domenica 2 dicembre 2007

Emerald - Capitolo 7

Recuperò i documenti prelevati tra gli effetti di Jhob e se li mise davanti.
C’erano due cose che l’avevano colpito. Il nome della regione in cui s’erano perse le tracce di Jhob, Aither, ed ora, appunto, quel nome, Chronos, adottato da un’improbabile setta di quella povera gente.
Erano entrambi due nomi della cosmogonia orfica e non poteva certo trattarsi di un caso.
Del resto, lo stesso nome della stella, Uraneo, non era un’altra coincidenza improbabile?
Uranòs era il termine celeste di quel binomio cielo-terra, riportato nel testo della laminetta funeraria orfica che Jhob gli aveva inviato.
D’altra parte, l’altro fattore della coppia, Geo, non aveva la stessa desinenza di Pangea, il continente, la terra emersa di Emerald?
Certo, Pangea era anche un riferimento al continente originario della terra, prima che la deriva dei continenti ne frantumasse l’unità. Ma questo non toglieva nulla alle straordinarie coincidenze di quella toponomastica astrale.
Esaminò prima il Penthemuchos.
Come ricordava, in questa versione della cosmogonia orfica, il mondo ordinato sarebbe stato un antro dai cinque fondi, ovvero i cinque elementi dell’universo: acqua, aria, terra, fuoco e tartaro.
Il cosmo si sarebbe sviluppato da un caos primitivo, per virtù di impulsi successivi, dovuti a figure divine, che rappresentavano i valori filosofico morali, che erano alla base del pensiero orfico.
Tre erano le essenze primordiali che avevano operato l’ordinamento del mondo: Zas, che era il principio della vita, Chtoniè, il principio della materia e, appunto, Chronos, principio del tempo.
Era Chronos – appunto, Chronos, sottolineò a sé stesso Arthur - che aveva lottato e sconfitto Ophioneus, il serpente, che era il principio del caos.
Arthur, rifletté sui termini di questa lotta.
Certo, essa era paragonabile alle tante altre battaglie raccontate dalle più diverse mitologie terrestri, combattute dalle entità divine ordinatorie della luce e del bene, contro le forze generatrici delle tenebre e del male.
Ipotizzò che il serpente Ophioneus potesse identificarsi, per i miners, nella Mines & Stars e che in quel Chronos, di cui si dichiaravano naufraghi, fosse racchiusa tutta l’idea della grande lotta di liberazione che sognavano, per poter solo sperare in un’altra vita, rispetto a quella cui erano condannati.
Ma perché quei poveri cristi avrebbero dovuto ricorrere proprio a quella particolare simbologia?
E, soprattutto, come poteva essere arrivata fin lì dalle nebbie del passato e da 34 par/sec di distanza?
Passò allora alla ricostruzione del Lobeck e alla cosmogonia tratta dalle rapsodie orfiche.
In questo caso i tre elementi primordiali erano Chronos, Aither e Chaos.
Arthur ebbe un brivido di impazienza, come si poteva parlare di coincidenze?
Chronos aveva fabbricato nel seno di Aither un uovo, da cui era nato Phanes, il Brillante.
Il messaggio di Jhob aveva un riferimento preciso e diretto in quell’uovo.
Ma che significava, quando affermava di averci scoperto “la torre”?
Quale torre?
E poi, cos’era quest’uovo?
Qualunque cosa fosse – considerò Arthur – doveva comunque trovarsi nell’Aither, in quella misteriosa regione di Emerald.
Assentì col capo e continuò la ricostruzione del mito.
Phanes si era accoppiato con Nyx, la notte oscura, generando la coppia terra-cielo, cioè Geo-Uranòs, da cui era nato il vecchio Krono, che aveva generato Zeus, il quale a sua volta aveva generato, da Persefone, Dioniso.
Dioniso riceveva nell’orfismo il nome particolare di Zagreo, cioè diveniva il gran cacciatore di anime che travolgeva ogni cosa.
Era in sostanza una divinità ctonia, come la discendenza da Persefone, del resto, lasciava intuire.
Zagreo aveva ricevuto, da suo padre Zeus, il dominio sul mondo.
Ma i Titani, figli della Terra, elemento scuro e tenebroso, aizzati dalla gelosa Hera, avevano deciso di ucciderlo.
Zagreo - che era un bambino ingenuo - giocava nei campi, quando i Titani, utilizzando diversi oggetti, lo trassero in inganno.
Accortosi del pericolo, Zagreo aveva cercato di sfuggire alla presa cambiando forma.
Ma i Titani erano riusciti a catturarlo, proprio quando aveva assunto quella di toro.
Lo avevano fatto a brani e lo avevano divorato crudo.
Ma Athena aveva salvato il cuore del dio bambino, portandolo a Zeus.
Il quale lo aveva trangugiato, generando poi, da Semele, un nuovo Dioniso, gloriosa resurrezione dell’antico.
I titani, per la loro empietà, erano stati colpiti dalla folgore di Zeus.
Dalle loro ceneri era nato il genere umano, nel quale, perciò, si trovavano riuniti i due elementi, il bene e il male, il titanico e il dionisiaco, fusi insieme.
Tutta la disciplina orfica consisteva, appunto, nella liberazione dell’elemento luminoso, celeste, dionisiaco, che era l’anima, dall’elemento oscuro, materiale, titanico, che era il corpo.
Arthur non vedeva in questa parte del mito un nesso necessario con i segnali che Jhob gli aveva mandato.
Ma si chiese se quella Società dei Naufraghi di Chronos non potesse essere una sorta di confraternita orfica. In cui l’elemento “titanico”, da cui gli iniziati dovevano liberarsi con una vita irreprensibile, era costituito dalla Mines & Stars, con le sue clausole contrattuali, che li teneva inchiodati in quella sorta di verde Tartaro.
Già, ma l’orfismo presupponeva una colpa originaria di cui liberarsi.
E quale colpa potevano attribuirsi quelle, che non erano altro che vittime ingenue – come quel dio bambino – di quel mostro, perfettamente razionale e realistico, che considerava “normale” la loro condizione?
Per gli orfici, infatti, l’anima era divina ed il corpo era una tomba, in cui l’anima era precipitata in seguito ad una colpa primordiale.
La distanza tra questa prigione oscura e la sede beata a cui l’anima anelava di risalire, si poteva abbreviare e sopprimere solo a prezzo di una purificazione.
La purificazione aveva due possibili strade.
Una passava per il ciclo delle rinascite.
La seconda passava per la purificazione nell’Ade, luogo di terrore o di delizie, ma dove l’anima, per gli orfici, non trovava la propria pace.
Questa era possibile solo nella ricongiunzione nell’unico Zagreo.
E il testo, inviatogli da Jhob, di quella laminetta, che un orfico si era portato nella tomba, era una sorta di promemoria, di istruzioni per l’uso, per il viaggio nell’Ade.
All’ingresso avrebbe trovato due strade.
Una infausta, contrassegnata da un pioppo. Che conduceva al Tartaro.
E una buona, contrassegnata da un cipresso. Che conduceva, prima alla fonte Mnemosina, la fonte dell’oblio e, dopo, ai Campi Elisi. Dove, ben giudicato da Persefone, avrebbe atteso la ricongiunzione all’unico Zagreo.
Arthur ricordò in proposito la definizione che davano i neoplatonici, cresciuti nel solco del pensiero orfico.
“Nell’Uno che soffre e si perde effondendosi nella pluralità delle creature”.
Perché Jhob gli aveva inviato quelle istruzioni?
Quale percorso gli aveva voluto indicare?
C’era una strada che avrebbe dovuto evitare?
E quale?
Era perplesso ed ora si sentiva stanco.
La giornata era stata intensa e la notte era ormai fonda.
Si ricordò che il giorno emeraldiano era un po’ più corto di quello standard e che l’alba sarebbe arrivata prima di quanto il suo corpo prevedesse.
Si spogliò e si stese sul letto, cercando di svuotare la mente.
Non aveva abbastanza elementi per fare un’ipotesi sensata e non aveva senso far galoppare la fantasia.
Alla fine una spiegazione razionale sarebbe saltata fuori e, con essa, sperò sbadigliando, anche Jhob.
Si stava addormentando con un’unica decisione presa.
Il giorno dopo avrebbe fatto di tutto per essere presente alla riunione della Società dei Naufraghi del Chronos.
- Del?
Quella preposizione articolata gli stonò nella testa.
Si rialzò e andò a controllare il foglietto.
Si, non ricordava male, era un “del” e non un semplice “di”.
Si ridistese sul letto, tornato lucido.
Quell’articolo mutava il senso o, almeno, lo ampliava.
Quel Chronos poteva rappresentare il nome di qualcosa e non già l’identificazione mitica.
Poteva ricordare un reale naufragio, magari di una nave spaziale che portava quel nome.
Certo, ma restava il problema di quel nome dato ad una nave spaziale, o a cos’altro fosse, e del suo legame con Emerald e la sua stella Uraneo, con tutti quei riferimenti ad un’antica religione misterica.
Niente, l’unica soluzione era rendersi conto direttamente di che cosa si trattasse.
Ma con discrezione.
Non era il caso che il capitano Gile ne venisse, in una qualche maniera, a conoscenza.
La mattina dopo avrebbe cercato di ottenere qualche informazione su come muoversi per la città, senza l’assistenza del signor Ciang che, del resto – pensò – dovrà pur fare il lavoro per il quale è venuto su Emerald!
Si sentì ancora una volta in colpa, per aver abbandonato quel gentile omino a terra, davanti al ristorante, e considerò, con imbarazzo, il momento in cui si sarebbero incontrati.
Avrebbe dovuto fargli le sue scuse.
Finalmente s’addormentò.

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