domenica 2 dicembre 2007

Emerald - Capitolo 28

Era stato un brusco risveglio.
- Siete circondanti. Qualunque tentativo di decollare o, comunque, di attivare la nave, sarà interpretato come gesto ostile. Uscite dalla nave con le mani in alto. Avete un minuto di tempo. Dopo di che verrete trattati con i paralizzatori.
Erano in tre, disposti a centottanta gradi l’uno dall’altro, intorno all’aeronave.
Erano neri, acquattati con le prue puntate, minacciose come lame, contro la Green Queen.
- Maledizione, ci aspettavano – imprecò Ingrid.
- Che possiamo fare?
- Niente. Quella non era una minaccia a vuoto. Non abbiamo nessuna possibilità di fuggire. L’unica cosa buona è che ci vogliono vivi, altrimenti non avrebbero perso tempo.
Attivò la radio.
- Non sparate. Veniamo fuori – disse.
- Come hanno fatto a trovarci?
- Hanno semplicemente atteso che arrivassimo. Tenevano sotto controllo il tratto di costa nel quale saremmo dovuti arrivare venendo dalla Cruna. Non hanno dovuto far altro che chiudere la rete. Ieri sera siamo comparsi sul loro monitor chiari e luminosi, come una boa spaziale.
- Che ci faranno?
- Non lo so. Ma devi essere maledettamente importante per qualcuno. Non credevo che arrivassero a darci la caccia fin qui. Avevano tutto il tempo per farci fuori comunque, una volta che fossimo tornati.
Avevano aperto il portello e, lentamente, scesero dalla Green Queen tenendo ben in alto le braccia.
A terra, sei uomini in nero, che indossavano caschi integrali, si avvicinarono dai bordi della radura, dove s’erano tenuti sino ad allora in disparte, brandendo contro di loro degli storditori.
Quando li ebbero circondati, uno di loro, evidentemente il capo, fece un brusco gesto con l’arma.
- A terra – ordinò.
Arthur ed Ingrid si stesero con i volti sull’erba bagnata e fredda.
Gli uomini in nero si chinarono su di loro e, senza riguardi, presero le loro braccia e bloccarono i loro polsi dietro la schiena, con manette elettroniche.
Dopo di che furono costretti a rialzarsi e con spintoni, e piccoli colpi nervosi, dati con il metallo degli storditori, furono obbligati ad avviarsi verso il limite orientale della radura.
I tre piccoli e cattivi caccia neri, si levarono silenziosamente in volo e passando sulle loro teste, sfrecciarono in formazione, virando verso sud.
Fu una marcia faticosa. L’erba bagnata era scivolosa ed i tratti in cui il terreno era scoperto, erano molli e fangosi. Arthur ed Ingrid, impediti dalle braccia bloccate dietro la schiena, rischiavano continuamente di cadere.
La mattina, benché serena, era umida ed il vento accentuava la sensazione del freddo. Il sudore si ghiacciava sui loro volti e sulla loro schiena.
Dopo una quarantina di minuti, finalmente, arrivarono in un punto in cui il bosco di apriva in un’altra piccola radura.
Al centro di questa vi era un tozzo e piccolo trasportatore nero in attesa. Il portello era aperto ed altri due uomini in nero montavano la guardia all’esterno.
Ingrid ed Arthur furono fatti salire sul trasportatore e fatti sedere a terra, sul pavimento di metallo della parte posteriore.
I sei uomini in nero che li avevano condotti sin lì, si sedettero sui sedili circostanti, tenendoli costantemente sotto la minaccia delle armi.
Il portello del trasportatore venne chiuso e in breve il mezzo si sollevò in volo.
Il viaggio fu breve, non oltre una decina di minuti.
Arthur e Ingrid furono presi per le spalle e costretti a rimettersi in piedi e poi sospinti verso il portello.
Erano in un’altra radura.
No, guardandosi intorno, capì che si trovavano in una sorta di depressione carsica.
In un pozzo naturale dalle scoscese e verticali pareti di roccia alte qualche decina di metri, e con il fondo, largo almeno cento, su cui cresceva una robusta erba piccola e panciuta. Al centro del pozzo, un grosso cargo suborbitale se ne stava acquattato, come un sornione cacciatore in attesa della preda.
E la preda erano loro, si disse Arthur, mentre venivano spintonati verso il cargo.
Da quell’”A terra” ordinato al momento della cattura, nessun aveva detto una sola parola. Tutto s’era svolto in un disumano silenzio.
Furono fatti salire sul cargo.
Improvvisamente Arthur non vide più Ingrid al suo fianco. Cercò di guardarsi attorno, per cercare di capire dove fosse. Ma fu spintonato dentro un piccolo locale, la cui porta fu sigillata alle sue spalle.
Il locale era illuminato dalla neutra e fredda luce degli insediamenti della compagnia, che Arthur aveva quasi dimenticato.
Era totalmente disadorno, ad eccezione di una specie di branda in materiale sintetico semimorbido. Le pareti metalliche erano nude e fredde, senza alcuna apertura.
Non gli avevano liberato i polsi.
Arthur rimase a lungo in attesa, immobile, aspettando che qualcuno venisse a prelevarlo.
Ma i minuti passavano senza che nulla si verificasse, senza che dall’esterno gli giungesse il ben che minimo suono.
Finalmente realizzò che quella non sarebbe stata una condizione momentanea. Che, forse, sarebbero passate ore, se non giorni, di nulla, prima che chi lo teneva prigioniero si prendesse la briga di occuparsi di lui.
Crollò seduto sulla branda.
Cosa avevano fatto a Ingrid? Dove la tenevano?
Ricordò, con un nodo di angoscia che gli serrava la bocca dello stomaco, come s’era espresso chi aveva dato loro la caccia.
Ingrid era un fattore secondario, un contrattempo senza importanza, di cui ci si poteva liberare tranquillamente.
Urlò, implorò, imprecò, si lanciò con la spalla contro la porta della sua cella sino a farsi male.
Tutto fu inutile.
Nessun segno gli mostrò il benché minimo cambiamento nella situazione.
Si lasciò cadere di nuovo sulla branda, finendo di lato, il volto semiaffondato nel materiale sintetico semimorbido.
Pianse.
Poi, gli venne in mente che, forse, anzi certamente, non si stavano occupando di lui, perché avevano deciso di interrogare prima Ingrid. Di cavargli ogni notizia possibile, da poter utilizzare, dopo, con lui.
Si, almeno al momento, Ingrid era certamente utile a chi li teneva prigionieri.
Era un pensiero consolante.
Ma che gli fece montare una serie di nuove preoccupazioni, di nuove domande.
Cosa le avrebbero fatto per farla parlare?
Ingrid, la sua meravigliosa Ingrid, li avrebbe affrontati con il suo sfrontato coraggio, col suo irridente disprezzo, persino, forse, fino a farsi ammazzare.
- Parla Ingrid – mormorò – Digli tutto, ti prego.
Ma cosa avrebbe potuto dire, Ingrid, per soddisfare la curiosità dei loro carcerieri?
Cosa aveva, cosa sapeva lui stesso, per giustificare quell’assurda caccia e quell’accanimento feroce di cui erano stati oggetto?
Non capiva.
Più cercava di mettere a fuoco gli elementi che aveva in suo possesso e più gli sfuggiva il senso di quell’assurda situazione.
Cercò di ritrovare la calma e di indagare lucidamente dentro di sé, per scovare qualche elemento che gli sfuggiva, ma che avrebbe dato un senso, una motivazione, una giustificazione a quella situazione in cui si era cacciato.
Il tempo passava ed Arthur non riusciva a darsi una riposta, a trovarsi la colpa.
Si era tirato, insofferente, a sedere.
Ecco, adesso si sentiva colpevole.
Di che? Di cosa? Sant’iddio!
Respirò profondamente, cercando di calmarsi.
Si stava annodando nei suoi ragionamenti.
Si disse.
Esattamente come un buon carceriere avrebbe voluto, per averlo pronto, cotto al punto giusto, al momento opportuno.
Cercò di non pensare più, di cauterizzarsi in un’attesa senza speranze e senza aspettative.
Il tempo passò, insensibile e lento.
Quasi non si avvide della porta che si apriva.
Non si mosse.
Due uomini in nero lo presero per le ascelle e lo costrinsero a mettersi in piedi.
Fuori, nel corridoio, altri due uomini tenevano, con indolente sicurezza, tra le mani degli storditori.
Fu fatto procedere per alcuni corridoi e gli furono fatte salire un paio di rampe di scale.
Non incontrò nessuno, oltre ai suoi guardiani, e non passò accanto ad alcuna porta aperta.
Il cargo sembrava disabitato e, se non fosse stato per l’onnipresente luce fredda, si sarebbe detto abbandonato.
Anche in questa occasione nessuno pronunciò alcuna parola. Tutto avvenne in un silenzio irreale, rotto solo dai loro passi su quei corridoi metallici.
Si fermarono finalmente dinanzi ad una porta, dall’esterno anonima, come le tante che avevano sfilato in quel loro percorso.
Uno degli uomini in nero che precedeva Arthur, fece scorrere un piccolo pannello nel muro, che svelò una testiera con piccoli quadranti.
Digitò qualcosa e attese.
Alcune luci si accesero e qualcosa comparve sul quadrante.
L’uomo esaminò la risposta e, poi, digitò ancora qualcosa. Quindi parve soddisfatto.
Si girò e, tirandolo per un braccio, fece girare Arthur di spalle e gli liberò i polsi.
Quando Arthur tornò a voltarsi verso la porta, questa era aperta, con l’anta scomparsa, scivolando nella parete.
Un piccolo colpo sulla schiena, dato con la canna di uno storditore, lo spinse ad entrare.
La porta si richiuse alle sue spalle, lasciando fuori la sua scorta.
La stanza era sobria, ma elegante. Con un morbido tappeto a coprire il pavimento metallico e rappresentazioni olografiche di Emerald alle pareti.
Vi era un’unica sedia vuota, di metallo, di fronte ad una larga scrivania di materiale sintetico, praticamente vuota.
Dietro la scrivania, su una comoda poltrona ad aria, il capitano Gile era intento ad esaminare qualcosa sul lettore che aveva dinanzi.

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