giovedì 29 novembre 2007

Naturale?

Ai credenti cattolici

In queste mesi i vertici della Chiesa Cattolica sono protagonisti della scena politica italiana.
Nel merito, il dibattito sembra concentrarsi sul diritto o meno della Chiesa ad esternare le proprie convinzioni, raccomandazioni. Di impartire ai fedeli, in specie a quelli impegnati in politica, le proprie direttive. Se sia corretto che la Chiesa – i cui rapporti con lo Stato italiano sono regolati dal concordato - entri “a gamba tesa” nel dibattito politico nazionale.
Sinceramente questi sono aspetti che non mi appassionano. In politica, gli spazi politici si conquistano sulla base dei rapporti di forza reciproci e se le parole del papa o dei vescovi hanno in Italia una simile rilevanza la cosa va assunta per quello che è facendone discendere le diverse determinazioni.
Quella che mi sembra, al contrario, assolutamente carente è la discussione nel merito di quanto viene detto dai vescovi, ed è su questo che vorrei fare qualche considerazione da sottoporre all’attenzione in primo luogo proprio di coloro che si professano credenti.
La famiglia formata da un uomo ed una donna e dai loro figli è la famiglia naturale?
Se esaminiamo (appunto) la “natura”, un’affermazione come questa, che a prima vista può apparire fondata, in quanto basata sulla riproduzione biologica della specie, si derubrica ad “una” tra le diverse possibilità che si osservano in natura. Possibilità che stanno tra loro su un piano paritetico, cioè non riconducibile ad una scala di prevalenze, che renderebbe le soluzioni diverse tanto meno succedanee quanto meno contingue all’ipotesi assunta nella domanda.
In “natura” la riproduzione della specie è assicurata da un’impressionante varietà di soluzioni che, a partire dalla partenogenesi, giunge sino alle forme più evolute dei mammiferi.
Se ci limitiamo a solo quest’ultimi, riscontriamo sia comportamenti monogamici e sia comportamenti poligamici. Scopriamo comportamenti sessuali di branco in cui, a volte, abbiamo una femmina dominante ed a volte, un maschio dominante (con implicazioni radicalmente diverse nelle dinamiche di branco). Verifichiamo comportamenti “familiari” con le cure parentali assicurate da entrambi i genitori e comportamenti in cui le cure parentali sono assicurate da un solo genitore (quasi sempre, ma non sempre, la femmina) senza alcuna partecipazione dell’altro.
Nulla mostra come una di queste soluzioni sia la più “naturale” o la più efficiente sul piano della riproduzione della specie.
Se restringiamo il campo ai comportamenti degli animali più prossimi all’uomo, i primati, verifichiamo che il comportamento di gran lunga prevalente è quello del branco con, in genere, ma non esclusivamente, un maschio dominante, l’harem delle femmine cui è demandata la cura – spesso collettiva - della prole, e il gruppo dei giovani maschi.
Se passiamo dall’etologia all’antropologia verifichiamo come anche nel comportamento umano si annoverano una miriade di soluzioni. Si va dalla poligamia, all’androgenia, da forme claniche di organizzazione sociale (dove ad esempio, la cura della prole a volte è demandata al fratello della madre o dove le cure parentali sono assicurate collettivamente dalle donne) ad ogni forma di famiglia allargata (e proprio nella Bibbia vi è in proposito un interessante catalogo) sia patriarcale che matriarcale.
E’ solo in tempi relativamente moderni e sopratutto nella cultura cosiddetta occidentale che si afferma come prevalente la famiglia composta da padre, madre e prole – anche come semplificazione della famiglia allargata patriarcale di tradizione contadina.
Da queste brevi considerazioni, che non hanno voluto far altro che portare all’attenzione alcuni elementi oggettivi - in genere inopinatamente sottaciuti – emergono delle ovvie considerazioni.
Quella che oggi viene percepita come famiglia “tradizionale” è il risultato di un processo culturale che ha portato detta forma di organizzazione sociale ad essere assunta come prevalente (ma non esclusiva) nella nostra società contemporanea.
La famiglia cosiddetta tradizionale è il portato di un’evoluzione culturale e come tale non può, peraltro, che essere transitoria, dovendo soggiacere alle ulteriori, future evoluzioni culturali della società umana.
Se sul piano dell’etica o della morale è comunque lecito assumere, come fondamento culturale, il modello della famiglia tradizionale, attribuire a questa “famiglia” una patente di “naturalità” e una discendenza da una presunta legge naturale è antiscientifico, bizzarro e soprattutto, come vedremo, grave e pericoloso.
Ma prima occorre affrontare un altro aspetto.
Lo scopo di una famiglia è la riproduzione biologica?
Anche in questo caso l’affermazione può apparire in una qualche maniera fondata.
Se però si affronta la questione da un punto di vista un po’ più approfondito non si può non notare come l’aspetto della riproduzione biologica sia elemento, sì necessario, ma non indispensabile sul piano delle relazioni a fini riproduttivi.
Alla riproduzione della specie concorrono quantomeno – anche in questo caso senza essere riconducibili ad una scala gerarchica di prevalenza – la riproduzione biologica, il recupero dei mezzi di sostentamento, la trasmissione delle conoscenze e abilità, la trasmissione del patrimonio etico e morale.
Questi fattori sono tutti parimenti necessari ed indispensabili alla riproduzione della specie e, per tutti, ove l’aggregazione sociale di tipo “familiare” in questione sia deficitaria in questo o in quel fattore, dovranno essere le relazioni sociali più larghe a supplire dall’esterno per garantire i fini riproduttivi.
Attribuire ad un’aggregazione sociale di tipo “familiare” un valore sulla base del criterio della rispondenza ad uno solo dei fattori appena citati è quantomeno arbitrario.
Per spiegarmi. E’ come se le famiglie che ricorrono alla pratica dell’adozione o dell’affido in presenza dell’impossibilità della riproduzione omologa della coppia, venissero, per il loro deficit biologico, declassate ad altra cosa e non potessero godere dello status di famiglia.
Si dice.
“Certo, ma in questo caso la scelta è determinata da un problema di natura biologica e non è riconducibile ad una scelta degli individui. Diverso è il caso delle unioni omosessuali in cui sono le scelte contro la legge naturale degli individui a comportare la sterilità.”
Ancora una volta si torna ad invocare una presunta legge naturale contro cui cozzerebbero comportamenti quantomeno “disordinati” degli individui.
Ma l’omosessualità è un comportamento “disordinato”?
Da tempo la scienza ha fatto chiarezza sul fatto che il tema dell’identità sessuale non ha nulla a che spartire con il “disordine” mentale e sociale degli individui e come l’omosessualità sia comportamento diffuso non solo nella specie umana ma in molte specie animali.
Se, ad esempio, il bisonte è animale che indulge allegramente a pratiche omosessuali, o gli si attribuisce un’etica e una morale cui contravviene peccaminosamente, o si deve, giocoforza, riconoscere l’omosessualità come variabile naturale dei comportamenti sessuali.
Ergo: se anche in questo caso è lecito assumere, come fondamento etico e morale la pratica delll’eterossessualità, è comunque antiscientifico, bizzarro e soprattutto, come vedremo, grave e pericoloso negare come l’omosessualità sia nell’alveo della presunta legge naturale.
Ovviamente in questo ragionamento vi è l’inevitabile corollario del valore che viene attribuito al sesso ed alle pratiche sessuali.
Generalmente alle pratiche sessuali viene attribuita una doppia valenza: una riproduttiva ed una relazionale.
Al sesso e alla pratica sessuale viene generalmente riconosciuta una funzione relazionale tra gli individui cui l’etica prevalente attribuisce un valore sulla base della profondità della relazione che sottendene la pratica. Sono la morale ed i precetti cattolici che associano in maniera inseparabile il sesso alla riproduzione.
Anche in questo caso vengono invocati uno scopo ed una funzione “naturali” del sesso, cui gli individui verrebbero meno con comportamenti “dissoluti”.
Se però andiamo a vedere quello che realmente avviene in natura notiamo anche in questo caso come non vi sia un modello univoco di comportamento, anzi, maggiore è lo sviluppo sociale della specie animale, maggiore è la funzione relazionale cui assolvono i comportamenti e le pratiche sessuali rispetto all’aspetto riproduttivo.
Ma se questo è evidente nelle specie sociali, organizzate in branco, vi è un’altra considerazione dirimente.
Le specie per le quali l’attività sessuale è inscindibilmente correlata alla riproduzione sono caratterizzate dalla sostanziale impossibilità fisica ad avere rapporti sessuali in periodi non fecondi.
Le femmine sono caratterizzate dal “calore” che le rende fisicamente pronte alla penetrazione, in altri periodi impossibile, mentre i maschi, eccitati dai feromoni prodotti dalle femmine in calore, hanno spesso un sostegno osseo di ausilio alla penetrazione all’organo riproduttivo.
Le specie che indulgono i comportamenti sessuali slegati dalla riproduzione (tra questi anche quelli omossessuali) non hanno queste limitazioni fisiche e, tra queste, la specie umana è caratterizzata da stati di eccitazione dei partener totalmente slegate dallo stato di fecondità o meno della donna (altrimenti non avremmo certo nascite indesiderate).
Nella sostanza è nell’alveo della presunta legge naturale che nella specie umana la funzione relazionale delle pratiche sessuali prescinda dalle finalità riproduttive e se è legittimo che vengano assunti precetti morali che assumano la funzione riproduttiva come elemento cardine della vita sessuale delle persone, è ancora una volta antiscientifico, bizzarro e soprattutto grave e pericoloso assumere questo comportamento come l’unico rispondente ad una presunta legge naturale.
Grave e pericoloso perché spostare delle convinzioni e dei precetti etici e morali sul piano della presunta legge naturale pone contro la legge naturale ogni inosservanza ed ogni devianza da quelle convinzioni e da quei precetti, fa divenire l’altro da te contro-natura, preda dell’aberrazione, qualcuno cui non si riconosce la dignità di un’altra etica e di un’altra morale.
Cosa rimanga oggi del Concilio Vaticano II e della Chiesa del dialogo, sinceramente non riesco a capire.
Ancora, quando si afferma che non bisogna soggiacere al “senso comune” in nome di una “verità” superiore di cui ci si è autoinvestiti, ci si imbarca su una strada estremamente pericolosa.
Il “senso comune” in politica – e quando si parla agli eletti dal popolo e di disegni di legge della repubblica, si parla di politica – non è altro che la volontà del corpo elettorale, quello che pensano gli elettori. La democrazia, si dice, è un sistema imperfetto di governo, ma finché vige uno stato di diritto democratico, i cittadini, gli elettori, il “senso comune” determinano le scelte che regolano il vivere comune di tutti i cittadini ed hanno il sacrosanto diritto di sbagliare.
Affermare che vi sono “verità” superiori, custodite da una gerarchia ecclesiale, che sovrastano le istituzioni dello Stato significa gettare le basi di una teocrazia, di una repubblica cattolica da affiancare di quelle islamiche.
Credo che i cristiani, coloro che si riconoscono nella Chiesta Cattolica Apostolica Romana dovrebbero interrogarsi sull’involuzione integralista e fondamentalista di una gerarchia ecclesiale che sta riportando indietro di almeno quattrocento anni, alla controriforma del Concilio di Trento e ai toni dell’inquisizione la loro Chiesa.

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