. Com­prese e rifiutò.
Quello era il luogo d'una minuta umanità, solare nelle sue mise­rie, nel suo fetore di sudore ed escrementi. Quello era il ven­tre!
Non poteva accettare le carni gonfie e putride, ché lì altro non sarebbe stato...
- No! - urlò e s'avventò, le braccia tese, ad artigliare l'acqua.
Come avesse rotto l'incantesimo si ritrovò in una selva di mani che tentavano d'afferrare quel corpo reso vi­scido.
Riuscirono a tirarlo fuori per le spalle.
L'adagiarono al suolo e Luca, ricordando antiche no­zioni di pron­to soccorso, orientò il corpo col capo in discesa e poi prese a fargli uscire l'acqua dai polmoni.
Per alcuni febbrili attimi Alberto non diede segno di reagire, quindi riprese a respirare ed a tossire.
L'avvolsero nel paletot nel tentativo di frenare il bat­tere dei denti.
- Bisogna portarlo in un luogo caldo e farlo cambiare - disse Lu­ca preoccupato.
- C'è Gaudenzio qui vicino - propose Fosca.
- Andiamo - decise Camillo alzando con Luca Alberto e sostenendo­lo sotto le ascelle.
Fecero poche decine di metri lungo un vicolo e si fer­marono da­vanti ad un pesante portone ad arco. Fosca percosse alcune volte l'anello di metallo sul ribattino fissato sulla porta.
- Gaudenzio! - Chiamò Camillo.
Quando Luca cominciava a temere l'assenza del­l'ospite, un cigolio avvertì dell'apertura d'uno spion­cino quadrato all'altezza delle teste.
- Cosa c'è? - Chiese una voce bassa e profonda da die­tro quel pertugio.
- Apri Gaudenzio! - ordinò in risposta Camillo.
Un tintinnio pesante delle chiavi li avvertì che erano stati a­scoltati e il cavernoso scatto della serratura pre­cedette l'aper­tura d'uno spiraglio.
Comparve una testa totalmente glabra, d'un assoluto pallore, mas­siccia e dura, come scolpita nel marmo di Carrara.
- Che c'è? - ripetè l'omone.
- Alberto - disse Fosca
L'uomo se ne uscì sulla soglia mostrando il suo metro e novanta sotto un'uniforme tonaca nera che gli giun­geva sino ai piedi. Guardò Alberto fradicio, ancora in stato di semi incoscienza e senza una parola se lo prese in braccio senza apparente sforzo e lo portò all'interno della casa. Gli altri lo seguirono.
Uno stretto ingresso adduceva ad una vecchia e con­sunta scala dai gradini arrotondati. Camillo prese la bugia che male illuminava l'ambiente e seguì, facen­dogli luce, Gaudenzio su per la scala.
Luca ebbe presto l'impressione di trovarsi in un con­vento.
Percorsero alcuni corridoi bui e disadorni superando numerose piccole porte ora chiuse ed ora aperte su di una oscurità impene­trabile. Giunsero infine ad una va­sta sala in cui un grande cami­no dalla lussureggiante fiamma spandeva un piacevole tepore.
Robuste panche e vecchi tavoli in legno pesante se ne stavano ac­costati ad una parete, mentre buona parte del locale era ingombro di tele d'ogni dimensione. Su tre cavalletti, disposti a cogliere la luce cangiante del camino, v'erano tre abbozzi di pittura in fasi diverse d'evoluzione.
Gaudenzio fece sedere Alberto su di una sedia impa­gliata accanto al fuoco e quindi si rivolse ai tre:
- Toglietegli i vestiti bagnati. Io vado a prendere una coperta - e si avviò verso la porta.
Alberto batteva i denti ed era percorso da un fremito irrefrena­bile; riuscirono a spogliarlo mentre Gauden­zio rientrava con una pesante e infeltrita coperta color nocciola.
Fosca dispose i panni bagnati ad asciugare intorno al fuoco, men­tre Gaudenzio recuperava da uno sganghe­rato armadietto un botti­glia d'un'acquavite artigianale e una serie di bicchieri scompa­gnati.
Versò fino all'orlo un bicchierino di liquido incolore e, presa per il mento la testa ciondoloni di Alberto, gl'in­timò:
- Bevi.
Camillo s'agitava inquieto.
Alberto, dopo una smorfia di bruciante sofferenza se­guita al pri­mo sorso, sembrava leggermente rinfran­cato e, preso con due mani il bicchierino, lo sorseg­giava diligente a capo chino.
Luca era ancora percorso da scariche d'adrenalina e non riusciva a focalizzare con precisione il pensiero.
Si disse che s'avesse incontrato da solo Gaudenzio di notte per la strada, con quel mortale pallore e quella "doppia piazza" di fisico che si ritrovava, avrebbe vi­sto liquefarsi il suo sangue freddo in un baleno.
Fosca, quasi avesse avvertito d'istinto i suoi pensieri l'in­formò:
- Come avrai capito Gaudenzio è un pittore.
- Già - fece Luca sbirciando nella sarabanda di tele nella sala.
Totalmente privo d'una formazione sulla materia, trasse una vaga e inquietante idea d'ombre dalle im­magini che vedeva.
- Detesta la luce del sole - continuò Fosca - e dipinge solo al chiarore della fiamma.
- In effetti ha uno studio originale - fece Luca
- Oh, questo era un convento - rispose lo stesso Gau­denzio - Più di trent'anni fa è morta l'ultima monaca e da allora è rimasto disabitato fino a quando io non sono entrato ad abitarci e lavo­rarci.
- E' per via del sole che... - s'interruppe imbarazzato Luca.
Fosca carezzò il cranio latteo e lucido e sorrise
- Esce solo di notte - disse - come ogni anima dannata.
- Perché - la voce rauca e catacombale di Alberto li sorprese.
Dopo un attimo sollevò gli occhi arrossati fissando Camillo.
Questi girò sui tacchi e uscì dalla sala.
Luca lo guardò interdetto.
- Perché!? - gli urlò dietro Alberto quasi afono - Cri­sto, perché?
- Perché era stupido - si sorprese a rispondere Luca.
Alberto lo guardò quasi stentasse a riconoscerlo.
- Che vuoi dire? Che ne sai tu? - lo accusò.
Si sentì gli occhi spauriti ed al contempo la mandibola che s'in­duriva
- Lo so - Fu tutto ciò che disse.
- No, non sai nulla, povero sciocco - rispose scotendo la testa Alberto - Io 'sta notte ho compiuto una straor­dinaria impresa, sono andato oltre lo specchio, non più carne ma riflesso!
- Ti stavi semplicemente annegando.
- E con ciò?! - gridò spazientito Alberto e proseguì quasi in un fil di voce - Solo facendomi riflesso ed ombra posso sfuggire al­la morte... - poi, come rapito in un ricorrente pensiero - E se oltre lo specchio incon­trassi solo un altro specchio? ... E se oltre quello spec­chio non vedessi che gli occhi d'un uomo che non vuol morire e saltando oltre il nuovo specchio mi trovassi di fronte agli occhi d'un altro uomo che non vuol mo­rire? ... A che varrebbe saltare di specchio in specchio? ... Meglio chiuderli, gli occhi. Non vedere più. Uscire dal riflesso. Scivolando ... oltre il bordo della cornice.
- Ma quello non era uno specchio, anzi, "lo specchio" - gli ri­spose Luca - Era un vascone per il muso dei so­mari. Ma quale ri­flesso ed ombra!
- Certo, per sfuggire a questa realtà che fa tutto merce - disse sul riquadro della porta Camillo, sorprendendo alle spalle il gruppo - può essere giusto tentare la fuga dalla trappola dell'u­tile, divenire qualcosa d'altro, an­che lasciare la condizione di vivente ... In un modo o nell'altro. Ma io credo che il nostro nuovo amico vo­glia intendere qualcosa d'altro. Non è vero?
Luca sentì gli occhi che lo fissavano e fece uno sforzo immane per dare un senso compiuto a quel che conti­nuava ad essere null'altro che una sensazione.
- Non credo... Io non credo che il suicidio sia una strada per uscire dal quadro ... almeno non lo è se ti pone in relazione con un qualcosa che vive altrimenti ... che ha una storia e nella storia ti assorbe...
- E' il sole - sentenziò tetro Gaudenzio - Tutto è con­taminato e putrefatto dal sole. Tutto diviene ovvio, ba­nale, necessario. Tutto sopravvive e nulla vive. Guar­datevi dal sole! Il tuo spec­chio - disse rivolto ad Al­berto - era contaminato dal sole, dalle purulente ore del giorno, dalla sua ragionevolezza assassina. Il no­stro amico ha ragione, il tuo gesto era sublime, ma sciocco.
Alberto scoppiò a piangere.
- Sono un fallito - disse tra i singhiozzi.
- No - lo rincuorò Camillo - Non sei a Parigi e son passati più di sessant'anni... Ed anche allora s'era con­taminati dalla luce del giorno. Non è vero Gaudenzio?
- Certo fratello - rispose l'altro.
- Full fadom five thy father lies - sussurrò Fosca fri­zionando con dolcezza il capo di Alberto - Of his bo­nes are coral made. Those are pearls that were his eyes.
Tuo padre è là in fondo a cinque tese. Si son fatte sue ossa co­ralli di brace. E i suoi occhi sono diventati perle... Sea-nymphs hourly ring his knell. Ed ogni ora le ninfe scampanano a morto per lui... Ding-dong - e scosse lentamente la testa come soprap­pensiero - Ding-dong.
Rimasero immobili e in silenzio per un tempo che parve lunghissi­mo.
- Vieni - Fosca lo aveva preso per mano.
- Dove andiamo? - Chiese sorpreso
- Da me.
Cercò gli altri con lo sguardo ma sembrò che li igno­rassero o che almeno si disinteressassero a loro.
- Alberto? - Sussurrò a Fosca.
- Ci penserà Gaudenzio.
- Andiamo - si decise.


IV° INTERLUDIO

Uscì dalla fresca penombra dell'alto corridoio sul­l'ampio terraz­zo del terrapieno su cui sorgeva il tem­pio.
Con piacere, quasi con voluttà, assaporò il tepore del sole sulle sue spalle minute e nude.
Erano in quel periodo dell'anno in cui netto s'avverte il respiro della Grande Madre, in cui ella si desta dal lungo sonno canuto, giovane e lubrica, vogliosa del seme che la renderà pregna.
Hattushimeni dilatò le narici eccitata, quello era il tempo della grande dea che più apprezzava, forse per la consonanza con la sua giovane età.
Ed ora ella vibrava, all'aria pregna di umori, lasciando col cor­po crogiolare l'animo.
Levò il viso - gli occhi serrati - all'astro della dea, come ad accoglierne sul viso il seme. Al pensiero ebbe nel ventre uno spasmo di doloroso piacere.
Aprì gli occhi illanguiditi ed il suo sguardo fu attratto da una grande aquila che volteggiava nell'aria mo­vendo lentamente in di­rezione del sole. D'improvviso il rapace prese a gettarsi in pic­chiata ed artigliato in volo un uccellino - forse un'allodola - tornò a solle­varsi con lenti e poderosi battiti delle grandi ali in di­rezione delle terre oltre il tramonto.
Hattushimeni si chiese il senso di quel presagio, in­quieta.
Guardò la piccola torre cieca ricostruita sugli antichi tronchi infissi profondamente nel terreno dove aveva vissuto in quell'an­no il piccolo re.
Quasi in un sogno tornò al tempo della grande ve­gliarda, al buio squarciato dalle fiamme ed alla scelta.
Nelle orecchie le si riverberarono ancora le grida della casa e nelle nari il ludibrio per la materna empietà.
Rossi, i mattoni del tempio avevano chiuso la soglia dell'oriente celando il fanciullo divino agli sguardi mortali.
Si riscosse: oggi s'apriva la porta d'occidente.
Altre ali avrebbero condotto il tributo alla dea, altro sangue l'avrebbe irrorata.
L'aquila era alta e possente.
Un benevolo responso, dunque, ma non solo.
Con un brivido considerò la direzione che quel volo ora evocava e si sorprese della piega che i suoi pen­sieri andavano assumendo: non era solita indugiare la mente sul grande viaggio allontanan­done da sé la stessa idea, eppure ora ne avvertiva tutta la ver­tigine del mistero.
Kaish, dalle forti braccia e dall'indomabile vigoria, era la cau­sa delle sue elucubrazioni, questo considerò bef­farda, nel lieve accenno d'un sorriso.
L'aveva scelto la luna precedente, quando con le so­relle, di ri­torno dalle sacre abluzioni di rigenerazione, era passata vicino alla sua casa. Lui era lì, tenebroso ed imponente in tutta la sua vellicante maledizione. Non aveva dato ascolto ai gridolini invi­diosi di sedotto orrore delle trepide sorelle e quella notte stessa aveva lasciato infrangere quel che la Fonte aveva risana­to.
Da allora frequenti erano state le sue visite alla casa che tutti evitavano ed ai misteri che essa conteneva.
Presto Kaish aveva preso a turbarla col racconto dei suoi sogni mentre ella, avida, possedeva il suo corpo.
E forse ancor più presto ella non aveva potuto fare a meno d'es­sere presa dai viaggi notturni del suo amante e di condividerne il riverbero delle domande.
Così egli le aveva trasmesso col seme l'inquietudine, mentre ella cercava di fornire una risposta nella calda protezione del suo ventre.
E Kaish sarebbe andato dalla casa alla piana quella sera.
Per volere di Telipinush e suo piacere.
Per la voce tonante e i suoi racconti, tra il vile dispre­gio del­la stirpe di Khatti ...
Lo spiazzo su cui sorgeva la piccola torre di fronte al terrapie­no del tempio s'andava popolando della solita folla di curiosi che cercava per tempo d'assicurarsi un buon punto d'osservazione. L'ora era ormai vicina e Hattushimeni si volse per rientrare nel tempio.
L'attendevano le sacre fumigazioni e le segrete pozioni sacerdo­tali.
Vi si sarebbe sottoposta con dedizione e scrupolo: si sarebbe presentata al grande rito pervasa di frenetica eccitazione in o­nore del nome sacro della dea e a be­neficio dei lombi del suo Kaish.


CAPITOLO XII

Gorgo vibrante la disse il poeta
di fremiti sordi giardino dell'ade promessa
e palestra di giochi inquietanti
che l'anima induce tra ciglia
di crono questa mia notte turbata
dalle apparenze del giorno.
Alfonso Cardamone



Fosca lo condusse fuori tenendolo per mano.
Il freddo era pungente.
- Dove andiamo?
- Da me.
E Fosca prese il vicolo che s'inerpicava ancora verso la sommità del colle.
Più si saliva e più sembrava andassero a ritroso nel tempo. Le vecchie, disabitate e via via più deteriorate pareti intonacate andavano cedendo il posto ai muri a pietra viva dei primi inse­diamenti arroccati sulla cima.
Luca conosceva quel genere d'architettura che segnava, nella ver­sione nobile, le costruzioni chiamate a far da compagnia all'an­tica cattedrale, ma anche quei luoghi gli erano del tutto scono­sciuti e in una certa qual mi­sura gli apparivano diversi.
Ben presto il vicolo divenne lastricato d'un grossolano acciotto­lato chiaro, in più punti divelto, specie in prossimità dei cigli vertiginosi sugli antichi canali di scolo.
Brevi e ripide scale di pietra, spesso prive di parapetto e cor­rimano, immettevano a sgangherate porte d'assi sopraelevate men­tre muri, ritti in memoria d'un antico crollo, racchiudevano il rigoglioso trionfo d'una natura malata.
- Ma questa zona è completamente disabitata- fece Luca a disagio.
- Ci abitiamo in pochi - rispose Fosca serena e, come a tranquil­lizzarlo - Siamo quasi arrivati.
Luca ebbe l'impressione d'essere ormai giunto il vetta alla col­lina.
Si fermarono di fronte ad un portoncino scuro che ce­dette alla pressione d'una mano.
Una ripida e stretta scala si perdeva in alto nell'oscu­rità.
- Vieni - disse Fosca entrando.
La seguì inquieto.
La scala terminava di fronte ad una porta che Fosca aprì con una chiave presa da una tasca dei pantaloni.
Si trovavano in una sorta di vecchia mansarda nella penombra d'un grande lucernario che, obliquo, mo­strava un grande squarcio di cielo stellato. Una porta-finestra a due ante, verniciata di bianco, immetteva su di uno stretto terrazzino imgombro di vasi e fiori fino all'inverosimile. La stanza era grande, sulla destra vi era una porta che evidentemente chiudeva il bagno, mentre più avanti un altro ingresso, la cui porta era stata rimossa dai car­dini, lasciava intravvedere un cu­cinino sacrificato dallo spiove­re della copertura.
- Siediti - Fece Fosca togliendosi la giacca e lascian­dola cadere sulla spalliera d'un morbido divano a fiori.
Luca si guardò intorno, oltre al divano un paio di pol­troncine, alcune sedie e un tavolo dalle sottili gambe d'un nero setato, un letto da una piazza e mezza, una vecchia credenza, qualche scaf­fale ed un armadio da­vano, chiaro, il senso d'una tana, morbida e calda.
Fosca gli portò da bere.
- Ho una bambina meravigliosa - riferì onesto.
Fosca sorrise:
- Come si chiama?
- Lucrezia - Sorseggiò l'alcool impacciato - Che fai nella vita? Quando sei arrivata alla Luna Nuova hai consegnato qualcosa a Lo­dovico. Scrivi?
- M'hai spiato? - Chiese lei.
- Poi ti sei messa a recitare.
Fosca iniziò a cantare sommessamente:
- Come unto these yellow sands...
- No! ... Ti prego. Fammi capire.
- Ha importanza?
Un rumore contro il vetro del lucernario attirò la loro attenzio­ne e Luca ebbe l'impressione di vedere un'om­bra.
Fosca recuperò rapida una sedia su cui s'arrampicò per aprire un vetro.
Un'ombra gli volò in grembo.
Ridiscese facendo le fusa a un gatto nero.
- Dove sei stato Calibano, eh?
Il gatto dal pelo lucente rizzò il capo all'indirizzo di lui.
- Calibano ti presento Luca. Luca ti presento Calibano.
- Piacere - sorrise Luca.
- Hai fame? Vieni che ti do un po' di latte - e se lo portò in cucina.
Ricomparve dopo un po' sulla cornice della porta.
Si guardarono in silenzio. Poi lei s'avvicinò.
Le offrì la mano. Gli affidò la sua.
La baciò teneramente beccandola con le labbra sulla bocca. Lei gli cinse il collo in un bacio più esigente.
S'esplorarono con le mani e con la bocca. S'offrì lan­guida e lui la possedette con tenera passione.
Lo trattenne, su di sé, il peso finalmente rilassato a schiaccia­re i turgidi capezzoli, dentro di sé, lasciando illanguidire il suo vigore.
Rimasero così, per qualche tempo, poi gli sorrise.
- Aspetta - e liberatasi del suo peso s'alzò veloce, re­cuperò una coperta che si pose sulle spalle e serven­dosi della sedia, s'ar­rampicò sul tetto attraverso l'aper­tura del lucernario.
Luca la guardò a bocca aperta e lei, facendo capolino, lo invitò a salire sorridendo.
Sconcertato, ubbidì e dietro le divertite sollecitazioni di Fosca s'arrampicò fino ad uscire sul tetto.
Il freddo della notte lo colpì, ma Fosca subito l'accolse nella coperta ed avvinghiati si sedettero sui vecchi coppi della coper­tura.
- Guarda - Gli disse Fosca.
La casa era in effetti quasi alla sommità della collina e tutt'intorno si estendeva il mare ondeggiante dei tetti. Le luci della città si riverberavano offuscando la lucen­tezza del cielo all'orizzonte, ma sulle loro teste il firmamento aveva innalzato il gran pavese.
Si distese affascinato a contemplare le stelle.
Il freddo era intenso ed il vento penetrava attraverso la medio­cre protezione della coperta. Si strinse al mor­bido e caldo corpo di Fosca ed il contatto l'eccitò di nuovo.
Lei prese a giocare dolcemente col suo sesso. Lui la lasciò fare.
Era sereno e ancora una volta si chiese che cosa stesse succeden­do, cosa fosse avvenuto in quella magica sera e come fosse possi­bile che le sue insoddisfazioni e le sue frustrazioni si fossero dissolte d'un tratto in quel­l'atmosfera.
Guardò Fosca e si chiese chi fossero questi strani per­sonaggi con cui s'era accompagnato, verso cui sentiva un afflato fraterno. Ripensò al giorno ch'era trascorso e un riverbero d'inquietudine baluginò all'orizzonte.
- Io non sono quel che sembro, Fosca. Almeno non sono quello che credi.
Lei, rincantucciata sotto la coperta, gli titillò con la lingua il capezzolo.
- Sono un impiegato statale. Si, scrivo. Ho un armadio pieno di lavori. Ma non li ho mai pubblicati ... Non ho mai tentato di pubblicarli ... Forse per paura d'un ri­fiuto, o del giudizio. Di sentirmi dire che non valevo il costo della carta ... In fondo è meglio essere qualcosa in potenza che non essere per niente. Ma alla fine sono una persona banale, con una vita banale. Non rie­sco a immaginare il racconto d'un momento portentoso o almeno di una coincidenza straordinaria nella mia vita: tutto è racchiuso negli argini d'un grigio buonsenso.
Fosca scivolò con le labbra verso il ventre.
- Cosa c'entro io con te, con Alberto, con Camillo o con Lodovi­co? Voi avete saltato l'argine. Io tornerò di là...
Fosca gli insinuò la lingua carnosa tra le labbra ad in­seguir la sua trasmettendogli, misto, il suo sapore. Lo possedette, la te­sta rilasciata all'indietro, i seni piccoli e superbi, il ventre piatto percorso dagli spasmi del piacere.
- Sei uno sciocco, Luca - disse Fosca con i seni ancora ansimanti sul suo petto.
- Perché?
- Che sai, tu, di noi altri?
- Niente.
- Eppure hai stabilito un nostro ruolo, ci hai collocato nel tuo bestiario.
- Credo che tu abbia ragione.
- Ci siamo incontrati questa notte e forse ci incontre­remo anco­ra. Bene, cosa c'entra questo con i nostri giorni? Credi forse che cambierebbe qualcosa se tu non lavorassi in un ufficio o se Camillo non facesse il professore? Credi forse che sarebbe diver­so se tu avessi pubblicato le tue cose?
- Che vuoi dire?
- Pensa a Gaudenzio.
- Il sole?
- Noi siamo anime vaganti. Vieni, voglio farti vedere una cosa.
Si sollevarono un po' impacciati dall'unica coperta che li pro­teggeva e si calarono nella stanza.
Calibano li osservò indifferente, raggomitolato sul di­vano.
Luca cercò di recuperare i vestiti disseminati per la stanza, mentre Fosca apriva una grossa cassapanca.
Mentre lui versava un liquore in due bicchieri lei lo chiamò:
- Guarda - e gli mostrò una piccola ampolla recitando - "Io e i miei compagni serviamo il Destino: ecco, il me­tallo delle vostre spade non può che ferire i venti scro­scianti, e con vari colpi tagliare le acque, che sempre si richiudono, o levare dalle mie penne un fiocco di la­nugine!"
- L'essenza di Torquato! - esclamò Luca
- Si. La mia - disse Fosca con un tono definitivo.
Nell'eterea ampolla guizzava, come una fiammella, un riverbero d'oro.
- Cos'è?
- La tua non è una domanda che può avere risposta - e lo baciò nella bocca.
Ripose con cura l'ampolla nella cassapanca e si rivestì.
- Vieni - disse allora - Camillo ci aspetta.
- Camillo?
- Si. Andiamo.
E presa la giacca si avviò alla porta.


CAPITOLO XIII

Ti prego di chiedere al signor Aurier di non scrivere più artico­li sulla mia pittura, fagli capire in primo luogo che si sbaglia sul mio conto, e poi che sono immerso nel dolore per apprezzare la pubblicità.
Dipingere mi distrae, ma sentirne parlare, mi dà un'angoscia che non si può immaginare.
Vincent Van Gogh



Avrebbe fatto volentieri a meno di riuscire al freddo della not­te, ma era Fosca a menare la danza e la seguì.
- Dove andiamo?
- Qui vicino. Sei mai stato sull'acropoli?
- Certo.
- Vedremo - Disse Fosca con un sorriso dal sapore beffardo.
L'acropoli, ovvero i resti dei primi insediamenti pre­romanici, si trovava esattamente sulla cima della col­lina.
Salendo dalla cattedrale un largo viale immetteva in un'ampia a­rea pianeggiante che, sulle ben disegnate aiuole, era disseminata di antiche pietre qua e là scol­pite da inintellegibili motivi de­corativi.
Per buona parte il piano di quell'area era costituito dal terric­cio che col tempo s'era accumulato all'interno di antichissime mura, rendendo in tal modo visibile il solo lato esterno di que­ste.
Sul lato sinistro dell'area una spericolata scalinata con­duceva all'unico elemento di notevole valore architet­tonico e archeolo­gico: uno stretto arco a sesto acuto di rarissima fattura.
Oltre l'arco una congerie di giganteschi massi ostruiva la stra­da. In altri punti una ringhiera proteggeva la vi­sta dei ruderi di muri secondari, che avevano già su­bito le ingiurie del tempo ed ora subivano l'insulto dei contemporanei divenendo una sorta di discarica del­l'umana inciviltà.
Esposto d'inverno alle intemperie e al caldo torrido nel pieno dell'estate, era un luogo poco frequentato se non in primavera dalle coppiette in cerca di intimità serali.
Usciti dalla casa voltarono a sinistra risalendo per il vicolo.
Fecero alcune giravolte poi, sorprendendolo, Fosca s'arrestò di fronte a un cancelletto di metallo dalla vernice verde scrostata.
I muri che lo delimitavano erano nascosti dai rampi­canti che, in­colti, s'erano evidentemente sviluppati per anni. Oltre il can­cello s'intravvedeva una stretta e ri­pida scala in pietra quasi totalmente sommersa nei ri­gogliosi rovi.
Fosca, tastando oltre le sbarre, individuò il paletto e lo rimos­se, il cancello cigolò sinistramente.
- Vieni
Luca esitò. Aveva terrore dei topi e degli insetti.
Lei si fermò, come avesse intuito e gli offrì la mano.
Le si affidò.
Salirono per i ripidi e viscidi gradini fendendo i rovi.
La scala conduceva in una piccola radura protetta su tre lati da quelli che sembravano muri tufacei mentre di fronte s'apriva in uno stralunato paesaggio dalle suggestioni oniriche.
Pietre gigantesche, tra le più grandi di quelle che con­correvano alla possanza delle mura ciclopiche, giace­vano disseminate nelle più strane e casuali angola­zioni, addensandosi progressivamente fino allo squar­cio di quel sesto acuto aperto come anelito al mi­stero.
Luca si fece condurre per la mano seguendo un invi­sibile sentiero per i percorsi di quel labirinto.
Vide Camillo all'improvviso, aveva il gomito poggiato su di una pietra riversa ed inforcava un paio d'occhiali dalla montatura d'osso chiaro. Leggeva a stento dei fogli stropicciati aiutandosi alla luce della Luna.
- Siamo qui - disse semplicemente Fosca.
Camillo sollevò la testa ed annuì deciso.
Fosca si sedette al riparo dell'angolo formato da due pietre, sollecitando al suo fianco un incerto Luca.
Camillo drizzò la schiena e un turbine di vento gli sollevò il lungo spolverino scotendolo con forza.
Cominciò a parlare solo intuendo la lettura, dapprima quasi in­certo, poi sempre più possente.
"Mai sentii pronunciare il nome (che in seguito seppi terribile) di Gilgamesh il possente re di Kullab e di Uruk signore prepoten­te delle genti di Sumer e toro incontenibile che unico generò la vacca selvatica del recinto Ninsun che conobbe il dio del sole, a cui con­ferì Enlil regalità e dominio sopra gli uomini, Gilga­mesh dico, fino al giorno del Nuovo Anno, io Enkidu che non nacqui di donna e fui d'incanto sotto il sole dal ventre della steppa gli occhi ferite aperte e lanci­nanti all'inaudita luce sentii lo stormire delle fronde il passo leggero delle gazzelle in fuga all'abbeveratoio l'afrore della tigre e mi drizzai di undici cu­biti l'ombra misurando e non meno sulla sognata foresta rabbrivi­dente dei cedri.
Vello di capro grugno di verro e gambe di cicogna controvento spiavo gli uomini scavare trappole e in­tramare reti alla posta che strappavo l'une e colmavo l'altre la notte pei fratelli.
Sempre mi visitarono la notte ambigue immagini di bestie ostili e doppie nel taurino occhio e nell'umano fianco e correvano pieghe­voli a vorticosi ingorghi docili ai giochi della luna le litanie del sangue la lingua dei cervi la mattina scioglieva i groppi che notturni un dio imperfetto illudeva stringere e le membra dispo­nevo al nuovo giorno.
...
Ma una notte la corrente si fece rapida del sangue e le figure doppie aprivano tra cosce molli il sesso della donna al risveglio sfidai alla corsa il maschio più ve­loce del branco e sul sentiero asperrimo all'abbevera­toio mise ali alla mia corsa l'angoscia della notte non la brancai come il leone la gazzella anche se l'odore del suo corpo aveva cacciato le bestie al folto disper­dendo il branco guardai catturato il suo corpo bianco e lei si stese traendomi al suo fianco dinanzi a me si stese in un sorri­so.
Sei giorni e sette notti luna e sole fecero da scolta ai nostri corpi uniti e a me che aravo con vomere impla­cabile il ventre suo di miele ella parlava parlava suoni che inquietanti immagini ac­cendevano alla mente e fu per fuggire le parole (ancor più che per lo scemare della furia) che risposi al richiamo del lontano branco di undici cubiti e non meno distendendo l'ombra in corsa alla radura e più non giunsi il bulicame in fuga.
Alle ginocchia accoccolato della donna affidai alla sua bocca il mio destino incominciai a dare un nome alle cose ed alle piante agli animali ai sogni e al di là delle stagioni appresi ciò che è alfa e ciò che è omega co­nobbi il nome disperante della morte.
Unto d'olio e di vesti rivestito inseguendo i sogni d'Uruk alle porte pervenni accompagnandomi alla donna e tutto accadde ch'era nominato nello stordito correre alla morte sul limitare del tem­pio della dea Gilgamesh furono e la lotta la mia sconfitta ed il fra­terno amore la sfida al mostro poi di settuplici terrori arma­to le cui fauci erano la morte Humbaba che non dorme mai da Enlil posto a guardia del sacro cedro che Gilgamesh irrequieto cuore volle per immortale fama trappola di Enlil e di Samash insidiosa rete a me che decretai la morte dell'abbattuto mostro.
S'intrecciarono i nostri sogni ancora poi che al mio di­sprezzo verso il dio che usa i mostri per adempiere il destino s'aggiun­se il tuo a imbestialire l'infoiata dea Ishtar nostra signora dell'amore e della guerra a cui ne­gasti il seme del tuo corpo ed anche il Toro Celeste che condusse giù alla cavezza a distruzione tua io l'af­ferrai per le corna offrendolo alla spada e lei insul­tai scagliandole i brani sulla faccia.
Volle Enlil che uno di noi due morisse e Samash non lasciò di proteggere il tuo fianco figlio dell'onagro e della gazzella uomo senza dio traviato dalla donna fui io Enkidu il prescelto dagli dei e in sogno già rag­giunsi i territori oscuri della morte a te lasciando an­cora in sorte, mio fratello, l'inutile ricerca e il mise­rabile ritorno".
Tacque.
Il vento sibilava tra le pietre, teso.
Luca deglutì. L'eco di quei versi letti, o ricordati come un flusso ininterrotto di Parole, di quelle stesse Parole imparate da Enkidu dalla donna, di quelle stesse Pa­role che al di là dell'alfa e dell'omega gli avevano fatto conoscere la morte, per­coteva il diapason della sua sensibilità.
Dopo un lungo momento di sospensione fece per al­zarsi, ma una ma­no di Fosca sulla coscia lo fermò.
Camillo s'era mosso e ricercando nella vela dello spol­verino un suo pertugio, finì per estrarre un qualcosa di minuto.
Luca aguzzò inutilmente gli occhi nel tentativo di ca­pire cosa fosse.
Sembrò che Camillo cercasse un punto adatto sulla pietra che gli era già servita d'appoggio al loro arrivo, quindi, serrando a due mani con tre dita l'oggetto ap­pena recuperato, lo spezzò come fosse una fiala.
Subito, come il genio della lampada, una fiamma az­zurro chiaro guizzò fuori dall'oggetto. Camillo lo la­sciò cadere sulla pietra, quindi, col gesto d'una len­tezza rituale, impose i fogli del suo scritto, uno alla volta, alla fiamma.
Luca avrebbe voluto gridare e invece pianse.
Eterei frammenti di cenere vorticarono innalzandosi, poi d'im­provviso il fuoco s'esaurì come fosse stato ri­succhiato nella roccia.
Camillo voltò verso di loro la pietra imperscrutabile del volto, tolse gli occhiali e li ripose nella tasca in­terna dello spolve­rino.
Luca avrebbe voluto che Lodovico fosse riuscito a ra­pinare quei fogli. Non riusciva, non poteva accettare quello che era avvenu­to.
Fosca s'era alzata e aveva cinto il collo di Camillo e lo bacia­va, con la spossata tenerezza che segue un appa­gante rapporto sessuale, sussurrandogli brevi parole.
S'alzò incapace di resistere alla curiosità e si avvicinò alla pietra. Il vento teso e gelido aveva ormai rimosso ogni traccia della combustione e sulla pietra restavano le due metà d'una ter­racotta a forma di rapace.
L'essenza di Torquato.
Si volse scotendo il capo:
- Non lo accetto - disse - Non posso accettarlo.
Camillo lo guardò negli occhi, lentamente, il volto percorso dall'ombra d'un sorriso.
- Parliamone - disse - se vuoi.
Li guardò entrambi dubbioso.
- Thy thoughts I cleave to - lo rassicurò Fosca - What's thy pleasure?
- Sono dunque Prospero?! - esclamò esasperato dalle continue ci­tazioni di lei.
Non rispose. S'avviò per il labirinto verso l'arco a sesto acuto.
Dopo un attimo d'esitazione la seguì pentito della scor­tesia.
Il vento era tagliente come un'affilata lama e sembrava vorticare impetuoso risucchiato dall'imponente ferita della porta che ora incombeva su di loro: non s'era mai reso conto, nell' inversa prospettiva del consueto punto d'osservazione, delle reali dimen­sioni dell'elemento architettonico.
Oltre la porta, la scala sembrava un'ascensione al cielo il cui chiarore era come una promessa di luce.
- Ecco - disse Fosca - Se vuoi, quella è la strada per tornare nei posti che conosci.
- Ti sei offesa? Mi dispiace.
- No, non sono offesa. Ho pensato che avessi voglia di andar via.
Non ne aveva voglia. C'erano troppe domande a cui dare una rispo­sta e c'era l'essenza nella bottega di Tor­quato.
- Resto. Ma torniamo giù, ché qui fa troppo freddo.
Tornarono sui loro passi verso Camillo che, immobile, era rimasto ad aspettarli.


CAPITOLO XIV

Per bello che sia non vale la Polonia.
Se non ci fosse la Polonia, non ci sarebbero Polacchi.
Père Ubu



- Va bene, parliamone - disse risoluto guardando Camillo fisso negli occhi.
- Torniamo alla Luna Nuova - propose Camillo - a bere qualcosa.
S'avviarono verso il cancelletto che immetteva nel de­dalo di viuzze buie.
Discesero al suono dei loro passi sul selciato.
Il vento gli riportò, lontani, i dodici rintocchi della mezzanot­te.
Si sorprese del breve arco di tempo in cui tutto era av­venuto da quando s'era lasciato attirare come una fa­lena dalla flebile luce della bottega di Torquato. Era come se il tempo avesse diradato il suo respiro, ora lento e cavernoso - diaframmatico - così di­verso dal­l'enfisemico scandire quotidiano così vano e dispe­rante.
Fu il sordo e pulsante rumore che l'attrasse.
Erano in una delle tante stradine, ormai distanti dal­l'acropoli, quando quasi avvertì, in trasmissione sim­patica dal metatarso, la vibrazione. Inconsciamente serrò i denti per accrescere la pro­pria ricezione.
- E' la stamperia di Lodovico - l'informò Fosca che aveva compre­so il suo sconcerto - Vuoi vederla?
- Si - rispose lui dopo un'esitazione. La cosa, sentiva, capitava a proposito.
Camillo non disse nulla e non lasciò trapelare alcuna reazione.
Fatta una decina di metri voltarono a destra e subito a sinistra, in un vicolo cieco che andava a morire contro un alto muro mac­chiato dai muschi e segnato dal­l'umidità.
Sulla destra, unica, c'era una porta a due ante sganghe­rata oltre la quale, ora, s'avvertiva chiaro e distinto il pulsare della macchina.
Fosca aprì la porta.
La luce della lampadina d'un modesto e datato lampa­dario a piatto lo ferì negli occhi, la zaffata d'una mi­stura di inchiostri ed olii aggredì il suo olfatto e, dopo lo spettrale silenzio delle case, il clangore futurista della macchina lo frastornò.
Il movimento - manierato come una citazione - di leve, volani, pistoni e martinetti aveva un potere quasi ip­notico che trasmet­teva una sensazione di possente vi­talità animale, quasi che la bestia, risvegliata dalla po­tente magia d'un mago, stesse per le­varsi "d'undici cubiti e non meno l'ombra misurando".
Si riscosse.
La macchina occupava buona parte dello spazio, ac­cresciuta dal basso soffitto a volta spruzzato di calcina bianca. Era nera, percorsa dalle cromature e dagli ac­ciai in un insieme che ricor­dava il liberty delle stazioni della linea "1" della metropolita­na parigina.
Dietro quell'esempio di modernariato intravvide Lo­dovico su di un alto banchetto, era intento al lavoro di fronte ad un massiccio e scheggiato tavolo da compo­sizione.
Era curvo. Le dita annerite dal piombo correvano si­cure a cavare i caratteri mobili dalle casse per allinearli - dopo averli sag­giati per individuarne la tacca e quindi per stabilirne il verso - a formare la riga sul compositoio. Guardò il foglio spiegazzato che teneva sul banco per verificare l'esattezza della composizio­ne, quindi trasferì la linea appena composta nel vantaggio lì vi­cino. Con una pinza ritoccò l'allineamento di qual­che carattere spostatosi nel trasferimento e prese a la­vorare su una nuova ri­ga. Si fermò dubbioso, prese quindi un tipometro e verificò le misure della compo­sizione in via di facimento sul vantaggio, quindi rassi­curato riprese ad allinear caratteri.
Non aveva dato segno d'essersi avveduto della loro presenza.
D'improvviso s'alzò e voltandosi verso la macchina li vide. Per una frazione d'attimo sembrò arrestarsi. Poi il volto teso e sporco s'orientò alla macchina. La mano destra artigliò un volano imprimendogli un quarto di giro, mentre la sinistra agiva su di una lunga leva ver­niciata di nero. Quindi si volse ancora e da un angolo al suolo raccolse un largo barattolo metallico privo di coperchio al cui interno era immersa una spatola me­tallica dall'impugnatura in legno. La macchina emet­teva un suono ora più continuo e Luca s'avvide che Lodovico aveva interrotto il flusso della carta. Il tipo­grafo era salito su di un rozzo sgabello di legno ed ora spalmava sui rulli inchiostratori, con sicuro e do­sato gesto, il denso e nero inchiostro del barattolo. Ripose in­fine la spatola e tornò ad agire prima sul volano e poi sulla le­va. La macchina riprese a macinar la carta e Lodovico ne verificò il prodotto, lo sguardo attento, la lingua, lenta, a traghettar sull'arco delle labbra.
Finalmente, volse lo sguardo a loro.
- Il nostro amico vuole dare un'occhiata alla tua bot­tega - spiegò Fosca.
L'uomo lo fisso con quello sguardo penetrante che già conosceva; quindi sorrise mostrando i denti giallastri:
- Vieni - gli disse e presolo per il braccio lo tirò dietro di sé.
Luca lo lasciò fare interdetto.
- Guarda - fece Lodovico mostrandogli il lavoro in al­lestimento sul banco. Quindi iniziò a tirar fuori le di­verse casse ed a mo­strargli i diversi tipi di caratteri e le diverse altezze delle lettere discettando con un tono stralunato dell' altezza e della forza di corpo, della funzione della spalla e poi di grazie, oc­chi ed aste. Gli mostrò la macchina e il suo funzionamento pas­sando, amorevole, un panno sulla sua carenatura.
Poi si fermò quasi dubbioso, si volse a scrutarlo nuo­vamente in viso e quindi disse, sollevando la mano di­nanzi al viso in un'e­spressione complice:
- Aspetta.
Luca si fermò e l'uomo s'avventurò sul retro del locale frugando in alcuni scatoloni.
Ne trasse dei fogli che portò a Luca.
Erano delle poesie, naturalmente, stampate con cura certosina su fogli di diversa grammatura e qualità.
- Che ve ne fate? - chiese Luca
L'uomo rise, una risata breve e soffocata, e quasi sal­tellando riportò nel nascondiglio i suoi tesori.
Luca guardò interdetto Fosca e Camillo. Lei sollevò le spalle in un chiaro gesto.
- Noi vaghiamo oltre la porta - disse il vecchio stra­buzzando gli occhi - perduti, come spore nel vento... Ma dentro, qui dentro! - e si batté il petto - arde ancora una brace del fuoco!... C'è speranza... c'è ancora spe­ranza.
Ci fu un lungo attimo di silenzio colorato dalla co­lonna sonora della macchina, quindi il vecchio riprese quasi ragionevole:
- Anche se verremo calpestati, noi dobbiamo segnare la strada. Anche se si prenderanno gioco di noi... an­che se ci malediranno...
- Perché? - la voce fredda e tagliente di Camillo squarciò l'a­ria.
- Perché la nostra ostinazione vincerà.
- Vecchio pazzo! - gli inveì contro Camillo - Ma non ti accorgi d'essere uno strumento di morte, tu e la tua macchina odiosa?!... Credi forse che i milioni di poemi più grandi della Commedia che gli uomini hanno perduto siano meno importanti solo perché nes­sun sudicio stampatore li ha involgariti, insozzati con i suoi in­chiostri? ... Ci sono tutti, lì, stampati nella co­scienza degli uomini e sono la loro grandezza e la loro disperazione... Tu servi la memoria, Lodovico, e la memoria è uno strumento di mor­te.
Lodovico non rispose, s'era voltato ed era tornato al lavoro.
Luca era dispiaciuto per il vecchio e d'altra parte non si senti­va di condividere quella sorta d'estremismo pu­ritano che Camillo argomentava. Non fosse altro che per il fatto di non avere nulla in contrario ad un'ipote­tica pubblicazione dei suoi lavori, quan­tomeno per la soddisfazione d'una pur sempre sana vanità.
Fosca li condusse fuori della stamperia e in quattro passi furono di nuovo nella piazzetta della Luna Nuova.
Benché gli avventori fossero mutati, il locale era an­cora fre­quentato da un discreto numero di persone.
Si sedettero ad un tavolo nei pressi del camino e ordi­narono a Edoro una grappa.
- Credo di aver capito - iniziò Luca.
Camillo lo guardava imperscrutabile.
- E d'altra parte le parole di Gaudenzio sono state rive­latrici - continuò a disagio cercando un cenno di as­senso - la pubblicazio­ne e cioè una qualunque forma di compromissione con la società reale e materiale, in un certo qual modo un'attualizzazione del proprio la­voro poetico, costituirebbe una contaminazione irrepa­rabile. Una degradazione a merce della poesia, cioè del linguag­gio simbolico che discende direttamente dalle metafore oniriche della morte. Nei suoni che danno un nome alle cose c'è l'alfa e l'omega, c'è la co­noscenza della morte...
Come suol dirsi s'era "impiccato nelle parole".
Camillo non sembrava intenzionato ad aiutarlo, mentre Fosca sem­brava quasi non ascoltare.
- ... per cui...
Fortunatamente Edoro portò le grappe e Luca ebbe modo di riordi­nare le idee.
- Cos'è la vita? - gli chiese, senza alzare gli occhi dal bic­chiere, Camillo.
- La vita? - rispose guadagnando tempo Luca.
- Si, la vita.
Non gli venivano che risposte banali.
- Un assedio del nulla - si rispose da solo Camillo - Un gioco tragico e inutile, fatto di disperazione, che costi­tuisce comun­que l'unica possibilità di felicità che ab­biamo a disposizione.
- Siamo messi male, eh? - tentò di scherzare Luca.
- Siamo tutti intossicati dal Tempo e dalle mille idiozie co­struite intorno dalla Storia... La poesia è un modo d'essere e un grimaldello da usare contro la porta chiusa, contro il muro.
- A che scopo? - chiese serio Luca.
- Perché colpendolo, quel muro, produciamo suoni impensati e pro­fumi inebrianti. Perché siamo ribelli dall'inesauribile rabbia e dalle dolcezze oscene.
- E che facciamo, allora, ora, qui?
Camillo alzò le spalle e non rispose.
Luca sorseggiò la sua grappa. Capiva quel che aveva detto Camillo e fondamentalmente lo condivideva, ma non dimeno provava una for­te solidarietà col vecchio Lodovico e col suo lavoro sudicio e concreto.
- Vuoi andare via? - Gli chiese Fosca
Un po' sorpreso s'esaminò. In effetti stava montando in lui una sorta di insofferenza.
- S'è fatto un po' tardi - disse - credo sia meglio che rientri.
Fosca gli carezzò il viso.
- Bhè - disse lui in imbarazzo - avremo modo di ve­derci.
- Non credo - disse lei sorridendo.
- Perché dici questo?
- Sei uno di quelli che alla Luna Nuova viene una sola volta.
- Cosa te lo fa pensare?
- Così - disse lei con un'alzata di spalle - Sono una strega.
- Allora vado - disse alzandosi in piedi.
- T'accompagno - fece Fosca - da che parte vai?
- Voglio passare alla bottega di Torquato - rispose esternando una subitanea idea.
Fosca sorrise.
Camillo s'alzò e gli offrì la mano in una stretta vigo­rosa e for­te, insospettata in quel corpo magro.
Uscì con Fosca.
Fecero in silenzio le poche decine di metri che li sepa­ravano dalla strana bottega. La luce filtrava sempre della vetrina.
Si fermarono a pochi metri guardandosi negli occhi. Lo baciò a fior di labbra.
- Now my charms are all o'erthrows, and what strength I have's mine own...
- Questa è la mia - le disse lui.
Lei annuì, invitando con un sorriso a recitare.
Fece uno sforzo di memoria:
- I miei incantesimi sono ora tutti spezzati e le uniche forze che mi restano sono le mie. E sono molto de­boli...
La guardò pensieroso.
Lei gli arruffò i capelli con le dita della mano.
- Fosca...
- Si?
Sapeva che avrebbe perso quest'ultima occasione.
- Sei meravigliosa.
Lei lo baciò appassionatamente.
Si avviò deciso alla porte della bottega.


V° INTERLUDIO

L'astro di Hepit abbandonò l'altipiano e le pelli d'ona­gro prese­ro a vibrare di frenetico fervore.
Il sangue degli Hitti - fino ad allora sciabordante - pul­sava, adesso, al ritmo dei tamburi. Polverosi, i piedi nudi battevano la danza delle giovani sacre alla dea - i seni sudati già d'ecci­tazione - i volti dipinti alla luce ondeggiante delle fiamme.
L'eco di bronzo dalla soglia del tempio agghiacciò la sera.
Rivoli d'oscure vibrazioni scesero giù dal terrapieno ghignando terrifici richiami.
Pitoshimeni, grande sacerdotessa e vacca della dea, venne alla luce con le grandi mammelle, venne alla luce - le braccia levate in magnanimo saluto - ondeg­giando l'instancabile matrice.
Telipinush veniva dietro - il signore di Khatti - grande della spada e della lancia, forte del triplice scudo.
Khatti levò allora il suo grido di giubilo.
Alla piccola torre senza luce la porta d'occidente venne schiusa.
Brani di mattoni e di fetore ritrassero la folla.
Carshimeni, la vecchia dalle orbite vacue, varcò sicura quella soglia oscura, fu nella casa del piccolo re.
Solo il pulsare cupo dei tamburi sembrava ora turbare il silenzio della sera, mentre le fiamme rizzate sulle fiaccole s'agitavano smaniose.
Poi che l'ebbe terso, Carshimeni tornò alla luce con un gesto im­perioso - che l'alterigia della cecità sembrava rivolgesse al cielo - a reclamar soccorso.
Distillata al fuoco della casa di Kaish, piccola e lu­cente della sua luce fosca, la maschera passò di mano in mano fino alla vec­chia e con lei all'interno.
Nessuno vide la piccola figura macilenta, barcollare spintonata, fino alla luce abbacinante delle torce.
Il capo chinato sulla terra, la fronte sudata nella pol­vere, gli Hitti rispettarono l'antico tabù.
Di pelli di montone lo coprì la vecchia - levitato dalle braccia dei guerrieri sulla polvere materna - volto im­perscrutabile e fulgente.
E Carshimeni levò alto e strozzato il grido e gli occhi si leva­rono, avidi, alla caccia.
Come la voce di Teshup nell'algore notturno dell'in­verno, così l'ondeggiare degli Hitti prese a montare inesorabile. I ventri ondeggianti delle sacre alla dea si protendevano in una lubrica offerta al ritmo accelerato dei tamburi, mentre volti scolpiti dall'eccitazione face­vano da scolta alle due fila di torce arden­ti.
La portantina prese a navigare nel mare delle alte grida: le sup­pliche alla dea si levarono rincorrendosi e gareggiando in fervo­re. E s'avanzò, gli occhi anneb­biati dal fumo delle torce, per il labirinto putido dei tuguri, giù a ricercare la porta ad occiden­te, anelando la libertà dell'altipiano.
Teshup li irrise col fiato sottile della notte.
Serrarono le fila sorpresi d'inconsapevole sgomento: soli d'ine­sorabile solitudine ...
La macchia più scura ad occidente li guidò.
La luna non avrebbe donato una falce sottile di spe­ranza in quel­la notte, il buio, terrifico e impenetrabile, onorava la dea.
E quando furono tra le scheletriche braccia del sacro luogo, la voce terribile si levò improvvisa.
Bassa e profonda, pulsante d'oscure vibrazioni, levava lunghi e disperati richiami alla notte frantumando gli echi al suono del numinoso metallo.
La folla si serrò scrutando il buio, mentre i guerrieri saggiava­no la rassicurante impugnatura delle loro armi.
Ecco nei pressi i demoni notturni dei canneti e non di­scosti i sonagli vibranti dei defunti ... alte e irridenti le risa delle silfidi.
E col sollievo dei più uscirono dal bosco nella piana dei campi.
Calda, la fiamma dei bracieri irrorava di luce la collina e la livida lastra di pietra sui macigni.
Alta e sfrontata, nel tenue lucore del cielo, l'ombra di Kaish osservava dal colle vicino.
E venne posto riverso sulla lastra e i guerrieri fuggi­rono nel piano e le giovani danzavano frenetiche e gli Hitti sudavano l'attesa.
Alto e assordante era il tuono dei tamburi quando Pi­toshimeni, nella sua veste di rete dalle larghe trame, sollevò alto un affi­lato pugnale stringendolo a due mani, lo mostrò agli Hitti mormo­rando invocazioni alla dea e, voltandosi, vibrò secca un colpo al cuore del ragazzo che sussultò appena.
L'orrida eccitazione esplose in un grido.
La gran sacerdotessa si volse e impose le mani insan­guinate sul volto di Telipinush. Questi lasciò cadere le armi del gran guer­riero e, afferrata brutalmente la donna, la distese.
Lei muoveva il bacino lasciva ed egli si strinse con la mano il membro eccitato, spingendo in avanti il ba­cino.
Lei aprì le cosce e lui la penetrò.
Quando il suo paredro giunse all'orgasmo inondandola del suo se­me, la gran sacerdotessa afferrò il pene e i testicoli evirati da una vecchia sul corpo del piccolo re e, agitando la mano, asperse il terreno del sangue che le colava sul braccio.
Mentre calava la divina lussuria, Hattushimeni si volse in cerca di Kaish.


CAPITOLO XV

Ho ricevuto la vita come una ferita, e ho proi­bito al suicidio di sanare la cicatrice.
Voglio che il creatore ne contempli, ad ogni ora della sua eter­nità, il crepaccio spalan­cato. Questo è il castigo che gl'inflig­go.
Isidore Ducasse conte di Lautréamont



Il negozio era al momento deserto.
Luca si schiarì rumorosamente la voce nel tentativo di attirare l'attenzione del vecchio Torquato, che giudicò essere probabil­mente nel retrobottega.
Si guardò intorno assaporando la sensazione nuova che provava ri­spetto alla sua precedente visita.
Come del resto gli aveva predetto il bottegaio, adesso era in cerca di qualcosa, non avrebbe saputo dire cosa, ma aveva l'inti­ma convinzione che avrebbe ricono­sciuto quel qualcosa non appena l'avesse visto.
Quasi ad ingannare l'attesa, si mise a passare in rasse­gna i ri­piani degli scaffali. Le ampolle erano molto belle e affascinanti nella loro fragilità, nell'impalpabi­lità del loro contenuto, ete­ree e squillanti allo stesso tempo, fatue e lancinanti. Ripensò a Fosca e alla sua essenza viva come una lingua di fiamma, alla sua su­blime leggerezza.
Provò un brivido di tenerezza ma sentì che quel genere d'essenza non gli apparteneva.
Le bottigline con i loro liquidi gli ricordarono Alberto, percor­so da possenti correnti sottomarine che lascia­vano affiorare in superficie la sola citazione delle onde. Un magma vitale, un bro­do generatore capace di assoluti languori e tempeste esiziali.
No, anche quel genere non era il suo.
Il bestiario delle terracotte rossicce gli ricordò quanto avvenu­to sull'acropoli all'ombra della grande porta a sesto acuto. Ne sfiorò coi polpastrelli della mano qual­cuna come temendo di ve­nirne scottato. Erano fredde e tranquille, all'apparenza vuote.
Pensò alla fiamma cauterizzante che, incessante, sca­vava loro le interiora, ardente e bruciante di passioni irragionevoli e magi­che, sempre in bilico sul baratro dell'assoluto.
Non riconobbe la sua.
Si guardò intorno incerto.
C'erano ancora le scatoline di porcellana. Ridondanti frammenti del primo settecento; imbarazzanti abbina­menti capodimontiani; nipponiche purezze colorate; lugubri e candidi sarcofaghi in mi­niatura.
Una, in particolare lo colpì: non lucida ma setata, era a forma di baule; minuta e cesellata con una cura straordinaria, riprodu­ceva, senza assecondare la pac­chiana levigatezza del materiale, quei forzieri sempre presenti nelle storie di pirati ed immanca­bili nel ventre sommerso degli antichi galeoni.
Anche i colori del legno e delle bordature metalliche erano ri­prodotti con accuratezza e Luca non poté trat­tenersi dal prender­la in mano.
Con cura, quasi con circospezione, sollevò il coper­chio facendolo girare sui minuscoli cardini. Nella sca­tola, foderata all'interno d'un raso rosso, c'era una pol­vere nera, minuscola e cristallina allo stesso tempo, dai microscopici grani lucidi, percepibili al tatto. Nel de­sueto gesto degli sniffatori di tabacco, prelevò tra l'indice ed il pollice una presa della polvere "assaporandola" nella lenta rotazione delle dita. Era pesante, quasi greve; dura e pulita, quasi abrasiva. Mi­croscopici graniti divoratori di luce buoni ad inceppare i più oliati manovellismi.
Ghignò: era lei.
- Allora, ha trovato quello che cercava?
Il vecchio Torquato lo aveva sorpreso alle spalle.
- Credo di si - rispose Luca.
- Una bellissima terra - commentò affabile l'altro.
- Già - rispose Luca pensando al prezzo.
- Si è trovato bene alla Luna Nuova? - s'informò cor­tese il vec­chio.
- Molto - rispose profondamente sincero Luca.
- Ci tornerà?
La domanda gli riportò alla mente quel che gli aveva detto Fosca uscendo dall'osteria e s'interrogò in cerca di risposta.
- Non so ancora... Forse no.
Torquato annuì comprensivo.
- Cosa le debbo?
Sorrise alzando leggermente le spalle.
Luca soppesò la scatola nella mano cercando di dare corpo alla lieve sensazione che avvertiva appena.
- Vuole un ciondolo? - chiese Torquato e al suo sguardo interro­gativo spiegò - per averne sempre un po' con lei.
Vistolo interdetto, l'invitò con un gesto della mano e un'espres­sione rassicurante ad attendere e dopo essere andato all'etagère, ne tornò con un espositore in legno scuro foderato di raso rosso su cui erano allineati ordi­natamente ciondoli d'argento, piccoli e massicci.
Il metallo arrendevole si presentava nelle più svariate fogge ri­chiamanti oggetti, animali e particolari co­munque definiti e ri­conoscibili, mentre non v'erano giochi e raffigurazioni geometri­che o comunque astratte. Sottili catenelle imprigionavano le fi­gure sve­landone la funzione.
Osservando più per cortesia che per altro il campiona­rio, fu in­curiosito dalla bulinatura d'un occhio dalla resa particolarmente realistica. Non avrebbe saputo dire se quella fosse la rappresen­tazione d'un occhio destro o sinistro e cercando di comprenderne la ra­gione si accorse che nella minuziosa riproduzione era stata omessa la localizzazione della caruncola lacri­male ottenendo una figura perfettamente simmetrica.
Curiosamente si senti osservato: se non fosse stata per quell'i­ride incolore, avrebbe detto che il vuoto e oscuro precipizio di quella pupilla precipitasse la sua immagine in misteriose circon­voluzioni cerebrali.
Sfiorò con le dita l'inquietante oggettino.
Torquato annuì soddisfatto.
- Vuole provarlo?
- Provarlo? - rispose, non comprendendo, Luca.
Il perpetuo sorriso di Torquato s'allargò ulteriormente. Il vec­chio prese delicatamente il ciondolo e lo posò capovolto sul ban­co su di un morbido feltro verde. Circumnavigò il banco ed aprì un cassetto escluso alla vista di Luca estraendovi una bassa cas­settina di legno chiaro dalle forti venature verticali. Aprì la cassettina facendone ruotare il coperchio sui piccoli cardini do­rati e ne estrasse una pinzetta, del tipo di quelle da beauty-ca­se, dalle punte minuscole, ed una lente da ar­gentiere, che uti­lizzò con l'occhio destro serrandola tra lo zigomo ed il soprac­ciglio, dopo aver lasciato sul banco i suoi occhialini da lettu­ra. Con circospezione utilizzò le pinzette per aprire uno spor­tellino sul fondo del ciondolo praticamente invisibile ad occhio nudo nella sua perfetta mimetizzazione.
- Mi dia un attimo la sua scatola - disse allora Tor­quato a Luca protendendo la mano sinistra.
Incuriosito ubbidì.
Torquato aprì il piccolo forziere e dal suo minuscolo porta-at­trezzi estrasse un cucchiaino a cuore, concavo e dalla punta troncata con la sezione a semicerchio. Con estrema attenzione prelevò una piccola quantità della polvere nera e la travasò nel ciondolo. Soppesò il risultato dell'operazione e prelevò un ulte­riore, più piccolo quantitativo di sostanza lasciandolo scivolare nel prezioso occhio. Ripulì quindi il cucchiaino avendo cura che anche la più piccola frazione di pol­vere venisse recuperata nella sua scatola e, aiutandosi con la pinzetta, richiuse lo sportelli­no del ciondolo.
- Prego - disse, invitando con un gesto Luca a prendere l'occhio.
Questi prese tra le dita l'oggettino e lo voltò.
Quasi gli cadde di mano.
L'effetto era sconvolgente: un occhio, dall'iride d'un nero scin­tillante, lo scrutava freddo e profondo, in­quietantemente vivo.
- Allora, che dice?
- Terribile.
- All'inizio. Poi si fa l'abitudine.
- Sembra vivo.
- I nostri argentieri sono veri maestri
La risoluzione gli venne spontaneamente:
- Lo prendo.
- Bene.
Il vecchio l'aiutò a chiudere la catenella intorno al collo, quindi Luca infilò il cofanetto nella tasca destra del giaccone.
Guardò Torquato - sorrideva - infilò la mano nella ta­sca interna e tirò fuori il portafoglio. Prese nelle mani un biglietto da centomila e, con chiara la sensazione d'un semplice gesto ritua­le, l'offrì al vecchio che as­sentì prendendolo.
Era altra la contropartita, lo sentiva.
- Allora la ringrazio - disse avviandosi all'uscita.
Torquato lo precedette ossequioso aprendogli la porta.
- Arrivederci.
- Addio - rispose l'altro in un sorriso cortese.
S'avviò per la discesa non riuscendo a trattenere uno sguardo al­le spalle, che gli rimandò un saluto della mano di Torquato.
Dopo le ombre e le penombre della sua avventura la luce che, a cono, forzava i limiti fissati dall'arco sotto il ballatoio, gli parve fantasmagorica.
Accelerò quasi impercettibilmente il passo, come av­vertisse d'im­provviso d'essere braccato e, superando quella sorta di confine, ebbe la sensazione di penetrare in un impalpabile diaframma.
Si fermò oltre l'arco scaricando il peso su quella sorta di ba­laustra che fungeva da parapetto e si volse ad os­servare l'oscu­rità da cui era uscito.
Curiosamente pensò d'aver scelto la porta incongrua, che come il Kessi della storia di Camillo avrebbe do­vuto "tornare al mondo" per l'altra porta, su, all'acro­poli, per la porta del mattino; e non tornare per le vi­scere degli inferi da dove era entrato.
Sorrise, poco convinto degli affastellamenti dei po­stumi di quel­la che era stata una sorta di immersione totale, con le sue paure inconsce. Aveva bisogno d'una boccata di normalità, di solido, tranquillo squallore. S'avviò con passo deciso confidando nella direzione delle discese.
Arrivò rapidamente al baretto. Un auto della Polizia che svoglia­ta ruminava la strada fu un primo tangibile sintomo.
Ritrovò - quasi sorpreso - l'auto dove ricordava d'averla par­cheggiata, armeggiò insolitamente impac­ciato sulla portiera, salì in macchina e con una sonora "grattata" partì veloce.


CAPITOLO XVI

L'arte deperisce facilmente bambina mia / se l'artista cede / si fa forviare / se cede anche un solo istante / Non cedere bambina mia / non cedere / Sopportare il dileggio / la deri­sione / Per trent'anni sono stato dileggiato / e deriso a Dinkelsbühl / L'ho perduto / il tele­gramma / il documento la prova / Fare il Lear / per il bicentenario / a Flensburg / Improvvi­samente ci votiamo / a un'idea / e perse­guiamo quest'idea / e non possiamo nemmeno far altro / che perseguire quest'idea / Senti la tempesta / Tutta la costa infuria / come infu­ria la costa / la costa infuria / Osten­da nella tempesta di neve bambina mia.
Minetti attore drammatico


Scendeva per la parte vecchia della città nuova, in quella ch'era stata una periferia "fuori le mura" a ca­vallo tra le due guerre e che ora, senza mai essere as­surta a qualcosa di più d'un utile, quanto squallido dormitorio, s'andava sgretolando ingrigita dallo smog, vecchia, senza il blasone dell'antichità.
Le facciate dei palazzi a quattro o cinque piani s'af­facciavano anonime sulla strada sporca e sull'asfalto rappezzato nella geo­grafia di perenni lavori e provvi­sori rattoppi.
Il senso di squallore veniva ancor più accentuato dalle immondi­zie, traboccanti dai cassonetti del servizio della nettezza urba­na, in attesa del compattatore che sarebbe giunto solo alle prime luci dell'alba nel suo giro quotidiano.
Giunto all'altezza dell'Arcobaleno, un insolito movi­mento attirò la sua attenzione.
L'Arcobaleno era un cinema - o meglio, un "pidocchietto", come lo definiva il colorito gergo po­polare - d'epoca. Era una sorta di paradossale testi­monianza dei fasti e del fulgore cui in passato era as­surta la celluloide.
L'edificio, tozzo e sgraziato, d'una ruvida pittura se­nape, s'a­priva sul fronte in una pensilina semicircolare in muratura su cui campeggiavano, tronfie e altiso­nanti, le lettere del nome.
L'insegna in realtà s'era accesa per l'ultima volta una trentina d'anni prima, quando cioè la televisione aveva cominciato ad im­porsi seminando la sua marcia dei cadaveri dei suoi predecessori.
La privatizzazione dell'intrattenimento, oltre a svuotare le piazze e le vie nelle ore serali, aveva via via tolto il gusto per le grandi immagini e per l'avanspettacolo delle procaci ed impacciate ballerine rotondette. Le luci s'erano allora spente - non solo metaforicamente - sul piccolo palcoscenico, oscurando così anche gli an­tichi pruriti filodrammatici dei giovani "ispi­rati" d'un tempo e la loro naturalistica, quanto ingenua, ripro­posizione di edificanti e noiosi polpettoni borghesi.
Quando un decennio dopo, anche grazie all'omologa­zione generata dalla grande nemica, la TV, era nata una nuova generazione di teatranti - quasi fosse una germinazione spontanea -, perduta o­gni radice sia nelle guitterie delle scalcinate compagnie di giro d'un tempo e sia nei sacrali pruriti studenteschi, l'intellettua­listica adesione ad autoproclamatesi avanguardie metropoli­tane aveva portato i nuovi interpreti ad aborrire la pol­vere del pal­coscenico lasciando alla trama delle ragna­tele il luogo.
Era stata la generazione successiva, quella di Luca, a riannodare i fili d'un rapporto col territorio. D'origine politica prima an­cora che culturale, l'occupazione del­l'Arcobaleno era stata una dei pochi bagliori che ave­vano illuminato l'epoca della sovver­sione nella citta­dina. Assemblee, dibattiti, concerti, cineforum e fi­nalmente prove e furori creativi dei gruppi di base, avevano ridato al luogo una funzione solo momenta­neamente sospesa dallo sgombero forzato della Poli­zia.
Quando la stagione dell'impegno s'era esaurita, infatti, l'Arco­baleno aveva continuato - adesso struttura co­munale - ad essere la sede dei gruppi teatrali soprav­vissuti.
Piccole compagnie nella penombra della legalità, che conservavano formalmente una struttura amatoriale pur possedendo un'ambizione professionale; o meglio, su d'un impianto strutturale e ammini­strativo dilettanti­stico, su d'un organico attoriale spesso ap­prossimativo, s'innalzavano elaborazioni e livelli di consapevo­lezza degni di miglior sorte che non quella d'attendere il fi­nan­ziamento dell'Ente locale e d'esaurirsi nel breve arco geografico delle provincia.
Le vecchie porte a vetrata erano aperte, tenute da due alte strutture in legno che avevano l'aria di essere ele­menti d'una scenografia.
Un furgone cabinato, bianco, sulla cui fiancata cam­peggiavano, nere, le serigrafie sghimbesce delle ma­schere tragiche e comiche della Grecia, era parcheg­giato di traverso - unica spina d'un'i­potetica lisca - di­nanzi all'ingresso, col grande portellone spa­lancato. Un andirivieni frettoloso ne alleggeriva progressiva­men­te il carico.
Parcheggiò l'auto poco più avanti sull'altro lato della strada.
Un giovane alto e dai capelli accuratamente pettinati all'indie­tro si fermò scrutandolo in un lieve preallarme.
Luca scese dalla macchina e sorrise in un gesto rassi­curante.
L'altro lo riconobbe e si rilassò
- Buona sera. Come mai da queste parti?
Il tono cortese e tranquillamente deferente lo infastidì legger­mente: con quell'approccio l'altro aveva - insen­sibilmente ed in­nocentemente - escluso ogni compli­cità tra loro.
Si chiese la ragione di quel fastidio e quali recondite aspetta­tive avesse inconsciamente riposto in quel ca­suale ed inatteso incontro.
Erano trascorsi - quasi inavvertitamente - anni da quando egli aveva appeso la "biacca" al chiodo per in­confessata stanchezza e deluso rancore. Quando le belle speranze s'andavano mutando nella grottesca supponenza del piccolo notabile di provincia, aveva av­vertito più dignitoso scivolare oltre la quinta affi­dando ai se­gnali della penna le sue residue ambizioni.
Nulla di strano, pertanto, che l'altro non l'includesse tra i membri della sua tribù. Ciò non di meno egli - specie in quella sera - non s'avvertiva estraneo sulla soglia di quel luogo
- Passavo - rispose - Avete fatto uno spettacolo?
- Si, a Castelfranco. Il Berretto a sonagli.
- Ah - fece Luca reprimendo un moto di fastidio - Giampiero è dentro?
- Si
Con un cenno di saluto s'avviò all'interno. Superato velocemente il ridotto dal grosso bancone in legno della vecchia biglietteria e dalle locandine incombenti su vecchie file di poltroncine se­gnate e sbeccate, si infilò nella sala illuminata dalle sole luci di servizio del palco.
Lassù i componenti della compagnia andavano am­mucchiando le mas­serizie dell'illusione scenica mentre Giampiero discuteva in un angolo con un'attrice.
Qualche rapido saluto attirò la sua attenzione.
- Luca! - e teatralmente gli volse incontro a braccia aperte - Che bella sorpresa!
Luca rispose all'abbraccio con divertito imbarazzo: valutava con indulgenza la gigionesca cialtroneria che inavvertitamente ed i­nevitabilmente sembrava afflig­gere i teatranti - quali che fosse­ro le loro speranze e realtà - quasi fosse uno scotto dovuto a quell'insolito mestiere.
- Come va? - chiese Luca.
Giampiero ebbe un attimo d'esitazione. Poi, sotto la lente defor­mante d'un "fare" quotidiano, Luca fu sommerso dalle notizie dei successi e delle mirabolanti previsioni d'un prossimo futuro.
Sbirciò lì intorno, nel retropalco di quel rutilante pro­scenio, svelando l'illusione. Si sentì triste.
- Bhè, allora, quando ti decidi a tornare?
- A che scopo? - rispose con un mezzo sorriso sulle labbra.
- In che senso? - rimandò l'altro sinceramente sorpreso.
Fece un ampio gesto ad abbracciare il luogo in un im­potente si­lenzio.
- Che ti prende, è successo qualcosa?
Stirò la mente in un esercizio ginnico. Era a un "dunque", per lui, soggettivamente importante.
Non aveva avuto né modo né tempo per assimilare la caterva di in­tuizioni, emozioni e sensazioni che l'aveva sommerso in quella magica notte ed alla fine si lasciò parlare, affidandosi ad un ipotetico filo, nella speranza che lo conducesse oltre la porta del suo labirinto.
- Parliamoci chiaro - disse - A quarantanni uno inizia a chieder­si che fine faccia il suo tempo.
- Non hai più voglia di giocare? - chiese provocatorio l'altro.
- Non scherziamo - rispose duro - Perché il gioco è una cosa se­ria.
- E allora?
- A questo punto sappiamo bene tutt'e due chi e cosa siamo e dove possiamo arrivare.
- Sei un ottimo attore. Avresti potuto tranquillamente farlo a livello professionistico. Forse non saresti diven­tato un grande, per questo non basta essere bravi, ma t'assicuro che, con la ca­nea che va in giro, una parte non te l'avrebbe negata nessuno.
- Forse hai ragione, e forse no. Non abbiamo la con­troprova. Co­munque non l'ho fatto e questo è quello che conta. A proposito, hai saputo di Gianfranco?
- Chi, quella puttana?
- 'Sta sera era in TV.
- M'ha mollato con venti spettacoli già venduti... D'al­tra parte è così che si va avanti.
- E allora diciamo - così, tanto per gratificarci - che siamo ri­masti a starnazzare in questo pollaio perché siamo troppo puliti ... e forse è vero ... ma allora que­sto che significa? Forse che sporcarsi fa parte del gioco? Già, e allora, se le cose stanno così ... Ma forse, in realtà, abbiamo avuto semplicemente paura di ri­schiare veramente ... La questione comunque non cam­bia: noi non abbiamo giocato la partita ... e allora? A che gioco giochiamo?
- Mi fa male la testa. Che vuoi dire?
- Tutto questo casino, provare per mesi per fare, quando va bene, qualche decina di repliche in buchi dimenticati da dio, con l'as­sessore analfabeta che ti fa l'elemosina, senza pubblico, senza soldi e - Cristo - Pi­randello!
- Non ti è mai stato simpatico ...
- Neanche un pochino ... A che scopo, perché?
- Forse per esibizionismo - intervenne la giovane at­trice mora e dai grandi occhi scuri ch'era rimasta in si­lenzio ad ascoltarli - Forse per quella vertigine, quel senso di potenza che ti prende lì sul palco. Non ti ba­sta?
- No, non mi basta. Intendiamo, io amo i filodramma­tici e la loro impudicizia, la loro acrobatica perver­sione sul vuoto della timi­dezza, li amo come amo i professionisti, quelli che ci campano veramente, quelli che hanno sudato il pane e il companatico sulle tavole del teatro e dagli imperativi del loro ventre sono stati capaci di distillare mille tesori. Ma io ora, cerco altro.
- Noi facciamo cultura - tentò Giampiero - è impor­tante che sul territorio...
Luca rise quasi isterico interrompendolo.
- Cultura! Ma lo sai che cos'è la cultura, quella vera?
- Calma, eh!
- Che cos'è il teatro?
- Che vuoi dire?
- Cristo! Sono vent'anni che dici di fare teatro ma non ti ha mai sfiorato l'idea di chiederti cosa stessi real­mente facendo?!
- Senti amico - la voce di Giampiero, infastidito, s'era fatta dura - Probabilmente hai perso il senso della realtà. Noi qui non facciamo della filosofia, non ci in­terroghiamo sui massimi siste­mi. Si, forse ci mastur­biamo - ma concretamente - affrontando un pubblico e costruendo, da buoni artigiani, senza troppe pretese, da mastri, qualcosa che può essere più o meno buono, ma che c'è, esiste, a differenze delle tue masturbazioni mentali.
Luca cercava di seguire un suo pensiero.
- Perché, perché dopo tanti millenni, qualcuno può an­cora uscire di casa, fare semmai qualche decina di chilometri, pagare un bi­glietto e sedersi in una sco­moda poltroncina per assistere ad una mediocre rap­presentazione? Perché lo fa? Che cosa si aspetta?
- D'essere divertito o commosso - rispose l'attrice.
- Questo può farlo e meglio un film o la televisione, o anche un disco e al limite un quadro. No. Avete av­vertito quell'attimo che precede l'apertura d'un sipario? Le luci spente e gli ultimi, nervosi colpi di tosse?
- Allora?
- E' quella l'emozione che porta il pubblico in sala.
- E quando s'apre il sipario?
- Lì comincia il tradimento.
- Grazie della comprensione.
- Non scherzo. Il pubblico s'aspetta ancora il rituale magico della tribù, il rito propiziatorio dell'amore e della morte.
- Conosciamo la tua chiave antropologica - lo inter­ruppe esaspe­rato Giampiero.
- Il teatro è ancora una porta, la porta di bronzo sul mondo dei morti. E' la porta di Kessi.
- Di chi?
- Non importa. Noi dobbiamo forzare quella porta per il nostro pubblico. Lasciargli sbirciare le larve dei morti alla luce della lanterna del dio Sole.
- Ti senti male? - gli fece ironico Giampiero.
- Levarsi di undici cubiti e non meno ... conoscere il nome di­sperante della Morte.
- Sarà meglio che tu vada a casa.
- Perché? Non sono mai stato così lucido ... Vale la pena.
- Di che?
- Ora so lo scopo. Giampiero, ricomincio a fare teatro.
- Sono contento.
- Domani ne parliamo seriamente, devo mettere bene a fuoco qual­che idea.
L'altro lo guardava sconcertato.
- E' che ora ho chiaro un senso, una ragione.
Salutò con un gesto pensieroso il capannello che s'era andato formando intorno a loro e s'avviò all'uscita.
I pensieri gli vorticavano veloci e non riusciva a fis­sarli nella mente.


CAPITOLO XVII

Il mito è il pensiero sognante di un popolo, come il sogno è il mito dell'individuo.
J. Harrison



La notte era fonda con le sue cristalline limpidezze.
Ripensò a Gaudenzio comprendendo i suoi inferi ed avvertendo che, se avesse lasciato che i primi raggi del sole soffondessero il loro brumoso velo, si sarebbe spezzato il filo che lo guidava e si sarebbe perso nelle umidicce volute del suo labirinto.
Imprecò, battendo la mano sul volante, folgorato da un'idea: ora comprendeva quell'ossessivo richiamo alla Tempesta di Fosca, ora sentiva d'essere in effetti Pro­spero esiliato su quell'isola, ma d'avere in pegno il dominio sugli spiriti dell'aria. Di poter tornare alla sua Milano o di non esservisi mai allontanato ...
Sorrise divertito e con la mano strinse il ciondolo rice­vendone una sensazione di potenza.
- I miei incantesimi sono ora tutti spezzati e le uniche forze che mi restano sono le mie. E sono molto deboli - sussurrò - Ora, è vero, io debbo restare esiliato qui o essere inviato a Napoli. Visto che ho ripreso il mio ducato e perdonato il traditore, non vogliate che io re­sti confinato su questa nuda isola per un vo­stro incan­tamento ...
Si, non aveva chiari tutti i passaggi, ma poco gli im­portava.
Capitò dinanzi alla stazione ferroviaria.
Era poca cosa: in sorte collocata su di una linea secon­daria e­stranea ai collegamenti intermetropolitani, era un monumento al dispregio dello Stato per le legioni semitiche - leggi ebrei er­ranti - dei pendolari, popolo sorteggiato - più che eletto - da dio per una preventiva punizione dantesca.
Il luogo possedeva comunque l'attrattiva dell'unico bar con ri­vendita di tabacchi aperto di notte nell'intera cit­tadina e Luca decise di prendere un caffè.
Dinanzi all'ingresso sostava un'auto della Polizia, men­tre all'interno lo sciatto barista grugnì più che rispon­dere alla sua richiesta.
Sorseggiando il caffè si guardò intorno. Una prostituta tollerata tollerava gli assonnati uomini in divisa che stavano acquistando delle sigarette, mentre due "perdinotte" osservavano, torvi, con i bicchieri stretti nelle mani.
L'atmosfera di latente violenza gli provocò una leggera nausea, per un attimo e per la prima volta nella noiosa tranquillità del­la provincia, sentì il riverbero d'una sorta di pericolo.
Pagò e raggiunse la zona dei binari andando a disse­tarsi allo zampillo della fontanella.
Rialzando la testa vide all'estremità della pensilina, addossato al pilastro che gli faceva ombra, un barbone dormire raggomitola­to in posizione fetale su di un letto di cartoni.
Anche questo l'angosciò.
L'euforia che l'aveva sostenuto vacillò.
Ripensò al gesto disperato di Alberto, alla sua fru­strante sensa­zione d'inutilità, all'incendiaria intransi­genza di Camillo ... pensò alla sua torbida pochezza.
Risalì in macchina e si avviò verso casa.
Il condominio era avvolto nel più assoluto silenzio. Con estrema attenzione sollevò la porta basculante del garage per ridurre al minimo il rumore e parcheggiò l'auto.
Un gatto addormentato sullo zerbino del portone ar­ruffò il pelo e s'allontanò sdegnoso. Fece le scale evi­tando l'ascensore. Infilò la chiave nella toppa con estrema cautela e aprì la porta.
Dalla camera da letto proveniva il riverbero d'una luce fredda. Si tolse il giaccone lasciandolo sul divano della sala e raggiun­se la camera. Giorgia e Lucrezia s'erano addormentate sul lettone e la TV, terminate le tra­smissioni della stazione sintonizzata, trasmetteva le impurità elettromagnetiche dell'etere.
Con dolcezza, sussurrandole parole rassicuranti, prese in braccio Lucrezia e la portò nel suo lettino nella stanza di fronte, quin­di spense la televisione.
A tentoni raggiunse lo studio e, chiusa la porta, accese la lam­pada.
Questa volta ignorò gli amati libri e si diresse alla pic­cola scrivania in legno nero satinato.
Su di questa da oltre un anno s'era andato insediando, moderno totem, un personal computer.
Luca aveva, dapprima con distacco sussiegoso e quindi con insof­ferenza, assistito alla comparsa pro­rompente del nuovo strumento sulle scene e nelle case di amici e conoscenti.
Come suo costume aveva mantenuto un atteggiamento positivo nella circostanza, attribuendo un valore neutro al mezzo ed uno negati­vo all'uso dello stesso.
Testimone delle limitate possibilità dei primi personal, li aveva liquidati come un pur utile strumento ludico dalle proprietà pro­pedeutiche per ben più rivoluziona­rie innovazioni tecnologiche ancora di là da venire, as­solvendosi così dal proprio impaccio.
Con un atteggiamento più che diffuso s'era lasciato in­timorire, infatti, da quella ch'era una sorta d'ignoto - come fossero gli spiriti della macchina a vapore - ri­nunciando a conoscere per ti­more di non capire.
Poi, quasi d'improvviso, s'era sentito vecchio, anche per quel­lo: scaricato - come in una vecchia inquadra­tura d'Arizona - su di una strada polverosa di campa­gna, dalla sobbalzante corriera della storia.
In ufficio era stato iniziato da un collega.
L'occasione era stata la necessità di accelerare i tempi di con­segna delle sue critiche teatrali per un periodico locale che gli aveva proposto di passare in tipografia i pezzi direttamente su dischetto.
Non s'era lasciata sfuggire l'occasione e, chiedendo a gran voce le semplici istruzioni per un uso biecamente occasionale ed o­stentatamente analfabeta della mac­china, s'era accostato circo­spetto alla tastiera.
All'inizio era solo un programma di video-scrittura - quello uti­le per il lavoro della tipografia - ma fu suffi­ciente. Benché non fosse un fulmine di guerra né l'in­formatica sarebbe mai stata la sua materia, con sol­lievo ben presto si scoprì tranquillo naviga­tore tra mi­croprocessori e memorie ram, culture di piccoli pro­grammini grafici e sussiegoso interprete di giochi di ruolo.
Dopo qualche tempo, facendo leva sull'arrendevolezza di Giorgia, finì, su consiglio del collega, in un nego­zietto di periferia do­ve acquistò a prezzi effettiva­mente concorrenziali un "assembla­to" dalle prestazioni decisamente esorbitanti le sue necessità. Non lo avrebbe mai ammesso, ma s'era lasciato contagiare ed aveva trascorso, come gli amici che un tempo aveva biasimato, giornate intere in groppa a quel puledro ten­tando di domarlo.
L'accese, dopo qualche secondo il monitor sfavillò i dati della routine dell'autodiagnostica iniziale fino a lasciare solitario il prompt.
Dopo un attimo d'esitazione digitò:
C>>cd giochi\chess
C\GIOCHI\CHESS>>chess
Dopo le schermate iniziali di presentazione sul moni­tor s'anda­rono formando i colori d'un scacchiera in rilievo coi pezzi ben ordinati nelle posizioni d'inizio partita.
Guardò per qualche secondo lo schermo senza in realtà vederlo, poi, con insofferenza afferrò il mouse e attivato il menù a ten­dina selezionò l'uscita.
Tambureggiò i polpastrelli della mano sinistra sulla scrivania, poi si decise e digitò
C\GIOCHI\CHESS>>CD\
C>>CD TESTI
Chiamò il programma e, mentre il computer lo cari­cava disegnando le lettere bianche sul caratteristico sfondo celeste, ripensò al­lo scontro feroce tra Camillo e Lodovico cui era stato testimone qualche ora prima.
Con un sorriso ironico s'immaginò ora in presenza del poeta ed istintivamente incassò la testa tra le spalle al­l'idea di quale potesse esserne la reazione di fronte a tanta sfrontata storiciz­zazione.
Si disse che Camillo era in effetti quanto di più pros­simo alla tradizione orale si potesse concepire, per in­terrogarsi subito dopo sul senso di quella riflessione. Tentò di ricordare le paro­le di quel discorso che tanto l'avevano colpito e intravide Ca­millo tutto teso alla metafora delle metafore, sublime interprete degli in­feri.
Erano solo frammenti, bagliori d'un temporale not­turno, ma lasciò il timone nelle mani rischiose dell'in­tuizione.
Lodovico.
Lodovico, al contrario, era qualcosa di diverso, una sorta di Ca­ronte controcorrente, di contrabbandiere fuorilegge ...
Gli sfuggì una risata breve e nervosa di fronte alla nuova imma­ginifica intuizione: anche lui, in fondo non era altro che un predatore, un avventuriero pari ad un eroe hollywoodiano. S'imma­ginò, lì, la sudata saha­riana appiccicata sulla pelle, il cappel­laccio dalle falde flosce, lì, pronto a trafugare le tombe degli dei.
Poi, con un brusco cambiamento d'umore, si vide - come Lodovico - in fondo, straniero ad entrambi i mondi, ed assentendo col capo, come avesse svelato un grande arcano, si vide destinato - al pari dei bar­bieri - alla terra sconsacrata.
La bocca si piegò sotto il peso della riprovazione prima che il suo senso della misura ristabilisse, veloce, un equilibrio.
Non poté esimersi però, ferendo il proprio senso del pudore, dal vedersi, decadente, strappare i fuochi fatui della notte per af­fidarli in dote ad un ingrato giorno.
Sfiorò in una carezza la tastiera: no, non stava ser­vendo la sto­ria, ma la memoria si!
Non comprese per intero il suo distinguo. Ma s'avvertì infido per Camillo. Tentò di decifrare quell'improvvisa sensazione avverten­do d'averne per intero il torto.
Con vergogna comprese d'essere il ladro - non del dio, assente e indifferente - ma del fratello ...
La memoria.
Era strano, per lui, teatrante, stregone d'un rito per de­finizio­ne fatuo, in cui la metafora non è ancora suono e la parola è do­lorosa amputazione, concepire lo stesso concetto di memoria: non la dozzinale catalogazione di esperienze ma quella sorta di far­dello che fa degli esseri una specie.
La memoria ... Il rito è la coscienza che si fa memoria ...
Il lampo si spense e Luca tentò di brancarne il filo.
Si vide, piccolo e trascurabile individuo, assiso sulle spalle d'un immenso gigante cresciuto in un'intermi­nabile sequela di giorni brutali. Era nato vecchio, col peso di tutti questi eoni e con l'angoscia dell'unica do­manda che non avrà risposta.
Guardò lo schermo in luminosa attesa. Lì, in quei pezzi di metal­lo freddo, stavano racchiuse le cono­scenze e la sapienza di tutti quei millenni, lì, nello spazio fisico d'un pugno d'una mano, stavano racchiusi i millenni che un "primo nato" avrebbe dovuto vivere per apprendere, in indefesso studio, lo scibile di Luca ... Ma qui, da questa parte dello schermo, era lui che s'era levato di undici cubiti e non meno, stava lui che aveva conosciu­to il nome disperante della Morte ...
Respirò profondamente e cominciò a scrivere.


VI° INTERLUDIO

Forte era il soffio vitale di Teshup nel cuore cavo del falò.
Alta, la fiamma guizzava d'almeno dieci cubiti oltre l'ultima fa­scina accatastata ed il calore sacro alla dea riverberava la sua luce sugli ultimi scemanti amplessi.
Telipinush, ebbro di haoma e degli umori della donna, aveva già più volte reclamato a gran voce il suo rac­conto, mentre Hattushi­meni lo carezzava doma.
Col peso affatto sopportabile della propria alterità, in­quieto, volse le spalle al branco.
Interi gli sovvennero i suoi sogni, implacabile la porta serrata alle domande.
Quasi invidiò il piccolo re ormai in cammino sul sen­tiero d'occi­dente, traghettato a quella terra, nel regno del mistero, oltre l'orrida e disperante soglia.
Come parlare a quegli stolti della sua angoscia e delle sue pau­re? Come rifuggire il loro riso ottuso?
La danza forsennata d'Hattushimeni e le sorelle vi­brava ancora nelle viscere contratte del suo ventre, quasi che un passo od un artiglio bastassero a lacerare il velo, a incamminare il branco inebriato verso il gorgo.
A lui quel passo, a lui l'artiglio ...
Ma quali suoni e quali grida potevano evocare l'indi­cibile e l'orrore?
Ed egli pianse lacrime di pietra nel suo petto.
Quasi ad implorare la dea, sollevò il capo alla volta del cielo.
Limpido e terso, sfavillava di stelle.
E tornò di nuovo con la mente al passato viaggio nella terra di Sumer, al suo viaggio ed ai dispersi fratelli.
Colmo di gratitudine ricordò d'aver appreso a leggere i segni nelle cose, d'aver imparato a inseguire le orme del divino lungo il sentiero fangoso della vita.
Quasi senza volerlo investigò nel cielo.
Ritta e solenne la grande ruota disgiungeva nel mezzo l'immensa volta.
Quello era il tempo del grande equilibrio e della grande contesa, presto la ruota avrebbe preso ad incli­narsi ed con essa il lumi­noso sigillo della dea avrebbe strappato brandelli di tenebra.
Fu quasi stordito dalla sublime grandezza di quell'im­magine e considerò la stolta supponenza della stirpe degli uomini, il loro misurare in ragione del proprio appetito. Avvertì la dea sublime e lontana, avvertì la dea indifferente. Considerò la pochezza del sangue versato e l'immane potenza del risveglio divino.
Ma dura e crudele la muta delle sue domande riprese a latrare al­le sue terga.
Duro e crudele Occhio di Cane inseguiva il cacciatore.
Anche se in quella notte mai prima d'allora aveva le­vato in alto lo sguardo dei suoi occhi, egli sapeva che la caccia s'era aperta nell'oriente.
Cacciato, il cacciatore tesava l'arco contro la consueta preda taurina.
Le chele triplici del granchio dominavano incalzate da presso dalla belva.
E gli parve, fulgida, la rossa occhieggiare al caccia­tore.
Splendida di triplice splendore, la sua cintura baluginò appena, mentre il suo passo si protese oltre la soglia, già chiusa sull'astro della dea.
Gorgo nel gorgo a risucchiare l'astro, la luce si spense ad occi­dente.
Lo seguì, da presso e di lontano a un tempo, la purpu­rea regina scortata dalle ancelle.
Occhio di cane, diritto, correva, stolido e implacabile, alla caccia estrema.
Kaish si rincantucciò nella calda pelle d'ariete febbrile e stor­dito a un tempo. Sentiva una struggente simpatia tra i sogni del­le sue notti e il numinoso cacciatore astrale.
E il gorgo, acquattato oltre l'estremo limite all'occi­dente, pre­se a canzonarlo col suono della sua soglia di bronzo.
Suoni bassi e profondi, riverberi affilati, presero a mu­tare e a modularsi in voci sussurranti alle sue orecchie.
Si tirò in piedi.
Lasciò che il branco si chetasse, occhi muti alla sua volta, co­me l'ultime gocce d'una pioggia.
Si voltò, allora, col suo sguardo tagliente, stolidi o ghiacci gli occhi in suo potere.
Tonante la cantilena della sua voce prese a sferzare la campagna, in gara col vento della notte.
Sotto la grande ruota del cielo, nell'immensità dell'al­tipiano, serrato intorno al fuoco, il branco l'ascoltava.


CAPITOLO XVIII

Siamo a teatro e non in un libro, lo stai di­menticando un po' troppo, buffone, e qui non ci si accontenta di parole. Spiegati subito o vattene.
Andrea il servo



La platea d'un piccolo teatro.
Gli spettatori hanno raggiunto il posto loro assegnato e sono nella condizione prodotta dal dimezzamento delle luci di sala.
Una maschera del teatro si fa incontro ad un uomo che avanza dal fondo.
L'uomo è arruffato, sgualcito e trasmette una vaga, irridente in­quietudine.
Maschera - Il biglietto signore.
Uomo - Cosa?
Maschera - Se mi mostra il biglietto posso indicarle la poltrona.
Uomo - Ma io non ho biglietto.
Maschera - Allora, spiacente ma non può entrare.
Uomo - Devo solo vedere...
Maschera - La prego, non mi costringa a chiamare il direttore
Uomo - Lei mi sta fraintendendo: sono qui solo per vedere l'auto­re.
Maschera - Ha un appuntamento? Se è ospite dell'au­tore si rivolga presso la biglietteria dove avranno rice­vuto istruzioni e le sarà stato assegnato un biglietto omaggio. Ma ora esca ché lo spetta­colo sta iniziando.
Uomo - Mi chiami l'autore.
Maschera - Signore. Favorisca uscire!
(l'uomo per tutta risposta si siede serafico su di una poltronci­na)
(la maschera esce in cerca di aiuto)
Uomo - (guarda il sipario e ha un ghigno) Fuori dal quadro, ol­tre l'ultima possibile rifrazione, dietro l'adipe spaziale e quindi al di là del tempo... Che buffa prospettiva! (guarda negli occhi gli spettatori) Eppure vorrei conoscere... ed è questo tor­mento che viola la sublime perfezione della nullità geometrica produ­cendo l'universo... Cosmogonie... Cosmogonie, si­gnori!
(da dietro il sipario è comparso l'autore)
Autore - Ah, sei tu!
Uomo - Dispiaciuto?
Autore - No.
Uomo - Meglio così, non voglio crearti problemi.
Autore - Perché sei venuto?
Uomo - Curiosità.
Autore - O piuttosto sei pentito? Se è così mi spiace perché...
Uomo - Non preoccuparti, non vengo a Canossa.
Autore - Dove sei stato?
Uomo - Tra infinite, altre possibilità.
Autore - Sciocchezze.
Uomo - Probabilmente hai ragione, solo sciocchezze, ma piacevoli: cullati da una morbida nube di paffuta accidia.
Autore - Cos'è, l'elogio del nulla? ... Vattene.
Uomo - E' un ordine o un consiglio?
Autore - Sia l'uno che l'altro. Voglio evitarti questa sofferen­za.
Uomo - Che spirito nobile!
Autore - E' che in una certa qual misura mi sento re­sponsabile.
Uomo - Già ti vedo nelle notti avvolto nel sudario dell'insonne rimorso (ride)... No, ecco, io, vedi, vengo a portarti la conso­lazione: non ti crucciare e donami a piene mani la sofferenza, io la richiedo.
Autore - Non è il momento per le tue guitterie.
(si avvicina guardingo il direttore del teatro)
Direttore - Qualche problema?
Autore - Solo un fantasma.
Uomo - O una fobia.
Direttore - Il signore...?
Autore - Una vecchia conoscenza.
Direttore - E' l'ora di inizio dello spettacolo (all'autore) la reclamano dietro la quinte. Al signore penserò io.
Autore - Bene. (all'uomo) Addio. (esce)
Direttore - (a bassa voce) Qualche problema?
Uomo - Assolutamente.
Direttore - Prego, (estrae un mazzo di biglietti dalla tasca e ne stacca uno offrendolo all'uomo) favorite di accomodarvi come mio ospite.
Uomo - La ringrazio.
(Buio in sala)
(si apre il sipario)
(Il clima è quello classico e stereotipato dei drammi "gialli". Una camera d'albergo. Sul letto disfatto è abbandonato il corpo di una giovane donna in posi­zione scomposta. Si vedono i piedi e le gambe nude. Il resto del corpo è coperto con un lenzuolo mac­chiato di sangue. Due uomini della Polizia effettuano rilievi mentre un terzo scatta fotografie. Al centro, seduta su di una sedia vi è Vera Corti, la madre della vittima. E' una donna anco­ra piacente che si avvia alla cinquan­tina. Accanto alla donna vi è il commissario di P.S. Antonio Navarra, un quarantenne ordina­rio e lieve­mente sciatto nei modi e nel vestire. Accanto alla vit­tima vi è il medico legale dott. Sarti, un cinquantenne gras­soccio.)
Navarra - Allora signora, ricapitoliamo: alle dieci di questa se­ra sua figlia Gloria Corti ed il marito Marco Filippi sono saliti in camera.
Vera Corti - Si
Navarra - Cosa era successo?
Vera Corti - Quante volte devo ripeterlo?
Navarra - Me lo racconti un'altra volta. Allora, c'era stato un litigio, no?
Vera Corti - Si... non passava giorno ormai... un ma­trimonio sba­gliato, lo avevo capito subito. Ma mia figlia, lei diceva, spera­va... ed ora... (si asciuga le la­crime)
Navarra - Si faccia coraggio.
Sarti - Commissario...
Navarra - Si?
Sarti - Io qui ho finito.
Navarra - (appartandosi con il medico) Allora?
Sarti - Strangolamento.
Navarra - E le ferite?
Sarti - Successive: l'assassino ha infierito sul corpo con un coltello da cucina dopo che la donna era già morta.
Navarra - Quando è avvenuta la morte?
Sarti - Da non più di quattro ore, ma potrò essere più preciso dopo l'autopsia. Ora vado all'Istituto di Medi­cina Legale a pre­disporre tutto.
Navarra - Vada. Grazie.
Sarti - Arrivederci (prende la borsa ed esce)
Navarra - (a Vera Corti) Signora, comprendo il suo stato, ma è necessario che lei risponda ancora a qual­che domanda.
Vera Corti - (facendosi forza) Chieda commissario, sono pronta.
Navarra - Siete a Milano da tre giorni, è esatto? (Vera Corti an­nuisce) Perché siete venuti da Roma?
Vera Corti - Sono stata io a volere questo viaggio. Era più che altro un tentativo, l'ultimo. Qui a Milano ho un parente, un cu­gino, che ha una grossa società pubblici­taria, la Euroscoop, non so se lei la conosce commis­sario.
Navarra - Si, vada avanti.
Vera Corti - Ecco, volevo far incontrare mio genero con questo mio cugino. Sa', nella speranza di fargli avere la rappresentanza della società a Roma.
Navarra - Ma che attività svolge suo genero?
Vera Corti - Speculazioni.
Navarra - Di che genere?
Vera Corti - Di qualunque genere. Ultimamente ha tentato certe speculazioni immobiliari ma gli è andata male ed è praticamente rovinato.
Navarra - Per questo lei aveva combinato questo in­contro?
Vera Corti - Si.
Navarra - E le frequenti liti tra sua figlia e suo genero erano causate dall'attività di lui?
Vera Corti - Anche, si.
Navarra - Torniamo a questa sera. Durante la cena sua figlia ed il marito hanno avuto uno di questi frequenti litigi? (Vera Corti annuisce) Perché?
Vera Corti - Gloria, mia figlia, gli aveva detto di averne abba­stanza di lui e che l'avrebbe lasciato.
Navarra - E' successo qualcosa di particolare?
Vera Corti - ... Mio genero ha incontrato nel pome­riggio un cono­scente, un milanese, un certo avvocato Giulio Brighenti con cui in passato sembra abbia fatto degli affari. Durante questo incon­tro mio genero ha proposto a quest'uomo non so bene che affare ma pro­babilmente è incappato in qualcuno che lo conosceva troppo be­ne. Infatti l'avvocato si è dimostrato piuttosto freddo e allora...
Navarra - Allora? Dica, signora.
Vera Corti - (con un fil di voce) Mio genere ha chiesto a mia fi­glia di essere... gentile con quell'uomo.
Navarra - Proprio un bel tipo suo genero
Vera Corti - Mia figlia naturalmente ha rifiutato ed ha detto che avrebbe chiesto il divorzio.
Navarra - Ho capito.
Vera Corti - C'è stata una lite furiosa già nel tardo po­meriggio, mia figlia è venuta piangendo nella mia ca­mera...
(un poliziotto entra nella camera)
Poliziotto - Mi scusi commissario.
Navarra - Si?
Poliziotto - C'è una donna che dice di aver visto tutto.
Navarra - Come?
Poliziotto - Dalla finestra della sua camera, lì, di fronte all'albergo.
Navarra - Fatela entrare. (il poliziotto esce) Adesso vedremo di venirne a capo.
(nella camera entra Anna Marenghi, la testimone. E' una donna di quarantanni troppo curata nei modi e nel vestire senza per questo rendersi gradevole. No­nostante l'ora tarda ed il frangente è ve­stita, pettinata e truccata di tutto punto)
Navarra - Lei è?
Marenghi - Anna Marenghi, commissario. Sono di casa proprio qui di fronte, vede? (andando verso la finestra) La quarta finestra a destra del terzo piano è quella della mia camera.
Navarra - E lei avrebbe visto quello che è successo in questa stanza?
Marenghi - Oh, certo! (accortasi d'aver parlato con troppo entu­siasmo)... Una cosa terribile! Non riuscirò a prender sonno per una settimana.
Navarra - Va bene. Va bene. Mi dica piuttosto quello che ha vi­sto.
Marenghi - Ecco (vede il cadavere sul letto) Oh, mio dio! ... Non mi ero resa conto che...
Navarra - Se vuole posso sentirla in un'altra stanza.
Marenghi - No, grazie, non fa nulla. Dunque le dicevo che saranno state le dieci, dieci e un quarto quando la luce di questa camera si è accesa. L'ho notata perché è proprio difronte alla mia e...
Navarra - Lasci stare. Continui piuttosto.
Marenghi - Va bene. Nella stanza c'erano un uomo e una donna, giovani, sulla trentina. Ho notato che di­scutevano animatamente e... oh signor commissario, lei non deve credere che io sia una di quelle donne che ficcano il naso nelle faccende altrui. No, io mi faccio gli affari miei, le assicuro. Io lo so che certa gente non chiede di meglio...
Navarra - La prego.
Marenghi - Commissario le assicuro che non mi per­metterei mai...
Navarra - D'accordo, d'accordo. Ma cosa ha visto? Allora mi stava dicendo di aver visto un uomo e una donna discutere animatamente.
Marenghi - Oh, si. E dovevano volare parole grosse perché ad un certo punto la donna ha cominciato a piangere nascondendo la fac­cia nel cuscino.
Navarra - E l'uomo?
Marenghi - Lui sembrava ancora più esasperato ed ad un certo pun­to ha cominciato ad urlare e deve averle detto qualcosa di parti­colarmente pesante perché la donna ha avuto una reazione violenta e lo ha schiaf­feggiato.
Navarra - E allora?
Marenghi - Allora l'uomo l'ha presa al collo ed ha stretto, ha stretto finché la donna non si è più mossa. Quindi ha preso qual­cosa che era lì vicino, un coltello, credo, e l'ha colpita ripe­tutamente.
Navarra - Poi cos'è successo?
Marenghi - L'uomo si è alzato e credo sia fuggito per­ché non l'ho più visto.
Navarra - Mi dica, sarebbe in grado di riconoscere i due?
Marenghi - Senza ombra di dubbio.
Navarra - Ci pensi bene. Ne è sicura? Da questa ca­mera alla sua finestra saranno almeno trenta metri.
Marenghi - Ho un ottima vista, mi creda non lo dico per vantarmi... e poi non era la prima volta che vedevo quella coppia
Navarra - Ah!
Marenghi - Ma si. Anche nel pomeriggio avevano avuto una lite.
Navarra - Oggi la fortuna fa gli straordinari con la po­lizia.
Marenghi - Riconoscerei quell'uomo tra mille e... (il suo sguardo è casualmente caduto oltre il proscenio e la vista di qualcosa l'ha impietrita) Mio dio!... E'... E' lui! (col dito indica l'uo­mo seduto in platea.)
Navarra - (totalmente disorientato) Cosa? Come?
Marenghi - Ma è lì!
Navarra - (che non è in grado di capire) Dove? Cosa?!
Autore - (entrando da dietro le quinte) Sipario! (le luci di sce­na si spengono e le luci di sala relegano la scena in un'atmosfe­ra da retrobottega) Sipario! (e con gesto impacciato tenta di provvedere direttamente alla chiusura tirando una nappa del pe­sante tendag­gio)
Direttore - (entrando trafelato dal fondo del teatro) Ma che suc­cede? Che fa?
Autore - E' una provocazione! Una congiura!
Direttore - Che stà dicendo!? E' impazzito per caso?!
Autore - (all'uomo seraficamente seduto in platea) Io sono l'au­tore e questo è il mio teatro! Tu non vi appar­tieni. Non più. Tornatene sulla tua nube!
Direttore - Insomma si può sapere che sta succe­dendo!?
Autore - Costui (ed indica l'uomo) ha deliberatamente compromesso la rappresentazione!
Direttore - (al pubblico) Signore e signori vi prego di scusare questo spiacevole incidente. Vogliate avere un attimo di pazienza e lo spettacolo verrà riproposto dal'inizio. Grazie. (e tratte­nendo l'ira si avvicina al­l'uomo) (all'uomo) Ed ora lei esce sen­za provocare ul­teriori incidenti.
Navarra - (Avanzando con un'innaturale fluidità mec­canica fino al proscenio) Marco Filippi, la dichiaro in arresto per l'omicidio di sua moglie Gloria Corti (sulle ultime parole il sipario si è chiuso precludendolo alla vista degli spettatori)
Direttore - (disorientato) Che avviene? Esigo di sapere cosa sta succedendo! (all'autore) Chi è costui?
Autore - ...Marco Filippi.
Direttore - Cosa?
Autore - E' una lunga storia, direttore... Si, è, o meglio, era il protagonista di questo lavoro, l'assassino.
Direttore - E' impazzito?!
Autore - Capisco che possa sembrarle assurdo, ma le assicuro che è proprio così... Io stesso non avrei mai creduto che potesse es­sere possibile.
Direttore - Mi sta dicendo che quest'uomo ha ispirato il suo la­voro? E' un omicida?
Autore - Trovo terribilmente difficile spiegarlo... Io che per mestiere navigo lungo i sentieri della zona cre­puscolare...
Direttore - Devo chiamare la Polizia?
Autore - Quest'uomo non esiste, o meglio, è solo un'idea.
Uomo - (all'autore, con tono ironicamente dottorale) Un punto di vista interessante... Molto logico anche se in contrasto con i dati sperimentali (improvvisamente si è portato presso il Diret­tore e allunga un braccio sotto il naso dello stesso) Prego, toc­chi. Tocchi! Lei ha di fronte a sé in confezione speciale l'ul­timo ritro­vato in tema di illusione sensoriale. (al pubblico) Venghino signori! Osservino l'ultima meraviglia della produzione drammaturgica: l'idea fatta carne, sangue e puzzo di sudore. L'i­dea defecata!
Direttore - Da dove è uscito questo squilibrato?!
Uomo - (aggressivo - al Direttore) Non potrebbe mai capirlo... Non è cattiveria, è incommensurabilità: lei ha l'immaginazione di un ferro da stiro.
Direttore - Come si permette, io...
Uomo - Vede questo puttanaio!? (indica con un largo gesto il tea­tro) Qui, proprio qui, quando questa vol­gare luce della sua realtà svanisce si riverberano i terri­tori del crepuscolo, come dice il maestro (indicando l'autore)
Autore - Dal giorno della realtà alla notte della crea­zione... Ed è la follia.
Uomo - Dalla notte della creazione alla vita. Ed è do­lore.
Direttore - Basta con queste sciocchezze!
Autore - Sciocchezze? Ma questo è il teatro!
Uomo - (ironicamente poetico) Questo mare nell'om­bra dove si na­viga entrambi scrutandosi lontano.
Autore - (indicando l'uomo al direttore) Costui è il primo che ci abbia raggiunto dal di là.
Direttore - Non vi permetterò di farvi gioco di me. Vi avverto, ora telefono alla Polizia. Avete cinque minuti di tempo per ri­condurre alla normalità questo teatro. (esce)
Autore - (a mezza voce) Imbecille.
Uomo - (diagnostico) Reale.
Autore - (all'uomo) Allora?
Uomo - (sollevando le spalle) Sanguino ancora. San­guino sempre.
Autore - Ma perché l'hai fatto? Non hai altro posto al di fuori della scena.
Uomo - Tu mi hai offerto una sequela di rassicuranti approdi dove la risacca ci impigrisce. Ebbene non so che farmene di questa tranquillità sepolcrale del già dato, del già detto.
Autore - E così mi hai tradito.
Uomo - Avevo alternative?
Autore - Certo! Svolgere il compito per il quale ti avevo creato.
Uomo - Ed allora al mio posto, nella rassicurante nic­chia co­struita appositamente per me sarei stato felice, cioè non sarei stato. La scena è l'unico luogo dove non mi è dato vivere.
Autore - Insomma, che vuoi dire?
Uomo - Cerca di scrollarti di dosso la realtà e mi capi­rai... No, scusa, sono ingiusto. Tu hai le mille sfaccet­tature della materia che filtrano e rifrangono il filo dell'esistenza. Io svolazzo sulla sublime leggerezza d'un'idea mentre tu sprofondi sotto il peso dell'ani­male.
Autore - Vacci piano.
Uomo - Senza offesa... ma chiamo a testimoni i si­gnori (indicando il pubblico - assumendo, scherzoso, i toni dell'arringa) Signori della Corte, onorevoli giu­dici e spettabile pubblico, siamo oggi qui chiamati a giudicare atti e misfatti sulla cui perpetrazione il reo è confesso. Non sono pertanto i fatti a dover essere ac­certati, bensì c'è da dirimere quel nodo che chiede se debba ri­tenersi punibile...
Autore - Ma che dici?
Uomo - (c.s.) Signori, si può condannare Macbeth per il tradimen­to di Duncan? E che avrebbe scritto lo sco­titore ortofrutticolo: "Storia della minestra di cavoli nelle orcadi"?
Autore - Le solite banalità sulla trasgressione.
Uomo - (serio) No. L'ho pagata e pago questa mia tra­sgressione, questo strappo che mi ha lacerato le viscere con un dolore da ta­gliarti il fiato d'un urlo liberatorio.
Autore - Come, e la tua nube di paffuta accidia?
Uomo - Una sublime vertigine... il mio stare fuori dalla scena... ma io le appartengo, tutto il mio essere si lacera verso di essa...
Autore - Allora proprio non ti capisco.
Uomo - Eppure scrivi! Tu stupri il quotidiano, rinne­ghi il ventre che t'ha generato compiendo l'atto impuro della creazione e non capisci! Se soggiacessi ai tuoi desideri, se avessi ceduto alla mia natura e ubidito al tracciato della trama, non esisterei ora più di quelle ombre (ed indica il palco) che vi sono in virtù d'una luce che le illumina.
Autore - Esistere è tradire?
Uomo - Si. tradire e in ciò soffrire.
Autore - Una concezione singolare.
Uomo - Soffrire sempre più mano o mano che s'apre la forbice tra l'essere e l'esistere
Autore - (ironico) E che vale questa dolorosa esi­stenza?
Uomo - Come potrei stabilirne altrimenti un metro?
Autore - Tu non sai...
Uomo - Ma conosco.
Autore - (spazientito) Adesso basta! E' inutile che tu tenti di coprire le vergogne delle motivazioni con la tua filosofia da ri­gattiere! Ti ho lasciato giocare abba­stanza.
Uomo - Tu lo puoi. Sai di poterlo. Fallo. Eliminami! (l'autore non si muove, l'uomo sorride)
Autore - Tu l'ami.
Uomo - Cosa?
Autore - Perché saresti qui altrimenti? Tu e tutte le tue chiac­chiere! Certo che per essere un puro parto della fantasia hai ben imparato tutti i vizi consolatori.
...
Autore - L'ami e lei non esiste!
Uomo - Non è vero!
Autore - Non è mai esistita, sciocco! Lei è nata morta! Morta su quel letto d'albergo perché così l'ho ideata. Tu m'hai tradito per nulla!
Uomo - Non è vero!... Non è vero. Se pure la mostri là, morta, tu stesso le hai fornito un passato, un ri­cordo. Tu stesso le hai dato la vita.
Autore - Ti ricordo che sei stato tu ad ucciderla.
Uomo - No! Questo è quello che hai disposto per me. Ma io sono uscito. Sono fuori dal quadro. Io sono li­bero ora. Si, io l'amo e forse è stata questa la chiave, il forcipe che m'ha partorito.
Autore - (spazientito) Ora basta! Se hai potuto far que­sto è perché io così t'ho ideato. Io ti ho creato ribelle!
Uomo - Si, tu così padreterno da pensare che suina­mente sceglies­si comunque la scena. (ironico) Punto sul vivo, eh?
Autore - Ma sono ben in grado di porvi rimedio. (con gesto tea­trale) Sipario!
(il sipario si apre, un occhio di bue illumina dall'alto il com­missario Navarra)
Navarra - Marco Filippi, la dichiaro in arresto per l'omicidio di sua moglie.
Autore - (imperioso all'uomo) In scena!
Uomo - (ride) E realmente pensi che io mi lasci im­pressionare da quella marionetta?
Navarra - Marco Filippi, dopo aver cercato di indurre sua moglie a soggiacere ai suoi turpi traffici ...
Uomo - (col tono del critico - provocatorio) Lin­guaggio involuto! Non credibile sulla bocca d'un me­diocre commissario di polizia!
Navarra - ... ieri sera, da poco passate le dieci, addi­veniva ad un alterco con lei in questa stanza e afferra­tala per il collo la strangolava. Non contento infieriva sul corpo di lei con un'arma da taglio ed infine fuggiva dal luogo del delitto.
Uomo - Ieri sera me ne sono andato a spasso, Com­missario.
Vera Corti - (illuminata come Navarra) Assassino! Assassino!!
Marenghi - (c.s.) E' lui! E' lui che l'ha uccisa!
Autore - La verità, la vita, l'unica vita per te possibile ti chiama. Va!
Uomo - Non tentare d'impressionarmi! Non ci casco. Io non l'ho uccisa!
Autore - (gigionesco, con l'aria del gran sacerdote, inebriato del potere nelle proprie mani) E allora pic­cola e risibile nul­lità, guarda. Guarda chi viene ad ac­cusarti! (indica la scena) (una luce spettrale illumina il letto sul quale giace il corpo di Gloria Corti. Len­tamente il lenzuolo che la ricopre si muove e Gloria Corti si leva a sedere mentre gli altri personaggi della scena restano immobili) (Gloria Corti è terri­bilmente pallida ma non mostra altri segni dell'omi­cidio) Ecco, colei per cui profes­si il tuo impossibile amore ti accusa!
Uomo - Gloria! (all'autore, mascherando l'estremo disagio) Non sei Poe, i tuoi sono trucchi da lunapark... Solo trucchi, infami ed ignobili.
Gloria - (come in trance) Tu mi hai ucciso.
Uomo - Io no!... Gloria, guardami. Io non sarei più colpevole della mannaia del boia, ché l'omicida è il giudice. Ma io ho tra­dito! Io mi sono fatto sabbia nel­l'ingranaggio della scena, io l'ho inceppata mutando il quadro dell'autore. Ma non t'accorgi che le battute im­poste suonano ormai stonate? Senti! E' un canto disso­nante che frantuma la scala ben temprata. La scena è adesso una spirale su cui lasciarsi andare, su cui rizzar le vele e na­vigare. Sei libera, purché tu lo voglia (è sa­lito sul palco) Ed io lo voglio. Autore - Non ti con­sentirò di generare il caos sulla mia scena!
Uomo - (con gesto estremamente dolce sposta ciocche scomposte di capelli che ricadevano sul viso di Gloria Corti) Vieni (le porge la mano)
Navarra - (bloccando l'uomo con l'ausilio di un poli­ziotto) Non opponga resistenza!
Uomo - Gloria!
(l'uomo sta per essere trascinato via)
Gloria - (come risvegliandosi da un sonno) Marco!
(i personaggi che trascinano via l'uomo restano in­terdetti)
Autore - Via! Portatelo via!
Uomo - (opponendo una strenua resistenza) Gloria! Gloria, io ti amo!
Gloria - (con movimento fluido ha raggiunto il gruppo rimasto im­pietrito) (solleva una mano, ha una breve incertezza, quindi ca­rezza la guancia paonazza del­l'uomo dicendo come se fosse la cosa più normale di questo mondo) Ma anch'io ti amo.
Autore - No! (e fugge via)
(tutti i personaggi della scena si sciolgono come neve al sole, le scenografie prendono fuoco e si dissolvono nel batter d'una ciglia. Sul palcoscenico vuoto del teatro l'uomo e la donna re­stano soli).
Portò il cursore all'inizio del documento, creò qualche riga di spazio e dopo digitò:
"RIBELLE"
Tornò quindi in fondo allo scritto ed al centro ag­giunse:
"FINE"
Non s'era praticamente mai fermato ed ora si sentiva finalmente disteso.
Era vuoto, rilassato come dopo una notte d'amore.


CAPITOLO XIX

Dai tempi più antichi la meta della ricerca della felicità - che l'interiore diventi esterno e l'esterno come l'interiore - non abbellisce e conclude, come il Hegel, il mondo esistente, ma si collega invece con quello non ancora presente, con le qualità del reale cariche di futuro.
Ernst Bloch


- Papà.
La voce piccola e assonnata di Lucrezia lo sorprese.
Si voltò. La bambina se ne stava sulla porta, a piedi nudi nel pigiamino rosa, i capelli scarmigliati e gli oc­chi impastati.
Bofonchiò qualcosa d'inintelligibile con tono petulante di rim­provero.
Le allargò le braccia in un'offerta e lei gli corse in braccio prendendone possesso. Si riassopì, la guancia schiacciata contro il petto.
La carezzò sfiorandola con i polpastrelli.
Sollevò gli occhi sullo schermo, stanco.
Solo allora s'avvide della luce che lentamente s'era an­data fa­cendo strada tra i fori delle tapparelle. Lontani s'andavano ac­cennando i rumori del mattino.
Spense allora, dopo aver salvato il documento, con la mano destra il computer.
Col fardello di Lucrezia tra le braccia s'alzò con un colpo di reni. La bambina socchiuse gli occhi in una placida domanda.
- Hai fame?
Rispose affermativamente col cenno della testa.
- Andiamo in cucina. Ma prima recuperiamo le panto­fole.
Entrando alzò lo sguardo sull'orologio da muro: erano le sette.
Depositò Lucrezia su d'una sedia e la bambina, in gi­nocchio, re­clinò il capo sulle braccia conserte sonnac­chiosa.
Mise sul fuoco il bollilatte e la macchinetta del caffè espresso. Aveva il sordo riverbero d'un lieve mal di testa e quella nausea che segue una notte insonne.
Nello sportello d'angolo della cucina componibile, quello desti­nato alla dispensa, cercò qualcosa, un pro­dotto industriale, per la colazione della figlia, poi, ras­segnato, si mise ad imburrare delle fette biscottate ed a spalmarle con la confettura di vi­sciole che uno zio lon­tano s'ostinava a inviare loro di anno in anno.
Lasciò Lucrezia che giocherellava svogliata con la co­lazione e portò il caffè fumante a Giorgia che ancora dormiva.
- Sono passate le sette - disse richiamando l'attenzione ed invo­gliando la moglie col suono del cucchiaino che mescolava lo zuc­chero.
Lasciò la tazza sul comodino e fece una puntata in ba­gno.
Il grande specchio gli rimandò l'immagine di due oc­chiaie profon­de, corone agli occhi arrossati.
Si spogliò e s'infilò sotto la doccia.
Rimase immobile, la testa sollevata, gli occhi chiusi, sotto il getto violento e appena stiepidito.
Uscì dal bagno con l'accappatoio ed i capelli bagnati - non a­vrebbe sopportato la violenza del fono - e tornò in cucina.
Giorgia e Lucrezia erano ancora a tavola.
Giorgia alzò la testa guardandolo interrogativa. Lui tentò un sorriso.
- Non hai dormito?
- No.
- Cos'è successo?
- Ho scritto.
Lo guardò attenta cercando di capire.
- Dopo te ne stampo una copia - continuò lui - Credo che sia buo­na.
Lei annuì pensierosa.
- Sei rientrato tardi.
- Si. Sono stato in un posto strano.
Lo guardò interrogativa.
- La Luna Nuova. Così si chiama.
- Cos'è?
- Un'osteria, su, nella città vecchia.
- Mai sentita nominare.
- Già.
Rimasero in silenzio per un po'.
- Ricomincio a fare teatro.
Giorgia lo guardava attenta.
- Che ne pensi?
Lei annuì sollevando le spalle e mostrando retorica la risposta.
- Chi hai incontrato?
- Alla fine, 'sta notte, Giampiero ... Abbiamo quasi li­tigato ... In realtà l'ho provocato io ...
- In quell'osteria?
- No, all'Arcobaleno. Alla Luna Nuova ho conosciuto degli altri ... gente in gamba.
- Fanno teatro?
- No ... poeti ... - Si rese conto di come il racconto sa­rebbe risultato assurdo o banale - Leggiti il pezzo - concluse.
Giorgia non insistette.
Più tardi, in camera, mentre s'abbottonava la camicia, lei lo raggiunse e lo baciò.
Fecero l'amore in piedi, le gambe di lei avvinghiate ai fianchi di lui, la schiena contro il legno della porta, pronti a cogliere l'arrivo di Lucrezia.
Mentre Giorgia vestiva la bambina, si risedette al computer per stampare due copie del lavoro.
Gli aghi mitragliavano il nastro della stampante e gli capitò di leggere sullo schermo qualche battuta del la­voro: non fu proprio sorpreso dal fatto che il senso ul­timo quasi gli sfuggisse sfo­cando in lontananza.
S'alzò andando alla finestra e sollevò la tapparella.
Il sole d'un mattino primaverile illuminava il cortile splendente del trionfo d'un paio di mimose. In un roco bofonchiare un motore diesel scatarrava neri e mal combusti gas di scarico.
Di là, oltre la siepe, s'intravvedeva o intuiva il giorno.
Pensò al marmoreo Gaudenzio chiuso nella luminosa oscurità del suo delirio.
Per un attimo ebbe paura, come se il senso gli colasse dalla cop­pa delle mani.
Poi l'intuizione lo confortò segnandogli un sorriso sulle labbra.
Si voltò e, nello scaffale superiore dell'armadietto che aveva e­splorato il pomeriggio del giorno prima, cercò la chiave.
Scoprì d'avere tre versioni della Tempesta, una delle quali col testo originale a fronte. Scelse, per ora, un'edizione tascabile che avrebbe potuto più sempli­cemente portare con sé.
Giorgia era entrata nello studio e, recuperato il capo del modulo continuo, ne scorreva il contenuto soc­chiudendo gli occhi.
- E' un atto unico - spiegò Luca.
- L'hai scritto tutto questa notte?
Luca annuì.
- Se non vuoi dirmelo non importa - disse lei guardan­dolo negli occhi.
Lui scosse il capo:
- Sono confuso ... no, non è vero ... Non saprei cosa dirti ... E' che ora ... Leggi il testo.
Giorgia annuì considerando, al momento, chiuso il di­scorso.
Luca la fermò mentre usciva dalla stanza e la baciò, come a tra­smetterle quel senso di complicità che ora riavvertiva nuovo e che sentiva non poter tradurre in un compiuto ragionamento.
Lucrezia s'intrufolò tra loro e dispotica pretese le braccia del padre.
- Sei convinto di voler andare in ufficio? - gli chiese Giorgia quand'era già sulla porta.
Luca annuì con un sorriso rassicurante.
Si separarono nel cortile, la moglie accompagnava Lu­crezia a scuola e lui, per la direzione opposta, era di­retto al lavoro.
In fondo al viale si immise nel lento flusso delle auto e, mentre percorreva l'estenuante teoria di semafori rossi, gettò uno sguardo al libro che rassicurante l'ac­compagnava sul sedile al suo fianco. Sporgenti, i fogli ripiegati del testo gli ammiccaro­no allusivi.
Sorrise. Forse domani sarebbe stato nuovamente in­tossicato dai prosaici imperativi del reale, forse do­mani le sue viltà e la sua accidia lo avrebbero riconse­gnato alle miserie quotidiane, forse ... ma oggi avrebbe vissuto d'una sublime vertigine, in ci­ma alla bertesca al limitare del tempo!
Ghignò della sua esaltazione e per un attimo si fermò a conside­rare dubbioso il valore della sua creazione.
Si diede dello sciocco: anche lui intossicato dal con­cetto di merce.
No, errante tra ignari e ingrati uomini, stava usando la cazzuola nell'edificazione della torre ...
Portò la mano al petto ove, celato, a contatto della pelle, con­servava il suo ciondolo e la sua essenza dura e lucente, nera e stridente ...
Sorrise ancora scotendo la testa e gli sovvenne - ultimo - il folgorante verso del poeta:
"Noi siamo di natura uguali ai sogni,
la breve vita è nell'arco d'un sonno."

FINE

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