domenica 2 dicembre 2007

Emerald - Capitolo 34

Con precauzione, si calarono all’interno, attraverso uno stretto camino, realizzato da due alti massi che s’andavano discostando.
Raggiunsero la base delle rocce e poggiarono i piedi su un terreno soffice, ricoperto di un specie di muschio alto e compatto.
Seguendo il perimetro delle rocce, si spostarono verso l’interno fino ad avere sulle teste la volta di pietra che, alla prima impressione, era parsa ad Arthur il labbro superiore di un mostro.
Il terreno scendeva verso il centro con una forte pendenza e s’abbassava, notevolmente, anche mano a mano che si allontanavano dal limite costituito dalla scogliera.
Lo spicchio di cielo che s’apriva in alto, dietro di loro, era del verde cupo del crepuscolo, ad oriente.
Decisero di non rischiare.
Lì erano al riparo da un’eventuale ricognizione aerea. E con la luce del mattino avrebbero potuto avanzare in quell’antro senza correre eccessivi rischi.
Avrebbero passato la notte sul posto.
Si resero conto di non avere né cibo, né acqua. Ma per quella notte ne avrebbero dovuto fare a meno.
La mattina dopo sarebbe stato diverso. La mattina dopo avrebbero dovuto trovare una soluzione.
Per l’acqua non avrebbero avuto problemi.
Quella zona, come del resto l’intera costa dell’Aither, era ricchissima di sorgenti e corsi d’acqua.
Per il cibo il discorso era diverso.
Nel percorrere quel tratto di terreno, dal punto dove avevano lasciato il caccia a quel promontorio, non avevano visto alberi da frutta. Questo non significava che non ce ne fossero, ma sicuramente che non fosse così semplice procurarsi il cibo.
E loro non erano nelle condizioni di girare tranquillamente, con gli uomini in nero che davano loro la caccia.
Ed entrare ed uscire da lì, con quelle lente arrampicate e quelle discese, e allo scoperto, e con quelle divise nere, sarebbe stato estremamente rischioso.
Ragionavano di questo, parlando sommessamente.
Come a non disturbare ciò che quel buio nascondeva, come fosse un velo impenetrabile di nulla.
Anche l’urlo del vento si spegneva in un sussurro, fuggendosene là, in alto, verso le paludi.
Ingrid gli aveva cinto il fianco con il braccio e teneva posato il capo sul suo petto.
Lui, le carezzava con la mano l’altro braccio.
Erano seduti a ridosso delle rocce, su cui Arthur poggiava la schiena.
Arthur era combattuto tra la tenerezza ed un qualcosa di molto prossimo all’angoscia.
Tenerezza, per quella macchina da guerra che se ne stava, ora, rincantucciata sul suo fianco, fragile e tenera, in un fiducioso abbandono.
E angoscia. Si, angoscia, per quella condizione definitiva che le loro scelte avevano determinato.
Non avevano più alternative.
La loro fuga aveva chiuso ogni possibile ripensamento.
Le ultime parole del capitano Gale gli pesavano addosso, come una pietra tombale.
Da questo momento in poi avrebbero potuto solo andare avanti. Sperando che la sua intuizione non fosse un’illusione.
Sperando di trovare Jhob e che Jhob avesse le risposte … e un piano.
Si chiese se avesse avuto alternative.
E si chiese se in realtà avesse mai avuto scelta.
Si chiese se non fosse stato niente altro che un burattino, costretto, da invisibili fili, a recitare un copione già scritto.
E si chiese se avesse importanza.
Quel capo assonnato sul petto era una risposta sufficiente.
- Ti amo.
Lei alzò il capo, cercando di guardarlo negli occhi. Ma il buio s’era fatto più fitto.
Gli carezzò il volto e l’attirò a sé.
Si baciarono.
Fecero l’amore a lungo, finché il sonno non li colse abbracciati.
Si svegliarono quando Uraneo iniziava a lambire l’apertura del loro rifugio.
Erano assonnati e avevano sete.
Si sollevarono a sedere e gettarono un’occhiata all’interno.
Un lucore verde si espandeva in profondità, apparentemente senza confini.
Mentre si tiravano in piedi per cercare di vedere meglio, il primo raggio della stella penetrò, diretto, dall’apertura, accendendo di smeraldo l’antro.
Era una caverna gigantesca.
Una caverna gigantesca a forma di uovo.
Era una specie di ovoide coricato su un fianco, con il soffitto bombato che si univa, senza soluzione di continuità, alle pareti ed al fondo.
Era una caverna viva.
L’intera superficie era un tappeto vegetale ricco e compatto.
Con il soffitto ricoperto da una vegetazione flessuosa e pendente da cui scendevano lunghe liane. E le pareti ed il fondo tappezzati di alberi.
Uraneo ora s’affacciava prepotente e la caverna risplendeva di luce.
E lì, sul fondo, qualcosa che s’alzava un po’ inclinata, per alcune decine di metri, rifletteva la luce con un riverbero accecante.
- La torre – mormorò Arthur – la torre nell’uovo di Phanes.
- E’ il Chronos – bisbigliò al suo fianco Ingrid – Non può che essere il Chronos.
Non conoscevano né la forma e né le dimensioni del modulo che s’era perduto trentuno anni prima. Ma quei riflessi metallici non sembravano poter lasciare adito a dubbi.
Erano molto distanti.
Non si vedeva alcun segno di attività o di presenza umana.
Avrebbero voluto raggiungere immediatamente la loro meta.
Ma la cosa non si presentava così semplice.
In primo luogo, loro si trovavano nella zona superiore della parte più stretta di quella specie di ovoide. Poco più avanti, rispetto a dove la sera prima avevano deciso di fermarsi, il terreno scendeva quasi verticalmente in una curva che s’andava, poi, progressivamente addolcendo sino al fondo.
Per un primo e lungo tratto, avrebbero dovuto servirsi dell’intreccio, prima delle liane e poi degli alberi, utilizzando i rami ed i tronchi di questi ultimi come una sorta di pioli di una scala.
La discesa sarebbe stata lunga e non avevano idea di quanto a lungo sarebbe durata la luce di Uraneo in quella grotta.
Al buio non avrebbero potuto pensare ad una risalita e senza cibo, né acqua, con una sete che già li torturava, sarebbero stati nei guai.
Rimasero a guardare la strada che avrebbero dovuto fare.
Poi, osservando la parete sulla loro destra, ad Arthur parve di riconoscere, più in basso, là dove la pendenza s’addolciva, dei piccoli alberelli, molto simili a quelli che tanto erano stati loro d’aiuto nel Lao Tze.
- Potrebbero essere da frutta – valutò, mentre li indicava a Ingrid.
Lei annuì.
- Tanto vale tentare di scendere da quella parte.
- Ma per l’acqua?
- Con tutta questa vegetazione non è possibile che la grotta non sia ricca di fonti. Ne troveremo.
Iniziarono a scendere, aiutandosi con delle grandi e resistenti liane.
Arrivarono rapidamente alle prime alberature, che crescevano con i tronchi ripiegati verso l’alto e la discesa divenne quasi divertente.
Fu ad una cinquantina di metri più in basso che incontrarono una piccola fonte di acqua Zampillava da una roccia, andando a disperdersi nel terreno sottostante.
Era confortevolmente gelida.
Si dissetarono a lungo, riposandosi un po’.
Gli alberelli si rivelarono effettivamente da frutta.
Erano dei pomi, piccoli e tondeggianti, dal sapore aspro. Probabilmente non erano maturi. Ma mangiabili e nutrienti.
Ormai, come fosse una consolidata abitudine, prelevarono con delicatezza un solo frutto per ogni albero, riuscendo a procurarsi anche una piccola scorta, sufficiente a riempire le tasche delle loro divise nere.
Proseguirono ancora un po’, con il terreno che consentiva loro, finalmente, di camminare lungo una discesa ripida, ma eretti.
Trovarono un’altra fonte d’acqua che formava una piccola polla e tornarono a fermarsi.
La grotta si stava spegnendo in un progressivo crepuscolo. Uraneo aveva proseguito nel suo cammino e, già da tempo, aveva cessato di irrorarla con i propri raggi.
Ora la luce del giorno stentava sempre più a raggiungere le viscere di quella terra.
Dal fondo il buio non appariva comunque impenetrabile come era sembrato loro la sera prima, dall’alto dell’imboccatura della grotta. Fuori, avrebbero avuto ancora mezza giornata di luce per proseguire.
Si dissetarono nuovamente e andarono avanti.
Il terreno era divenuto finalmente piano e il loro cammino divenne la traversata di un bosco incantato.
Camminare era agevole.
Gli alberi, diversi e di diversa dimensione, crescevano fitti, ma mai addossati gli uni agli altri.
Anzi, sembrava quasi che ogni pianta si fosse presa il giusto spazio, avesse preso le distanze dalle sorelle.
Ma solo quel tanto da consentirle di carezzarle e farsi carezzare dalle chiome.
Mentre procedevano, si può dire, passeggiando, tra le ombre di quel sottobosco, ad Arthur tornò in mente la quiete del Pool, allo stesso tempo così diverso e così simile a questo bosco sotterraneo.
Una punta di inquietudine gli fece pensare che non avrebbe voluto dormire sotto quelle fronde.
Ma poi, sorrise di sé e delle sue paure irrazionali.
Di gran lunga era l’uomo, il pericolo più grande che avesse incontrato, in quel suo peregrinare per quel pianeta.
Ma a questo punto era un’altra l’inquietudine che gli riaffiorava.
Durante la lunga discesa, finché la torre era rimasta in vista, nulla, non il più piccolo movimento, non la più flebile luce, avevano mostrato un qualche segno di vita provenire da laggiù.
E se tutto quel viaggio si fosse rivelato, alla fine, un’illusione?
Se alla fine Jhob ed il suo accompagnatore fossero stati effettivamente vittime di un incidente?
Magari precipitati nell’oceano, senza che di loro fosse rimasta alcuna traccia, anche per i mezzi della Sicurezza?
A cosa sarebbe valso quel loro essere arrivati alla fine della corsa?
Cosa avrebbe significato aver trovato il Chronos e dovervi restare accanto, inesorabilmente perduti?
Respirò profondamente ad alleggerire il peso che sentiva opprimerlo.
Ingrid gli afferrò la mano.
Lo tirò verso sinistra.
- Guarda – bisbigliò.
Una sagoma scura si intravedeva, appena, nel folto degli alberi.
Si avvicinarono.
Era un’aeronave allungata come un sigaro e sormontata da una carenatura simile ad una cresta. Verso la coda, tre protuberanze dissero ad Arthur che era dotata di ben tre Hidening.
- La Nemo – bisbigliò eccitata, Ingrid – La nave di Klaus.
Era sigillata.
I suoi occupanti l’avevano chiusa ermeticamente, quando l’avevano abbandonata.
Ora non vi era più dubbio alcuno.
Erano giunti alla loro destinazione.
Ed anche Jhob e Berensky vi erano giunti.
Ora restava da sapere se fossero ancora lì e cosa stessero facendo.
Si mossero più velocemente, desiderosi di trovare al più presto il Chronos e di svelarne, finalmente, i misteri.
Lo trovarono quasi subito, poco più avanti.
Era una struttura ottagonale, estremamente essenziale. Le superfici erano interrotte solo dalle protuberanze di antenne e sensori retrattili e dagli alloggiamenti degli organi di attracco all’astronave madre. Vi erano poi gli scarichi dei propulsori per i movimenti di traslazione.
Sembrava intatto, se non si osservava la base.
Il sistema di atterraggio era costituito da otto tralicci pneumatici retrattili che, uno da ogni lato dell’ottagono, s’andavano allargando, fino ad interessare, con le loro ampie basi d’appoggio, una larga area del suolo.
Sembrava che più di uno di quei tralicci, allora, avesse ceduto, compromettendo l’assetto del modulo, che era finito con la sua base, dove erano alloggiati i sistemi di propulsione principali, rovinosamente al suolo.
Il modulo non era caduto. Ma era rimasto fortemente inclinato e, soprattutto, con i propulsori principali danneggiati in modo pressoché irreparabile.
- Ma non è precipitato – constatò Arthur.
Ingrid assentì col capo.
- Certo, devono essersi salvati. Non sono morti nell’incidente.
- Ma non hanno inviato nessuna comunicazione alla Sirio. Perché?
- Non credo che il sistema radio si sia potuto danneggiare. Non capisco.
- E poi, perché si erano infilati in questa grotta? Non è stato facile far passare questa struttura per l’apertura.
- Molto più difficile di un atterraggio su un terreno piano come questo.

Nessun commento: