martedì 27 novembre 2007

Kaish il fabbro

romanzo breve alle origini della letteratura e del teatro

Parte I^

Il rosso gorgogliante del metallo
gareggiava
- albicante -
col vampeggiare della brace.
Si fermò ad annusare l'aria:
s’assicurò che fosse essa
e solo essa
a carpirgli il se­greto.
Sorrise
nella sua incorrotta solitudine e,
con gesto ampio e misurato,
asperse la fucina
dei grani della pietra frantumata.
Si fermò,
di nuovo,
detergendosi la fronte del sudore,
e col sudore il segno.
Rimestò il fluido incandescente
con rinnovata energia.
Prese a colarlo
tra la matrice e l'anima,
sussurrando il nome sacro di Hepit,
grande e possente dea.
Ora era fermo,
accoccolato nel cortile,
col dito a tracciar segni,
spirali,
nella terra.
Guardò,
alto nel cielo,
l'azzurro oltre il fango della casa.
Lontana era la notte.
Ma l'ani­mo smaniava
e d'improvviso si risolse.
Fu
a ciò che mai nessuno vide
nella terra di Khatti,
prima.
Era un cono tronco
di argilla mista a stoppie,
non grande,
con alla base un foro.
A Kaish
- questo era il nome dell'uomo –
ricordava come le genti del tra­monto
onorassero la grande dea.
Ma ne aveva ap­preso i segreti
nella terra di Sumer dai fratelli
ed il ricordo lo riempì di nostalgia.
Si riscosse
e con rinnovata energia,
come volesse
con la spossa­tezza alleviare il rimpianto,
prese ad introdurre legna di pino
e pietre nere.
Dall’apertura
nel fianco del cono,
sovrappose strati alternati di pietre e legna,
prelevò quindi tizzoni ardenti
ed alla legna appiccò il fuoco
Vide ben presto,
dalla sommità del cono,
volute di fumo
levarsi verso il cielo e,
di converso,
avvertì risalire dalla base
il vento,
in quello che comprese
essere
lo stesso ventre ar­dente di Hepit.
La vertigine lo colse nel capire
d'essere testimone
e artefice a un tempo
dell'estasi amorosa
della dea
col suo divino consorte
Teshup,
si­gnore delle tempeste.
Ripensò alla notte trascorsa
tra le calde cosce di Hat­tushimeni,
la giovane sacerdotessa del tempio
e sentì,
pulsante,
ergersi il suo desiderio.
Il fuoco ora s’andava scemando
ed egli cavò dall'apertura
l'in­forme massa incande­scente,
la gettò nella fucina
e la percosse con la pesante mazza.
Grosse gocce gli imperlavano il viso,
mentre rivoli di sudore
colavano
dalle nude spalle sulla schiena,
ma egli,
ormai preda d'una gioiosa frenesia,
accelerava il ritmo
ebbro del calore,
del lumeggiare
e del suono acuto e squillante
dei suoi colpi.
Quasi inavvertita
la materia prese a suggerire
l'idea d'una forma
e Kaish ne assecondò le aspirazioni
coi suoi colpi ora ben dosati.
Solo quando il braccio fu stanco
s'arrese
e contemplò la corta lama
che aveva realizzato.
Ben diversa dalle sue,
raffi­nate e cesellate,
già ora,
pur così grossolana,
quell'ar­dente creatura
emanava un'aura di spaventosa potenza.
Ebbe paura
e come a scacciare i suoi dubbi,
la ricoprì dell'ossa d'animali e pelli dure.
Ravvivò il fuoco della fucina
favorendo il trapasso nella lama
della vita larvale
che quei resti ancora conservavano.
Nuovamente invocò la dea.
Quando ritenne il tutto compiuto,
prese la lama viva e l'annegò nell'acqua.
L'anima della sua crea­tura
si levò ribollen­do
e se ne fuggì in una nube di fumo.
Kaish, ancora, implorò il perdono.

Parte II^

Aguzzi e digrignanti,
i bianchi cavalieri
lo ricacciarono
nell'o­scuro ventre della sua casa.
Uggiosa e raspante
la loro voce rimandava
alla famelica luce
di quegli occhi neri
ed egli ne avvertì
netta
l'im­placabile petulan­za.
Poi sentì la cosa che s'ergeva
oltre il diaframma
- con le mani e la schiena
puntellò la parete di fango –
trenta­tre cubiti ad o­scurare l'astro,
occhi di sangue ed alito di fuoco,
dall'acqua si levava nel corpo di serpente.
Tonante
fece sentire la sua voce
aspra e terribile.
Re­clamò il suo nome.
Chioccia
la sua voce invocava la dea,
mentr'egli scivo­lava ser­randosi le orecchie.
E poi tutto si volse
e ciò ch'era di sotto fu di sopra
e ciò ch'era alla luce fu alla notte.
Volse i suoi passi al fitto bosco
e la frescura
alleviò l'ansima­re del suo petto,
mentre il suono dell'acqua lo guidava.
Alla fonte
intrecciava la folta chioma
una fanciulla.
Ed egli a lei si volse.
Turgidi i capezzoli,
a lui sorrise
distesa sui fiori di giacinto.
E prima ancora che lui con lei giacesse
ella si mostrò pregna.
Il ventre gonfio come volta celeste,
i seni,
gra­vide mammelle alle porte del cielo.
E piovve pioggia di miele
e la terra fu sommersa,
piovve oltre la cima degli alberi più alti,
piovve sulle alte montagne dell'o­riente,
piovve su lui
e ogni cosa fu sommersa.
A fatica
sollevò la testa dalle acque
e vide
il volto della donna approssimarsi a lui.
Ora il vento gelido del nord
prese a increspare l'im­menso mare
e i capelli di lei principiarono a danzare.
La danza sinuosa li rivelò per serpi
e le serpi presero,
radiali,
a incamminarsi.
Ed ella sorrideva
e la pelle vellutata si tirava,
ed ella sorri­deva
e il volto tirato raggrinziva,
ed ella sorrideva
e gli occhi si segnavano di rosso,
ed ella sorrideva
ed il sorriso dilatò
ol­tre i confini della bocca.
Brani di carne
e spruzzi di sangue
si proiettarono a raggiera
mentr'ella gli si offriva.
Fuggì annaspando nella fanghiglia putrida,
fuggì senza voltarsi indietro,
fuggì.
Cadde riverso su una riva di nebbia,
cadde riverso e lì rimase ansante.
La montagna era alta ed austera,
la montagna era alta e silente.
Fuggiva ancora alla voce della donna,
fuggiva ancora ai suoni delle sue parole,
fuggiva cieco per le rocce taglienti,
fuggiva rapido ferendosi le mani.
E fu il tuono
ad annunciare la folgore
sotto la coltre impenetra­bile del cielo.
E i terribili artigli del vento
lo scotevano
ti­randolo nel baratro
mentr'egli ancor più forte si teneva.
Mentre una pioggia calda lo bagnava,
saliva ancora,
attratto dal mistero.
Vertiginosa gli apparve la porta.
Capace di quaranta gioghi affiancati,
si levava a di­smisura sopra il monte.
Vertiginosa gli apparve, e chiusa.
Viva di bestie immonde e crudeli,
ghignata di mostri osceni,
vide il riflesso delle sue paure
sbarrargli il passo.
Ed egli spinse
ed egli la percosse
ma essa non si mosse.
Solo il riverbero d'un suono
basso e profondo,
lamen­toso e triste
lo ferì
nel fondo del suo cranio,
solo il bronzo lo ammonì terri­bile.
E d'improvviso si trovò possente,
levata,
ritta,
la lama infuoca­ta nel suo pugno.
E vennero in picchiata
grandi rapaci
col volto della donna
e con gli artigli
crudeli
gli staccarono a brani le carni.
Ed egli
roteando la spada
li falciava in volo
ed essi,
monchi,
rinnovavano l'assalto.
Lacerato e ansante
fu solo di nuovo con la soglia.
Presala a due mani
levò sul capo l'arma
e l'abbatté fu­rente.
Urla e lamenti ghiacci
accompagnarono
lo scuro fluire dalla feri­ta
che ogni cosa sommerse.
Kaish si svegliò
madido e ansante.
Scostò la pelle
che gli era servita da giaciglio
e incerto si rizzò.
Caracollò fino all'ingresso della casa
ed incurante del freddo
uscì nel buio della notte stellata.
Guardò ad oriente
in cerca d'un barlume di speranza.
La notte era fonda.
Le stelle inseguivano il gorgo ad occidente.

Parte III^

Tese l'orecchio ed il rumore si ripeté sordo contro le pareti cieche della casa.
Mentre senza fretta s'avviava all'uscio si chiese chi fosse a ri­chiamare la sua attenzione. Forse un vian­dante in cammino da ter­re lontane, ignaro e inconsa­pevole, forse un esule scacciato dal­le mura della sua città, forse.
Si fermò al limitare dell'ombra, severo, lasciando che il sole alto gli schiarisse tratti del viso e della sua pos­sente struttu­ra.
Un piccolo gregge di capre brucava la radura che, ampia, si per­deva all'orizzonte, dove le vette segna­vano il limite estremo dell'altipiano.
Discosto rispetto all'uscio, sul ciglio del terrazzo che in quel punto segnava una piccola depressione del ter­reno, accovacciato all'ombra di un pruno, un giovane - poco più d'un ragazzo - dallo sguardo sudato, lo fis­sava dimentico della selce che ancora stringeva nella mano.
- Sono tue le capre? - chiese Kaish con la sua voce cupa come il rombo del tuono all'orizzonte.
Il giovane deglutì assentendo.
L'uomo sorrise, ma solo con le labbra, senza che nulla trasparis­se dall'espressione severa del suo volto.
- Che vuoi? Perché percuoti la mia casa?
- Io sono Shilish, figlio di Murshilimeni, pastore di capre ... - iniziò col volto paonazzo, bagnato dal su­dore, nella consueta formula di presentazione.
- Ed io sono Kaish e questa è la mia casa - l'interruppe brusco - Ti ripeto, che vuoi?
- ... Telipinush, per volere della grande madre, signore di Khat­ti e di tutte le terre dell'altopiano - riprese Shi­lish col tono di chi s'era ripetuto quel discorso per tutta la strada dalla città a quella casa - ti manda a dire che il tempo del re bambino è giunto al termine.
- Lo so - rispose Kaish annusando l'aria addolcita dai primi te­pori.
- Egli ti invita al grande sacrificio che le sacerdotesse del tempio officeranno al tramonto.
- In città?
- No! - si lasciò sfuggire inorridito il ragazzo - Nella piana dei campi, oltre il bosco sacro della dea ... Teli­pinush ti chie­de di narrare una delle tue storie.
E senza attender risposta il ragazzo si rizzò veloce cor­rendo in direzione delle sue capre. Con fischi striduli e roteare del ba­stone diede l'abbrivio al gregge e solo allora s'azzardò a getta­re uno sguardo alle sue spalle, all'uomo possente che se n'era rimasto, immoto, sul­l'uscio della casa.
Lo seguì con lo sguardo finché scomparve con le sue capre oltre il crinale d'una dolce collina. Volse allora lo sguardo alla città così vicina e allo stesso tempo così lontana. Dalla sua ca­sa distingueva chiaro il ba­stione di terra che la cingeva tutta lasciando le sole aperture delle due porte, quella che accoglieva il primo raggio del sole la mattina e quella che ne attendeva l'ultimo riverbero serale. Nulla o poco si intuiva invece del de­dalo di case che dentro si ammassava mentre alta nel centro spic­cava la figura del grande tempio di mattoni cotti al sole.
Pensò agli abitanti della città, timorosi e ostili a un tempo, soffocati da mura affacciate su altre mura in­combenti, dove lo stesso respiro del dio Teshup, pos­sente e libero sull'altipiano, si frantumava disperden­dosi, dove il puzzo degli escrementi s'ac­compagnava al vano parlare degli uomini.
Cosa aveva egli, Kaish, da spartire con loro e con la loro immon­da città? Quale debito di riconoscenza aveva contratto con Teli­pinush e la sua gente? Nulla, eppure lui sapeva che, a dispetto dell'odio e della paura, egli avrebbe accettato l'invito e attor­no al grande fuoco avrebbe narrato dei suoi sogni a quegli stol­ti. Forse per le labbra profumate di Hattushimeni, per il suo ventre, forse per lei che, sorpresa alla fonte sacra, l'aveva seguito nella casa giacendosi con lui con ardente languore.

Parte IV^

Uscì dalla fresca penombra dell'alto corridoio sul­l'ampio terraz­zo del terrapieno su cui sorgeva il tem­pio.
Con piacere, quasi con voluttà, assaporò il tepore del sole sulle sue spalle minute e nude.
Erano in quel periodo dell'anno in cui netto s'avverte il respiro della Grande Madre, in cui ella si desta dal lungo sonno canuto, giovane e lubrica, vogliosa del seme che la renderà pregna.
Hattushimeni dilatò le narici eccitata, quello era il tempo della grande dea che più apprezzava, forse per la consonanza con la sua giovane età.
Ed ora ella vibrava, all'aria pregna di umori, lasciando col cor­po crogiolare l'animo.
Levò il viso - gli occhi serrati - all'astro della dea, come ad accoglierne sul viso il seme. Al pensiero ebbe nel ventre uno spasmo di doloroso piacere.
Aprì gli occhi illanguiditi ed il suo sguardo fu attratto da una grande aquila che volteggiava nell'aria mo­vendo lentamente in di­rezione del sole. D'improvviso il rapace prese a gettarsi in pic­chiata ed artigliato in volo un uccellino - forse un'allodola - tornò a solle­varsi con lenti e poderosi battiti delle grandi ali in di­rezione delle terre oltre il tramonto.
Hattushimeni si chiese il senso di quel presagio, in­quieta.
Guardò la piccola torre cieca ricostruita sugli antichi tronchi infissi profondamente nel terreno dove aveva vissuto in quell'an­no il piccolo re.
Quasi in un sogno tornò al tempo della grande ve­gliarda, al buio squarciato dalle fiamme ed alla scelta.
Nelle orecchie le si riverberarono ancora le grida della casa e nelle nari il ludibrio per la materna empietà.
Rossi, i mattoni del tempio avevano chiuso la soglia dell'oriente celando il fanciullo divino agli sguardi mortali.
Si riscosse: oggi s'apriva la porta d'occidente.
Altre ali avrebbero condotto il tributo alla dea, altro sangue l'avrebbe irrorata.
L'aquila era alta e possente.
Un benevolo responso, dunque, ma non solo.
Con un brivido considerò la direzione che quel volo ora evocava e si sorprese della piega che i suoi pen­sieri andavano assumendo: non era solita indugiare la mente sul grande viaggio allontanan­done da sé la stessa idea, eppure ora ne avvertiva tutta la ver­tigine del mistero.
Kaish, dalle forti braccia e dall'indomabile vigoria, era la cau­sa delle sue elucubrazioni, questo considerò bef­farda, nel lieve accenno d'un sorriso.
L'aveva scelto la luna precedente, quando con le so­relle, di ri­torno dalle sacre abluzioni di rigenerazione, era passata vicino alla sua casa. Lui era lì, tenebroso ed imponente in tutta la sua vellicante maledizione. Non aveva dato ascolto ai gridolini invi­diosi di sedotto orrore delle trepide sorelle e quella notte stessa aveva lasciato infrangere quel che la Fonte aveva risana­to.
Da allora frequenti erano state le sue visite alla casa che tutti evitavano ed ai misteri che essa conteneva.
Presto Kaish aveva preso a turbarla col racconto dei suoi sogni mentre ella, avida, possedeva il suo corpo.
E forse ancor più presto ella non aveva potuto fare a meno d'es­sere presa dai viaggi notturni del suo amante e di condividerne il riverbero delle domande.
Così egli le aveva trasmesso col seme l'inquietudine, mentre ella cercava di fornire una risposta nella calda protezione del suo ventre.
E Kaish sarebbe andato dalla casa alla piana quella sera.
Per volere di Telipinush e suo piacere.
Per la voce tonante e i suoi racconti, tra il vile dispre­gio del­la stirpe di Khatti ...
Lo spiazzo su cui sorgeva la piccola torre di fronte al terrapie­no del tempio s'andava popolando della solita folla di curiosi che cercava per tempo d'assicurarsi un buon punto d'osservazione. L'ora era ormai vicina e Hattushimeni si volse per rientrare nel tempio.
L'attendevano le sacre fumigazioni e le segrete pozioni sacerdo­tali.
Vi si sarebbe sottoposta con dedizione e scrupolo: si sarebbe presentata al grande rito pervasa di frenetica eccitazione in o­nore del nome sacro della dea e a be­neficio dei lombi del suo Kaish.

Parte V^

L'astro d’Hepit
si spense ad occidente.
Le pelli d'ona­gro
vibravano il fervore.
Il sangue degli Hitti
pul­sava
al ritmo dei tamburi.
Polverosi,
i piedi nudi
battevano la danza
delle giovani sacre alla dea
- i seni sudati già d'ecci­tazione –
i volti pinti
alla luce guizzante delle fiamme.
L'eco di bronzo
dalla soglia del tempio
agghiacciò la sera.
Rivoli
d'oscure vibrazioni
scesero
giù dal terrapieno
ghignando terrifici richiami.
Pitoshimeni,
grande sacerdotessa
e vacca della dea,
venne alla luce
con le grandi mammelle,
venne alla luce
- le braccia levate -
ondeg­giando
l'instancabile matrice.
Telipinush
veniva dietro
- signore di Khatti -
grande della spada e della lancia,
forte del triplice scudo.
Khatti levò allora
il suo grido di giubilo.
Alla piccola torre senza luce
la porta d'occidente venne schiusa.
Mattoni in brani
e brani di fetore
ritrassero la folla.
Carshimeni,
la vecchia dalle orbite vacue,
varcò sicura
quella soglia oscura,
fu nella casa del piccolo re.
Solo il pulsare cupo dei tamburi
turbava ora
il silenzio della sera,
mentre le fiamme
rizzate
delle fiaccole
s'agitavano smaniose.
Poi che l'ebbe terso,
tornò alla luce, Carshimeni.
Con gesto im­perioso
- che l'alterigia della cecità
mostrava rivolgesse al cielo –
reclamò soccorso.
Distillata al fuoco della casa di Kaish,
piccola e lu­cente
della sua luce fosca,
la maschera passò di mano in mano
fino alla vec­chia
e con lei all'interno.
Nessuno
vide la piccola figura macilenta,
barcollare spintonata,
fino alla luce abbacinante delle torce.
Il capo chinato sulla terra,
la fronte sudata nella pol­vere,
gli Hitti
rispettarono l'antico tabù.
Di pelli di montone lo coprì la vecchia
- levitato dalle braccia dei guerrieri
sulla polvere materna –
volto im­perscrutabile e fulgente.
E Carshimeni
levò alto e strozzato il grido
e gli occhi si leva­rono,
avidi alla caccia.
Come la voce di Teshup
nell'algore notturno dell'in­verno,
così degli Hitti l'ondeggiare
prese a montare inesorabile.
I ventri ondeggianti delle sacre alla dea
protesi
in lubrica offerta
al ritmo accelerato dei tamburi.
Volti, sculture d’eccitazione,
face­vano da scolta
alle due fila delle ardenti torce.
La portantina navigava
nel mare delle grida:
le sup­pliche alla dea
si levarono
gareggiando in fervo­re.
E s'avanzò,
gli occhi anneb­biati
dal fumo delle torce,
per il labirinto putido dei tuguri,
giù
a cercare la porta ad occiden­te,
anelando la libertà dell'altipiano.
Teshup li irrise
col fiato sottile della notte.
Serrarono le fila
sorpresi d'inconsapevole sgomento:
soli d'ine­sorabile solitudine ...
La macchia più scura ad occidente
li guidò.
La luna
non avrebbe donato
una falce sottile di spe­ranza.
In quel­la notte
il buio,
terrifico e incorrotto,
onorava la dea.
E quando furono
tra le scheletriche braccia del sacro luogo,
la voce terribile si levò improvvisa.
Bassa e profonda,
pulsante d'oscure vibrazioni,
levava
lunghi e misterici richiami
alla notte,
frantumando gli echi
al suono del numinoso metallo.
La folla si serrò scrutando il buio,
mentre i guerrieri
saggiava­no
l’impugnatura rassicurante
delle armi.
Ecco
nei pressi
i demoni notturni dei canneti
e non di­scosti
i sonagli vibranti dei defunti
... alte e irridenti le risa delle silfidi.
E col sollievo
dei più
uscirono dal bosco
nella piana dei campi.
Calda,
la fiamma dei bracieri
irrorava di luce la collina
e la livida lastra di pietra sui macigni.
Alta e sfrontata,
nel tenue lucore del cielo,
l'ombra di Kaish
osservava
dal colle vicino.
E venne posto riverso sulla lastra
e i guerrieri fuggi­rono nel piano
e le giovani frenetiche danzavano
e gli Hitti sudavano l'attesa.
Alto e assordante era
il tuono dei tamburi
quando
Pi­toshimeni,
nella sua veste di rete dalle larghe trame,
sollevò
alto
un affi­lato pugnale
stringendolo a due mani,
lo mostrò agli Hitti,
parole mormo­rò alla dea
e vibrò il colpo
al cuore.
Il ragazzo sussultò appena.
Un grido cantò l’eccitazione.
La gran sacerdotessa
si volse
e le mani impose
insan­guinate
sul volto di Telipinush.
A terra le armi,
il gran guer­riero
afferrò la donna,
e a terra la distese.
Ella
moveva lasciva la matrice
egli stringeva
il vomere potente.
Aprì le cosce
e lui la penetrò.
Quando il paredro
giunse all'orgasmo
inondandola del se­me,
la gran sacerdotessa
la terra asperse
del sangue
del piccolo re
Mentre calava la divina lussuria,
Hattushimeni
si volse in cerca di Kaish.
Parte VI^
Forte
era il soffio vitale di Teshup
nel cuore cavo del falò.
Alta,
la fiamma guizzava
d'almeno dieci cubiti
oltre l'ultima fa­scina accatastata
ed il calore sacro alla dea
riverberava la sua luce
sugli ultimi scemanti amplessi.
Telipinush,
ebbro di haoma
e degli umori della donna,
aveva già più volte reclamato
a gran voce
il suo rac­conto,
mentre Hattushi­meni
lo carezzava doma.
Col peso
affatto sopportabile
della propria alterità,
in­quieto,
volse le spalle al branco.
Interi gli sovvennero i suoi sogni,
implacabile
la porta serrata alle domande.
Quasi invidiò
il piccolo re
ormai in cammino
sul sen­tiero d'occi­dente,
traghettato a quella terra,
nel regno del mistero,
oltre l'orrida e disperante soglia.
Come parlare a quegli stolti
della sua angoscia
e delle sue pau­re?
Come rifuggire il loro riso ottuso?
La danza forsennata
d'Hattushimeni e le sorelle
vi­brava ancora
nelle viscere contratte del suo ventre,
quasi che un passo
od un artiglio
bastassero a lacerare il velo,
a incamminare il branco
inebriato
verso il gorgo.
A lui quel passo, a lui l'artiglio ...
Ma quali suoni
e quali grida
potevano evocare l'indi­cibile
e l'orrore?
Ed egli pianse
lacrime di pietra nel suo petto.
Quasi ad implorare la dea,
sollevò il capo alla volta del cielo.
Limpido e terso,
sfavillava di stelle.
E tornò di nuovo con la mente
al passato viaggio
nella terra di Sumer,
al suo viaggio
ed ai dispersi fratelli.
Colmo di gratitudine
ricordò
d'aver appreso
a leggere i segni nelle cose,
d'aver imparato
a inseguire le orme del divino
lungo il sentiero fangoso della vita.
Quasi senza volerlo
investigò nel cielo.
Ritta
e solenne
la grande ruota
disgiungeva nel mezzo
l'immensa volta.
Quello era il tempo del grande equilibrio
e della grande contesa,
presto
la ruota
avrebbe preso ad incli­narsi
ed con essa
il lumi­noso sigillo della dea
avrebbe strappato brandelli di tenebra.
Fu quasi stordito
dalla sublime grandezza
di quell'im­magine
e considerò
la stolta supponenza
della stirpe degli uomini,
il loro misurare
in ragione del proprio appetito.
Avvertì la dea sublime e lontana,
avvertì la dea indifferente.
Considerò
la pochezza del sangue versato
e l'immane potenza del risveglio divino.
Ma dura
e crudele
la muta delle sue domande
riprese a latrare al­le sue terga.
Duro
e crudele
Occhio di Cane inseguiva il cacciatore.
Anche se in quella notte
mai prima d'allora
aveva le­vato
in alto
lo sguardo dei suoi occhi,
egli sapeva
che la caccia s'era aperta nell'oriente.
Cacciato,
il cacciatore
tesava l'arco
contro la consueta preda taurina.
Le chele triplici del granchio
dominavano
incalzate
da presso
dalla belva.
E gli parve,
fulgida,
la rossa occhieggiare al caccia­tore.
Splendida
di triplice splendore,
la sua cintura baluginò
appena,
mentre il suo passo
si protese oltre la soglia,
già chiusa sull'astro della dea.
Gorgo nel gorgo
a risucchiare l'astro,
la luce si spense ad occi­dente.
Lo seguì,
da presso
e di lontano a un tempo,
la purpu­rea regina scortata dalle ancelle.
Occhio di cane,
diritto,
correva,
stolido e implacabile,
alla caccia estrema.
Kaish
si rincantucciò
nella calda pelle d'ariete
febbrile e stor­dito a un tempo.
Sentiva una struggente simpatia
tra i sogni del­le sue notti
e il numinoso cacciatore astrale.
E il gorgo,
acquattato
oltre l'estremo limite
all'occi­dente,
pre­se a canzonarlo
col suono della sua soglia di bronzo.
Suoni bassi e profondi,
riverberi affilati,
presero a mu­tare
e a modularsi in voci
sussurranti alle sue orecchie.
Si tirò in piedi.
Lasciò che il branco si chetasse,
occhi muti alla sua volta,
co­me l'ultime gocce d'una pioggia.
Si voltò,
allora,
col suo sguardo tagliente,
stolidi o ghiacci
gli occhi in suo potere.
Tonante
la cantilena della sua voce
prese a sferzare la campagna,
in gara col vento della notte.
Sotto la grande ruota del cielo,
nell'immensità dell'al­tipiano,
serrato intorno al fuoco,
il branco l'ascoltava.

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