domenica 2 dicembre 2007

Emerald - Capitolo 26

Si fermò, con una perizia che lo sorprese, su un pianoro intorno ai duemila metri di altezza.
Aveva continuato in linea retta per quasi un’ora, fino a che le catene montuose non s’erano fatte appena più dolci.
Pulì la ferita alla testa della ragazza: era pallida e aveva la febbre.
Con la maggiore delicatezza di cui fu capace, la liberò delle cinture di sicurezza e la trasportò, in braccio, nella cuccetta.
Cercò il kit medico nell’aeronave e, con sorpresa, lo trovò completo. Benedì la previdenza di Ingrid.
Collegò la ragazza ai sensori della diagnostica, che confermò la frattura del braccio sinistro e l’incrinatura di due costole. Prescrisse medicinali, che sintetizzò ed iniettò direttamente nel braccio destro della ragazza.
Per le costole c’era solo bisogno di immobilità e riposo, mentre le medicine avrebbero accelerato il processo di guarigione. Ma occorreva, comunque, qualche giorno.
Per il braccio la cosa era più complessa. Prima che la macchina potesse immobilizzare l’arto, occorreva ridurre manualmente la frattura. Fortunatamente non era composta.
Arthur chiese alla macchina informazioni su come operare.
La tecnica era semplice e la diagnostica confermò il corretto posizionamento dell’osso, prima di procedere all’immobilizzazione dell’arto.
Arthur, era lo stesso madido di sudore.
Ingrid aveva ricevuto anche una dose di sedativi, che l’avrebbe fatta dormire almeno sino alla mattina dopo.
Arthur si sedette sul bordo della sua cuccetta, quasi incredulo.
Un vento furioso scaricava la sua impotenza contro lo sferoide della prua dell’aeronave e il turbine incessante della neve impediva qualsiasi visuale, ma erano salvi. Per il momento, si ripetette Arthur, per il momento.
Guardò il volto pallido di Ingrid finalmente disteso e si assopì.
Il giorno dopo Ingrid si svegliò appena, intontita dai sedativi e, dopo qualche monosillabo strascicato, si riassopì.
Arthur passò il giorno accanto alla donna, tamponandole – inutilmente – la fronte con un panno umido: aveva bisogno di sentirsi utile.
La tempesta di neve non aveva accennato a placarsi e Arthur poteva distinguere il giorno dalla notte solo dall’intensità di quella luminescenza verde, che avvolgeva brulicante la Green Queen.
Il giorno successivo Ingrid ebbe un vero periodo di veglia.
Arthur le preparò un pasto liquido caldo al distributore della cambusa e la imboccò, parlandole della sua infanzia e della sua famiglia.
Ingrid ascoltava silenziosa, rispondendo, ogni tanto, con qualche monosillabo.
Quella sera Arthur passò qualche ora alla radio, alla ricerca di un qualunque segnale. Non percepì alcunché.
La tormenta era continuata indifferente.
La mattina del terzo giorno Ingrid si svegliò decisamente in condizioni migliori.
La macchina diagnostica autorizzò il distacco dei sensori, pur prescrivendo altre quarantotto ore di riposo per le costole e altre sessanta ore di immobilizzazione per il braccio sinistro.
Arthur era euforico e non cessava di parlare e di muoversi attorno a Ingrid, colmandola di ogni possibile attenzione, che la ragazza sopportava, distesa nella cuccetta, con un sorriso rassegnato.
Anche la tormenta s’era finalmente attenuata e, di tanto in tanto, lasciava intravedere un frammento di cielo.
- Un fulmine. Siamo schizzati fuori come un fulmine – stava ripetendo per l’ennesima volta – E poi abbiamo iniziato a precipitare. Sant’iddio, se me la sono vista brutta! Quando sono riuscito a scendere di quota, la bufera non mi faceva vedere niente. Niente. Avevo bisogno di un posto largo e piano, per tentare di atterrare: non lo avevo mai fatto! E poi … un miracolo. Si, è stato un miracolo. La tormenta si è calmata per un momento e davanti a me si è aperto questo piano.
Si era chinato in avanti, a sistemare il cuscino che aveva messo sotto il braccio sinistro della ragazza, di là, accanto alla fusoliera del’aeronave.
Ingrid l’aveva seguito con lo sguardo.
- Mi sono detto: O adesso o …
La ragazza gli aveva preso la nuca con la mano destra e gli fece girare la testa verso la sua, viso su viso. L’avvicinò, piano, e lo baciò.
Lui rispose al bacio.
- Così starai zitto, testone di un rainbowed – mormorò sorridendo, mentre lui si perdeva nell’oceano dei suoi occhi.
Fu un giorno di silenziose, piccole tenerezze.
Si, Arthur provava una grande tenerezza mentre teneva nella mano, la mano della ragazza.
Ora sentiva di comprenderla come mai avrebbe potuto comprenderla prima. Ora si.
Ora sentiva di poter capire, con un misto di sgomento e ammirazione, anche i greenfree e la loro follia.
Nulla, neanche l’immensità degli spazi siderali, svelati dall’oblò di una nave spaziale, erano paragonabili ad Emerald nella sua memoria.
Probabilmente era stata quella precarietà, quell’assenza di filtri tecnologici, quello scoprirsi fragile, indifeso, al di fuori della tutela della società umana, a trasformare quell’avventura in un’intima esperienza di vita.
E in questa esperienza, Ingrid brillava della sua luce abbagliante. Spigolosa e dura, come una pietra preziosa, e fragile, come un sogno dell’alba.
- Siamo bloccati?
- Con gli Hidening esauriti e il computer di volo fuori uso, non possiamo certo tornare per la Cruna – gli rispose, mormorando Ingrid.
Scoprì che la cosa non rivestiva una grande importanza, ormai.
Forse un giorno la Compagnia avrebbe inviato da quella parte un traghetto suborbitale.
Forse un giorno li avrebbero scovati.
Ma non importava.
Lui era oltre la Cruna. Oltre una soglia da cui il tornare al prima non era dato.
E l’unica cosa che sentiva importante era avere Ingrid con se.
Quella sera Ingrid volle che facesse un ceck up della Green Queen, seguendo al quadro di comando le sue indicazioni.
I danni si rilevarono meno gravi di quel che avrebbero potuto temere. Ma non erano comunque in grado di riparare il computer e gli Hidening avrebbero dovuto essere ricaricati in un impianto attrezzato della Compagnia.
Ingrid parve particolarmente preoccupata del livello energetico della propulsione antigravitazionale, decisamente basso.
- Dovremo risparmiare il più possibile – disse – E per prima cosa dovremo muoverci da qui. L’impianto di climatizzazione assorbe troppa energia.
- Dove andremo?
Ingrid alzò leggermente le spalle, in quel suo consueto gesto.
- Avanti, fino all’Aither – rispose semplicemente, lo sguardo puntato oltre le pareti della Green Queen – Non senti?
- Cosa?
- Ci chiama.
Arthur si volse a guardare fuori dell’aeronave.
La notte aveva ovattato di nebbia il pianoro.
Partirono la mattina dopo, alle prime luci di un’alba solcata da nubi, che correvano veloci verso occidente.
Ingrid, rilassata, sul sedile di destra, che dava indicazioni e piccoli consigli ad Arthur, alla guida della Green Queen.
Partirono diretti ad est, in direzione dell’oceano.
Lentamente le montagne digradarono, con loro impegnati ad individuare valichi e passaggi che non impegnassero oltre il dovuto la propulsione dell’aeronave.
E, lentamente, le montagne cedettero il passo ad un paesaggio lussureggiante.
Fatto di piatti altipiani, ricoperti di una vegetazione compatta e ineguale.
Ricco di fiumi e grandi laghi.
Un paesaggio che ad Arthur ricordava, questo si, molto di più del Pool, la foresta amazzonica.
Molto presto il cielo si richiuse sotto una pesante coltre di nubi ed iniziò a cadere una pioggia torrenziale, continua ed opprimente, che riduceva di molto la visibilità, colorando di tinte fosche quel paesaggio così ricco di vita.
- E pensare che questa dovrebbe essere la buona stagione – commentò Ingrid, scuotendo il capo.
Passarono il resto della giornata in quelle condizioni e, solo vicino al tramonto, dinanzi a loro si levarono dei monti, non alti, sulle cui cime arrotondate si aprivano brevi radure, libere da piante, se non bassa erba e muschio.
Decisero di passare lì la notte, anche se il vento dell’est sibilava incessante e violento, minacciando di spazzare via ogni cosa.
Non tentarono neanche di uscire dalla Green Queen.
Si limitarono a mangiare un pasto caldo aromatizzato e si avvolsero nelle coperte recuperate nella cambusa. Avevano abbassato, e di molto, il termostato del climatizzatore, per risparmiare energia.
Ma non si lamentarono.
Si difesero dal freddo scaldandosi l’un l’altra.
L’alba fu livida ma limpida.
Il vento aveva schiacciato le nubi ad occidente.
Ripresero il viaggio discendendo quella catena di monti. Il lato ad est era un manto compatto d’erba piccola e grassa.
- Questo versante è esposto ai venti – considerò ad alta voce Arthur – e questi prati sono la soluzione più logica.
- Che vuoi dire? – gli chiese perplessa Ingrid.
- La foresta che abbiamo sorvolato ieri è in una specie di catino naturale, con questi monti che le fanno un minimo da scudo dai venti che arrivano dall’oceano. Con tutta l’acqua che cade, deve essere una specie di pantano e, infatti, quella sembra una foresta pluviale. Da questa parte, invece, il vento spazza ogni cosa e la vegetazione più appropriata è proprio quella bassa, che non oppone resistenza, che si piega, assecondando il vento. Deve avere radici profonde e, guarda, guarda come è grassa, ricca d’acqua. Protegge il terreno dai dissesti idrogeologici che queste piogge provocano.
- Ma non sei un archeologo?
- Qualcosa devo comunque sapere, per capire se un ecosistema sia naturale o sia indotto dall’uomo. Sulla Terra, ben poco di ciò che viene ritenuto naturale è realmente tale. La grande parte degli ecosistemi attuali è il frutto di migliaia di anni di colonizzazione umana.
- La terra, colonizzata?
- Anche se ci siamo nati, ce ne siamo appropriati un po’ alla volta, sai? In genere si scambia un ecosistema in equilibrio, autosufficiente, in grado di riprodursi autonomamente, come un ecosistema naturale. Ma non è così. Non è che l’uomo sia necessariamente matto. Ogni tanto riesce anche a fare qualcosa di buono. Per lo meno, a non fare danni.
Aveva preso a fare il professore.
Forse era una sorta di difesa, una ricerca di normalità.
Forse cercava di ricondurre su ritmi consueti la sua vita, ora che la sentiva definitivamente cambiata, definitivamente diversa.
E Ingrid lo lasciava fare.

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