mercoledì 28 novembre 2007

Questione previdenziale

(seminario tenuto nel 2006 ad Urbino in occasione dei lavori dell'università popolare di attac italia)

Con la legge finanziaria verrà anticipata l’applicazione del decreto 252 del dicembre 2005 con il quale il governo Berlusconi aveva avviato il tentativo di lancio della previdenza integrativa, rappresentata dal trasferimento forzoso del TFR (Trattamento di Fine Rapporto) ai fondi pensione. Trasferimento forzoso perché viene utilizzato il meccanismo del silenzio/assenso, cioè i lavoratori che nei sei mesi che andranno dal 1° gennaio al 30 giugno 2007 non si esprimeranno esplicitamente contro il trasferimento del loro TFR, si troveranno dal 1° luglio 2007 con il TFR trasferito per legge nei fondi pensione. Si stanno studiando eventuali ricorsi alla stessa magistratura per bloccare l’applicazione del decreto, perché sembra abbastanza allucinante che per legge una parte del salario dei lavoratori possa essere impiegata per acquistare un prodotto finanziario. Nel contempo a fine ottobre - inizio novembre, il governo ed i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL) hanno sottoscritto un memorandum che nelle intenzioni dei sottoscrittori doveva rimanere riservato, e che invece è stato pubblicato perché un’organizzazione interna alla CGIL, la Rete 28 Aprile, lo ha pubblicato sul proprio sito. Un memorandum con cui governo e parti sociali si sono dati l’obiettivo di intervenire nuovamente in materia previdenziale, di modificare cioè nuovamente le leggi previdenziali e il sistema pensionistico entro il 31 marzo 2007, in primo luogo attraverso una revisione dei parametri di calcolo della pensione contributiva. Nella sostanza questo significa che per coloro che andranno in pensione con il sistema contributivo (in misura totale per coloro che avevano meno di 8 anni di contributi al 31/12/1995, ed in misura parziale per coloro che avevano tra gli 8 e i 18 anni di contributi sempre alla data del 31/12/1995) ci sarà un’ulteriore riduzione della prima pensione. La cosa invece non riguarda coloro che avevano già più di 18 anni di contribuzione a quella data. Gli effetti che possiamo ipotizzare sulla base di questo nuovo intervento sono che la futura prima pensione dovrebbe essere intorno al 50%, se non al di sotto del 50%, di quella che era la vecchia pensione, calcolata col sistema retributivo, che, per chi aveva lavorato per quarant’anni, era l’80% della media degli ultimi stipendi. Quindi, stiamo parlando di una prima pensione calcolata per intero con il sistema contributivo che non supererà il 40-50% dell’ultimo stipendio. Ripeto, l’accordo sottoscritto è per rivedere al ribasso i parametri di calcolo delle pensioni.
Ma non solo, è un accordo anche per l’estensione della pensione integrativa a tutto il pubblico impiego. La legge 252 riguarda i lavoratori del settore privato che hanno il TFR e nel pubblico impiego il TFR lo hanno soltanto i lavoratori assunti dopo il 2001. I dipendenti pubblici assunti precedentemente non hanno il TFR, ma hanno il TFS (Trattamento di Fine Servizio) che è in realtà molto più vantaggioso del TFR in quanto calcolato per intero sull’ultima retribuzione. In sostanza, dal punto di vista monetario è molto più consistente del TFR che è legato all’andamento retributivo dell’intera vita lavorativa della persona.. Dico che l’accordo riguardi anche il mettere mano (manomettere) il TFS, perché si è parlato dell’estensione a tutto il pubblico impiego della previdenza integrativa.
Questa manomissione del sistema previdenziale, della pensione pubblica, è giustificata con motivazioni portate avanti già da vent’anni, che hanno cominciato a concretizzarsi nel 1992 con la Riforma Amato. E’ quella riforma che ha stabilito che le pensioni non dovessero mantenere nel tempo il loro potere d’acquisto. Fino alla Riforma Amato del 1992 le pensioni erano collegate ai salari: ad ogni rivalutazione dei salari, corrispondeva una rivalutazione delle pensioni. Chi era andato in pensione con l’80% dell’ultima retribuzione, dopo vent’anni avrebbe avuto una pensione che era comunque l’80% della retribuzione che i lavoratori in quel momento percepivano. Con la Riforma Amato questo meccanismo è saltato e le pensioni nel tempo, essendo collegate soltanto all’andamento dei prezzi, subiscono una progressiva perdita del loro potere d’acquisto rispetto ai salari. In altre parole, i pensionati mano a mano che procedono negli anni, mano a mano che si “ostinano a campare” hanno un reddito sempre minore.
Ma quali sono le ragioni addotte per cui sarebbe stato necessario intervenire sulla previdenza pubblica?
Le ragioni sono solo apparentemente logiche. Si è detto: “l’età della popolazione aumenta costantemente, le speranze di vita si allungano, le culle sono vuote.” Ergo, mano a mano che andiamo avanti nel tempo non ci saranno più soldi per assicurare la pensione a coloro che andranno in pensione, anzi, si arriverà al punto in cui ogni persona che lavora deve anche lavorare per pagare una pensione a chi è andato in pensione.
Discorso che sembra assolutamente logico, ovvio, inconfutabile; sembra un castigo divino su cui bisogna intervenire!
Nulla di più falso.
Il punto debole di tutto il ragionamento - e che in realtà è passato soltanto perché chi si sarebbe dovuto opporre ha in realtà accettato di rimanere dentro questa logica perversa – è che non è il denaro la misura della capacità di soddisfacimento dei bisogni delle persone. La domanda corretta che bisogna porsi in relazione al problema previdenziale è: il nostro sistema produttivo, economico, è in grado o meno di soddisfare i bisogni della popolazione? Attenzione, il discorso “un lavoratore/un pensionato” non sta in piedi e lo si capisce con degli esempi semplici. Se 50 anni fa per produrre la stessa quantità di beni che oggi produce un solo lavoratore serviva il lavoro di 20 lavoratori, questo non significa che il lavoratore che produce oggi lavora 20 volte di più rispetto ad un lavoratore del 1957. Semplicemente è aumentata la capacità di produrre ricchezza: è aumentata la ricchezza, è aumentata la produttività e la capacità di soddisfare i bisogni. E’ questo in realtà l’unico elemento che doveva e dovrebbe essere preso in considerazione per valutare se il sistema sarà in grado nel 2036 (in base alle previsioni fatte nella metà degli anni novanta questo sarebbe il momento di crisi, ossia il momento in cui dovrebbero saltare i conti della previdenza) di produrre i beni ed i servizi necessari a soddisfare la popolazione. Ma nessuno è in realtà in grado di fare una previsione di questo genere. Chi con un minimo di serietà può dire quali saranno l’innovazione, le scoperte, le evoluzioni sociali, economiche, quali saranno le congiunture, le crisi che avverranno in questi quarant’anni? E se tornassimo indietro di quaranta- cinquant’anni, chi negli anni ‘50 sarebbe stato in grado di immaginare questo 2007 o un altro? Se si guarda alle previsioni relative all’anno 2000 fatte dagli scienziati degli anni 50, ci si accorge che non avevano la più vaga e pallida idea di quello che sarebbe stato il reale futuro che ha avuto la nostra società. Semplicemente non avevano la più vaga idea di quello che sarebbe stata l’influenza dell’informatica e della telematica. Oggi vorrei sapere chi è in grado nel 2007 di dirci quale sarà lo scenario sociale, economico, produttivo che ci ritroveremo nel 2036. E questa sarebbe l’unico reale dato da prendere in considerazione per fare una seria previsione sulla possibilità o meno del sistema previdenziale di sostenere le necessità del futuro.
Si dice anche che la spesa pensionistica in Italia è troppo alta. Altra stupidaggine. Per due ragioni. I dati sulla spesa previdenziale in Italia sono truccati. Primo perché in realtà la spesa previdenziale in Italia viene considerata al lordo delle tasse, mentre in tanti paesi europei le pensioni sono esentasse, cioè non si pagano le tasse sulle pensioni. Questo significa praticamente che noi consideriamo in quella spesa una partita di giro, cioè i soldi che i pensionati non vedono neanche e che lo Stato passa da un cassetto all’altro con, appunto, una semplice partita di giro. Di questo ci si dimentica sempre quando si effettuano confronti con la spesa previdenziale di altri paesi. Ma la spesa è truccata anche da un altro aspetto, che peraltro io mi ostino a ritenere non particolarmente rilevante, perché quando si adotta questo argomento in realtà si cade inevitabilmente nella logica del nemico. In Italia la spesa previdenziale è gonfiata perché a carico delle tasche dei lavoratori pesa anche la spesa assistenziale. La spesa assistenziale in realtà, per logica e per giustizia sociale, dovrebbe essere a carico dell’intera comunità e quindi dovrebbe essere praticamente a carico della fiscalità generale. In realtà la spesa previdenziale in Italia è soltanto a carico dei lavoratori ed è finanziata con le casse dell’INPS. Quando però si fa un ragionamento sui costi della spesa previdenziale in realtà si va comunque a falsificare i dati prendendo il totale indistinto come il complesso della spesa previdenziale in Italia. Il ragionamento sui conti è dal mio punto di vista debole perché in realtà quale importanza ha il fatto che in un paese ci sia una spesa previdenziale troppo alta? Che significa? Qual è il problema? Per quale ragione non ci dovrebbe essere una spesa previdenziale alta? Per quale ragione è divenuto vangelo degli organismi economici internazionali il contenimento della spesa pubblica, le politiche monetariste? Non si capisce perché il sistema dovrebbe essere più efficiente, più efficace, dovrebbe produrre opportunità di lavoro, tagliando i consumi di una fascia sempre più alta di consumatori. Cioè se tagliamo praticamente le pensioni ai pensionati, se riduciamo le possibilità economiche dei pensionati, per chi dovrebbero produrre le imprese? Cioè se tagliano la base dei possibili consumatori in realtà tagliano le possibilità di produzione per chi lavora.
Si parla della riduzione della spesa previdenziale, si fanno le scelte monetarie in tutti i campi, si fanno discorsi sul contenimento del costo lavoro, si fanno ragionamenti sulle politiche di moderazione salariale, per cui praticamente la contrattazione collettiva dei lavoratori viene compressa sempre più e si va verso un nuovo modello contrattuale che è devastante. In realtà tutto questo ha ben altra motivazione. La motivazione è evidente negli effetti che queste politiche hanno prodotto negli ultimi quindici anni. La motivazione è semplicemente una gigantesca redistribuzione della ricchezza dal lavoro verso le rendite finanziarie, verso i profitti. Questo è quello che è avvenuto con l’adozione di queste politiche che ci sono state presentate come necessarie, come ovvie, come castighi divini, ma che in realtà non sono altro che scelte macroeconomiche di origine politica, ideologica e che hanno un preciso connotato di classe (scusate il riferimento vetero da questo punto di vista!). Che cosa hanno prodotto e rischiano di produrre queste cose? Le riforme previdenziali hanno generato a partire dagli inizi degli anni ‘90 la trasformazione della pensione pubblica in sussidi di povertà per l’anziano. Perchè è avvenuto questo? Perchè sono state effettuate scelte che sono in violazione della stessa costituzione repubblicana (l’articolo 38 stabilisce che lo stato deve garantire ai suoi cittadini il mantenimento del reddito in caso di malattia, di infortunio, di vecchiaia, di invalidità)?
Quando sono state fatte le riforme, soprattutto con la Dini del 1995, è stato detto, per le ragioni assolutamente infondate che ho appena enunciato, che non si può andare avanti con la pensione pubblica, che bisogna ridurla perché il sistema non è in grado di sostenerla. Dobbiamo tagliarla, ed infatti è stata tagliata dalla Dini, e bisogna far partire la previdenza integrativa. Che cos’è la previdenza integrativa? Sono i fondi pensione. Qual è la differenza tra previdenza integrativa e pensione pubblica?
Certo, la previdenza integrativa è privata.
Però il dato importante non è questo, perché se il fondo fosse dentro l’INPS non è che la cosa cambierebbe tanto e questo lo vorrei dire a coloro che sostengono l’idea molto arretrata di costituire fondi gestiti dall’INPS.
La differenza che c’è tra previdenza pubblica e pensione integrativa è nel sistema di finanziamento. La previdenza pubblica è a ripartizione, ossia i soldi non vengono messi da parte: i contributi versati oggi dai lavoratori servono a pagare le pensioni a quelli che sono andati in pensione ieri. Non c’è accumulo di denaro. E’ un sistema che si fonda sulla cosiddetta “solidarietà intergenerazionale”: uno assicura la pensione a chi è già in pensione riconoscendo che le condizioni in cui lavora sono merito di chi lo ha preceduto, con la certezza che chi verrà dopo di lui gli assicurerà alla stessa maniera la pensione.
Questo è il sistema a ripartizione: un sistema non costoso e senza rischi. Siccome non ci sono capitali che possono volatilizzarsi e i soldi che entrano escono immediatamente per pagare le pensioni, ci sono costi assolutamente marginali ed i rischi sono estremamente bassi.
Per la pensione integrativa e per i fondi pensione funziona invece il sistema di finanziamento a capitalizzazione. Ciò significa che ognuno deve pensare per sé. Ognuno deve mettere da parte i soldi per la sua pensione. Tanti soldi metterà da parte, tanti soldi riceverà come pensione. È quindi un sistema che si basa sull’accumulo di denaro. Questo sistema è in realtà inefficace ed inefficiente per diverse ragioni. Comunque ci sia accumulo di denaro, ovunque si formi un malloppo, c’è il rischio che questo si perda. Per diverse ragioni: perché viene rubato (quello che hanno fatto la ENRON, la Parmalat è un furto), o perché ci può essere un periodo di svalutazione, di iperinflazione, per cui il gruzzolo diventa carta straccia. E’ quello che è successo in Italia con la pensione pubblica. Prima della guerra la pensione pubblica era a capitalizzazione: chi è andato in pensione subito dopo la seconda guerra mondiale si è ritrovato con un pugno di mosche. Prima della guerra c’era la canzone “Se potessi avere mille lire al mese”, subito dopo la guerra con mille lire compravi ben poco. Gli stipendi erano già intorno alle cinquanta-sessanta mila lire al mese subito dopo la guerra. Il che significa che il capitale accantonato dal lavoratore prima della guerra, dopo la guerra non valeva più nulla. Il sistema a capitalizzazione è per sua natura assolutamente inefficace ed inefficiente. La previdenza dovrebbe significare garanzia del mantenimento del reddito una volta andati in pensione. Il sistema a capitalizzazione comunque organizzato non può dare questa garanzia a meno che non intervenga ad un certo punto lo Stato a salvare dal fallimento chi è rimasto senza una lira. Il sistema a capitalizzazione è quindi, ripeto, inefficiente.
Si dice però che siccome la pensione pubblica non può reggere, dobbiamo offrire qualcosa di diverso. Il sistema dei fondi pensione è un sistema che si basa in realtà sul tentativo da parte del fondo pensione di far fruttare sui mercati finanziari il capitale che il lavoratore gli consegna. I dati reali, che sono verificabili da tutti, indicano che non c’è alcuna garanzia che i fondi pensione siano in grado di garantire gli stessi rendimenti che il TFR garantisce per legge (1,5 + 75% dell’inflazione). Non c’è alcuna garanzia.
Ma c’è anche di più. Qualche giorno fa è uscito su un giornale un articolo in cui si diceva che i fondi negoziati, cioè quelli sindacali che hanno linee di investimento più conservative, cioè considerate più prudenti in quanto gran parte degli investimenti non sono sull’azionario ma sul monetario, sono andati malissimo rispetto al TFR. La conclusione era che bisognerebbe che si scegliessero soluzioni più rischiose. In realtà questo fatto è vero. Se un lavoratore vuole sperare di avere fortuna all’interno di un fondo pensione dove rischiare di più. In ogni operazione finanziaria, l’elemento base è il rischio che è inversamente proporzionale alle speranze di rendimento. L’articolo che citavo faceva questo ragionamento: se vuoi sperare di avere dei rendimenti alti devi scegliere le linee di investimento più aggressive. Aumentare i rischi in maniera inversamente proporzionale significa esattamente negare la natura previdenziale del tipo di intervento che si va a richiedere. E’ quindi da un punto di vista strutturale che i fondi pensione non sono strumenti adeguati a garantire una pensione ai futuri pensionati.
Quello che viene detto è: la pensione pubblica è stata tagliata perché bisogna pur garantire in qualche maniera la pensione ai pensionati del futuro. Il problema è che i fondi pensione, a dispetto del nome, non assicurano una pensione; quella dei fondi pensione, non è una pensione. Anche nel suo nome c’è un inganno. I fondi pensione non fanno altro che accumulare un capitale. Siamo in presenza di una forma di risparmio gestito, cioè i soldi vengono accumulati ed il fondo cerca di farli fruttare con tutti i rischi cui accennavo prima. Dopodiché quando una persona va in pensione, questo capitale viene affidato ad un’assicurazione, cioé il 50% può essere riscossa, il 50% obbligatoriamente viene affidato ad un’assicurazione che dietro pagamento si incarica di spalmarlo per gli anni di speranza di vita della persona. Poniamo che l’ISTAT stabilisca che gli anni di speranza di vita sono ottant’anni. Se uno è andato in pensione a 65 anni, quella cifra viene spalmata per gli anni dai 65 agli 80 anni, e quindi per quindici anni. È quella la cifra, non un’altra, e non c’è possibilità di modificarla, se non per una rivalutazione nel tempo sulla base degli interessi dei depositi bancari. Se l’ISTAT stabilisce che è aumentata la speranza di vita, si riduce l’assegno perché quella stessa cifra viene spalmata sul periodo maggiore.
Attenzione! I fondi pensione sono obbligati a fare l’assicurazione contro il rischio di sopravvivenza dell’assicurato, perché se uno campa di più rispetto a quello che ha stabilito l’ISTAT, ci vorrebbero più soldi. Perciò ci vuole un’altra assicurazione che copra le mensilità successive al momento in cui uno ha avuto la faccia tosta di non morire. Per le donne la situazione è ancora peggiore perché siccome le donne vanno in pensione prima ed hanno una speranza di vita maggiore, pur avendo lavorato lo stesso numero di anni e pur avendo versato la stessa cifra, hanno un assegno più ridotto in quanto quella stessa cifra sarà spalmata su un numero maggiore di mesi, di anni. E questa sarebbe una pensione? Eppure ci dicono che bisogna ricorrere ai fondi pensione perché altrimenti il pensionato non avrà una pensione. In realtà quella non è una pensione. È un capitale che uno si può fare in qualunque maniera: comprando una casa, con i fondi gestiti, prestando il TFR al datore di lavoro, esattamente come succede con il TFR.
Il TFR è un forma di risparmio gestito esattamente come quello dei fondi pensione. Se uno ha la fortuna ormai remota di andare in pensione dopo aver lavorato per quarant’anni con la stessa azienda (da questo punto di vista è un po’ più facile per i dipendenti pubblici) può prendere quel malloppo, andare da un’assicurazione e dirgli: “senti, spalmamela per quindici anni attraverso una forma di rendita esattamente come avviene con il fondo pensione”. Non c’è alcuna differenza. Le differenze sono che il TFR è certo ed è rivalutato l’ 1,5+75% dell’inflazione. Questo significa che è stato rivalutato con una media dell’ 8% annuo tra il 1965 ed il 2005, periodo nel quale, certo, abbiamo avuto un inflazione terrificante, però mi trovassero, i signori sostenitori dei fondi pensione, un arco di quarant’anni senza periodi di iperinflazione. Mi devono quindi spiegare come fanno ad ipotizzare per i prossimi quarant’anni un periodo di bassa inflazione come fa il fondo Espero per la scuola, che stabilisce che la media dell’inflazione nei prossimi quarant’anni sarà del 2%! E’ così che stabilisce che i rendimenti netti del TFR saranno del 3%, per cui poi fa delle proiezioni sul suo sito e dice che con il fondo pensione si guadagna. Cioè, stabilisce che l’inflazione è al 2% per cui c’è una rivalutazione del TFR al 3% e stabilisce, evidentemente per decreto divino, che il fondo invece avrà una rivalutazione netta del 4%... e poi dice:”Vedete, ci guadagnate con il fondo”. Queste sono truffe, e la cosa è abbastanza evidente. Il problema reale è che il TFR tra il 1965 ed il 2005 ha avuto una rivalutazione media annua dell’8%. Vorrei vedere quale fondo pensione sarebbe in grado di ottenere una prestazione simile, considerato che un dato negativo annuo per il TFR è impossibile. Mi spiego. Poniamo che un anno un fondo pensione perde il 50% e l’anno successivo guadagna il 50%. Attenzione, perché quando sui giornali fanno le tabelle e fanno questo conto, fanno la somma aritmetica, ma in realtà le cose non funzionano così. Il 100 nel momento in cui c’è stata una perdita del 50% diventa 50%. Quando c’è un guadagno successivo del 50% si va a 75%, non si ritorna a 100. Questi sono meccanismi che si guardano bene da evidenziare. Questo con il TFR non può avvenire perché al minimo il TFR ha comunque la rivalutazione del 1,5%. Con un’inflazione allo 0% (magari!), ci sarebbe una rivalutazione del 1,5% .

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