domenica 2 dicembre 2007

Emerald - Capitolo 31

Giunsero in una parte del cargo diversa da quella in cui c’era la sua cella.
Quello che sembrava a capo dei quattro gli fece cenno di fermarsi.
Ubbidì.
L’uomo andò più avanti sino ad una porta metallica. Fece scorrere il piccolo pannello che nascondeva la tastiera e la porta si aprì scivolando nella paratia. Scrutò all’interno, a sincerasi che tutto fosse in ordine, poi si volse verso Arthur, facendogli cenno di avvicinarsi.
Ingrid era seduta su una branda identica a quella della sua cella. Indossava, come lui, una tuta da miner. Era pallida, terribilmente pallida e ad Arthur parve smagrita. Ma non aveva segni di percosse fisiche.
Il suo sguardo era assente, fisso in un punto lontano oltre le pareti della nave.
- Ingrid!
Passò qualche attimo prima che il suono di quella voce le giungesse riscuotendola.
Lo guardò, finalmente incredula.
- Arthur!
E gli occhi le si riempirono di lacrime.
La abbracciò stringendola forte.
- Va tutto bene, Ingrid, va tutto bene.
- Mi hanno interrogato per ore – sussurrò Ingrid – Sempre le stesse domande. Sempre le stesse minacce. Chi eri in realtà. Per chi lavoravi. Cosa eri venuto a fare nell’Aither …
- Va tutto bene, Ingrid – ripeté Arthur, carezzandola con dolcezza – Ho un mezzo accordo con il capitano Gile.
Ingrid lo guardò in viso con un’espressione interrogativa.
- Devi fidarti di me – insistette Arthur – come hai fatto quando eravamo nel Lao Tze.
Ingrid restò perplessa solo per una frazione di secondo. Poi lo fissò negli occhi, strabuzzando i suoi.
Arthur accennò appena ad un si con il capo, lasciandosi andare ad un accenno di sorriso beffardo.
- Il capitano Gile – mormorò Ingrid in un sospiro, chiudendo gli occhi e scotendo la testa.
- Fidati di me, qualunque cosa accada. Spero di tirarti fuori di qui il prima possibile.
L’uomo in nero gli mise una mano sulla spalla e gli fece cenno che era ora di andare.
- Fidati di me – disse ancora Arthur e la baciò.
Lo riportarono nella sua cella.
Mangiò con gusto il pasto aromatizzato del suo distributore e si stese sulla branda.
Cercò di immaginare i possibili sviluppi di quella situazione. Cosa avrebbe deciso di fare il capitano Gile.
Di una cosa però Arthur si sentiva sicuro.
Il capitano Gile non avrebbe rischiato di verificare la fondatezza del suo racconto. Non avrebbe cercato le prove del fatto che lui e Jhob fossero effettivamente sul libro paga della Compagnia.
Le circostanze straordinarie che lo riguardavano, e che proprio Gile aveva sottolineato il giorno prima, si intersecavano come tessere di un puzzle, disegnando una conferma indiretta, ma lampante, della storia che gli aveva propinato.
Quello non era un burocrate, un burattino senza cervello. Era un pezzo sulla scacchiera che giocava la sua personale partita.
Tutto stava a capire quale fosse questa partita. Come intendeva collocarsi e quale gioco intendesse giocare.
E tutto, stava nel suonare la sua musica.
Arthur confidava sempre più nel suo orecchio e nelle sue capacità di improvvisazione Doti insospettabili fino a solo pochi giorni prima, quand’erano assopite nella quiete dell’università.
Si ripeté che Gile era un uomo pericoloso, molto pericoloso. Che non si poteva permettere alcun errore. Il Nero non aveva e non avrebbe avuto alcuno scrupolo morale nel liberarsi di loro nel momento in cui li avesse giudicati inutili.
Ma restava comunque fiducioso.
Finì per assopirsi.
Fu risvegliato da un uomo in nero, che gli batteva una mano sulla spalla.
- Mi segua. Il capitano l’attende – disse l’uomo.
Anche quello era un segno di cambiamento, rilevò Arthur. Sino ad allora gli uomini del capitano Gile non gli avevano praticamente rivolto la parola, comunicando con lui solo a gesti e spinte.
Si tirò in piedi e, facendosi precedere dall’uomo, si avviò per i corridoi.
Questa volta erano solo in tre a scortarlo. Dietro di lui, infatti, c’era una coppia armata di storditori.
Si rese conto che non erano diretti al solito ufficio del Capitano.
E con sorpresa si ritrovò sul portello esterno del cargo sub orbitale.
- Scenda – l’invitò l’uomo che gli aveva già parlato.
Assaporando l’aria densa di umidità e carica della salsedine dell’oceano, scese sull’erba piccola e grassa del pozzo.
La luce di Uraneo disegnava un’area luminosa su un lato delle pareti del pozzo, senza raggiungerne il fondo. Era pomeriggio inoltrato … o forse, prima mattina, Arthur aveva perso la cognizione del tempo.
Vi erano alcuni alberi, alti e rigogliosi.
Vicino ad uno di questi, il capitano Gile era seduto su una di due poltrone ad aria, disposte accanto ad un tavolino termico. Tutto intorno, ad un’opportuna distanza, uomini in nero sorvegliavano, discreti.
- Si metta comodo, professore.
- E’ una piacevole sorpresa, capitano – disse Arthur, occupando l’altra poltrona.
- Gradisce un vero tè della terra?
- Accidenti, capitano! Lei mi confonde.
- Una fornitura di cortesia del capitano di una nave, che conosce questa mia debolezza. Ogni sei mesi reintegra la mia scorta. Certo, non potrei permettermi una spedizione commerciale.
Arthur sorseggiò il tè scuro e amaro, che il capitano gli aveva versato in una tazza, che sembrava essere di vera porcellana.
- Dunque professore, l’ho fatta venire per continuare la nostra discussione.
Arthur assentì con un cenno del capo.
- Chiariamo innanzi tutto una cosa. Non ho detto e non dico di crederle.
- Ma …
Gile lo fermò con un gesto della mano.
- Ma questo è un aspetto che non riveste una grande importanza.
- No?
- No, professore. Che lei sia effettivamente al servizio della Mines & Stars, o al servizio di qualche altra organizzazione, che si batte per il controllo economico della Confederazione, per me fa poca o nessuna differenza.
- Non riesco ad afferrare il suo punto di vista, capitano.
- Vede, professore. Emerald è il mio pianeta. Ci sono arrivato venticinque anni fa. Ero un giovane di belle speranze. E’ così che si dice, no? Con un contratto di agente della Sicurezza. In venticinque anni ho fatto la mia strada, la mia carriera. Fino a divenire, poco più di dieci anni fa, responsabile della Sicurezza per l’intero pianeta. Lei capisce cosa significa essere il responsabile della sicurezza di un pianeta, gestito attraverso un contratto di concessione mineraria?
Arthur scosse la testa, interdetto.
- Partiamo dall’inizio. Le decisioni importanti, gli investimenti, le scelte strategiche sono decise dal Consiglio di amministrazione della compagnia. Che è lontano, nella sede, ad anni luce di distanza dal pianeta. Sul pianeta ci sono i direttori. Uno per ogni settore. Uno per ogni linea di intervento, con la sua brava coda di dirigenti. Ma i direttori sono solo gli esecutori delle scelte, delle decisioni del Consiglio di amministrazione. Devono rispettare gli obiettivi del Consiglio e rispondono dei risultati negativi.
- Ma un pianeta non è un semplice stabilimento di produzione - mormorò Arthur.
- Bravo professore. No, non lo è. Quel pianeta è la casa di centinaia di migliaia di persone che, certo, lavorano, ma non solo. Mangiano anche. Dormono. Sognano. Pensano. Si innamorano e si odiano. Fanno figli e muoiono. Quel pianeta è un mondo che deve essere governato.
- Governato?
- Si professore, governato. Chi è che stabilisce cosa sia lecito e cosa non lo sia? Chi ha la forza per far rispettare quelle decisioni? Chi ha il potere per condannare o assolvere?
- Lo Stato.
- Lo Stato, in un pianeta affidato in concessione non c’è, professore. Oppure, lo Stato, su Emerald, sono io.
Arthur assentì in silenzio.
- La vita e la morte su Emerald sono affare della Sicurezza. E’ la Sicurezza che dà e toglie la libertà. E’ la Sicurezza che premia e punisce. E la Sicurezza risponde direttamente e soltanto a me. Questo pianeta, professore, è mio.
- Capisco il suo punto di vista.
- Ora comprenderà perché trovi quantomeno disdicevole che qualcuno, chiunque esso sia, voglia mettere le mani sul mio pianeta, e buttarlo all’aria per i suoi sporchi affari?
- Perfettamente, capitano.
- E comprenderà che sono pronto a fare di tutto perché questo imbroglio non vada in porto.
- Le ho già offerto la mia collaborazione, capitano. Non sento alcun dovere di lealtà per chi mi ha ficcato in questo guaio.
- Professore, comprenderà che non ho alcuna intenzione di fidarmi di lei. Mi dia la più piccola occasione e le farò rimpiangere d’essere venuto al mondo.
- Mi sta prendendo per uno stupido?
- E perché non per qualcuno che si crede troppo furbo?
- Cosa posso fare per convincerla?
- Per prima cosa ritrovi il suo amico, il professor Christiansen.
- Mi mette a disposizione un’aeronave?
- Per il momento non sarà necessario. Mi segua.
Il capitano Gile si alzò e, con passo elastico, guadagnò il portello del cargo sub orbitale, seguito ad un passo di distanza da Arthur.
Sulla nave si diresse in direzione della prua, sino ad entrare in un largo saloncino, che Arthur giudicò essere collocato dietro la cabina di comando del cargo.
Il locale era arredato da poltroncine a cuscino d’aria, disposte ad anfiteatro in semicerchio, sul lato posteriore. Sull’altro lato vi era solo un grosso proiettore olografico.
- Si sieda professore, qui, avanti.
Ora le proietteranno i duemilacentosettandue chilometri di costa dell’Aither. Ripresi da una quota di cinquanta metri. Li guardi attentamente. Quando vuole, chieda di fermare la proiezione, o di spostare l’angolatura dell’immagine. Se vuole, chieda di tornare indietro. Quando sarà arrivato alla fine della proiezione, ricominci. Ma trovi il suo amico, per il suo bene. Buon lavoro, professore.
Il capitano fece per uscire, ma fu fermato da Arthur.
- Capitano. Una preghiera.
- Dica
- Io non conosco questa regione. Mi sarebbe molto d’aiuto la collaborazione di Ingrid, la ragazza.
- In che cosa le sarebbe d’aiuto, professore?
- Lei è venuta molte volte nell’Aither, anche con Berensky. Potrebbe suggerirmi un particolare, un ricordo, qualcosa che potrebbe aiutarmi ad orientarmi.
- Non può fare a meno di quella donna, professore?
- No, capitano.
Il capitano restò per alcuni, lunghi attimi in silenzio.
- Va bene. Tra poco avrà al suo fianco la ragazza.
- Grazie capitano.
- Ma le consiglio di non distrarsi.
Arthur attese nervoso per alcuni minuti.
Le cose avevano preso una piega diversa da quella che aveva previsto. Il capitano Gile si era dimostrato un cliente difficile e, per il momento, avrebbe dovuto procedere a vista, senza che all’orizzonte si vedesse una via di fuga.
Il problema era che Gile avrebbe preteso risultati concreti, tangibili. E lui non poteva certo consegnargli Jhob. Ammesso che fosse realmente in grado di individuare il luogo dove doveva essere nascosto.
Per il momento doveva accontentarsi del fatto di aver guadagnato tempo e di essere riuscito ad avere accanto Ingrid
Finalmente, scortata da due uomini in nero, entrò, guardinga.
Con gli occhi gli espresse una muta domanda.
Arthur prese nelle mani le sue mani.
- Dobbiamo fare una ricerca, qui, con questo proiettore olografico.
- Una ricerca?
- Si, per conto del capitano Gile.
Ingrid gli espresse un’altra domanda muta.
- Vedremo scorrere tutta la costa dell’Aither
- Si, ma per cercare cosa?
- Un uovo.

Nessun commento: