domenica 2 dicembre 2007

Emerald - Capitolo 6

Il locale era decisamente più popolato degli ambienti sino ad allora frequentati da Arthur su Emerald.
Uomini e donne di età diverse, ma tutti con l’onnipresente tuta verde scuro, se ne stavano seduti ai tavoli, bevendo e chiacchierando sommessamente.
Arthur si avvicinò al banco, e diverse occhiate lo seguirono senza molta discrezione.
Il barista lo guardò con un mezzo sorriso.
- Prende qualcosa? – gli chiese
- Che avete?
- Poco per un rainbowed. Un paio di liquori distillati negli impianti della compagnia. Uno più forte, ma amaro ed uno più leggero, ma amabile.
- Mi dia quello forte – disse Arthur, aggiungendo – Come è che mi ha chiamato? Rainbowed?
- Beh, straniero – spiegò l’uomo – E’ il nome che diamo agli stranieri qui su Emerald. E lei, anche solo per come è vestito, non è dei nostri, o sbaglio?
- No, non sbaglia - rispose Arthur, dando un sorso al liquore denso, che l’altro gli aveva versato e che gli procurò un attacco di tosse.
- Le avevo detto che era forte – disse il barista
- E amaro – concluse in una smorfia Arthur – Senta, mi sono perso, sa indicarmi la strada per l’Emerald’s Door?
- Beh, è parecchio fuori strada – rispose l’uomo – Del resto, è ben difficile vedere un rainbowed da queste parti.
- Perché, che parti sono?
- Oh, niente di particolare, ma è difficile che in centro, così vicino all’inferno, si vedano quadri, figuriamoci rainbowed.
- Inferno?
- Già, la parte industriale di Emerald City. Questa è una zona da miners, di inchiodati al contratto della signora e padrona Mines & Stars – e fece per versargli un altro bicchiere di liquore, ma Arthur lo fermò.
- Proviamo l’altro – disse – Mi sembra di notare una lieve critica verso la concessionaria, nelle sue parole.
- Ragazzi – fece in barista rivolto agli avventori seduti ai tavoli – C’è questo rainbowed che vuole saperne qualcosa di più sulla nostra cara Mines & Stars.
Le conversazioni si fermarono e tutti gli sguardi andarono su Arthur.
Non lo guardavano con curiosità.
Più che altro ebbe l’impressione che lo stessero soppesando, mentre sorseggiava il liquore, secondo il barista, amabile.
- E che vuole sapere? Come ci tiene al laccio? Come s’è comprata la nostra esistenza per un pugno di crediti? – disse una donna dai capelli grigi raccolti a crocchia sulla nuca, mentre era tornata a fissare il fondo del bicchiere, che stringeva con le due mani sul tavolo dinanzi a lei.
- Sono ventitre anni che sono qui – fece un uomo sul fondo del locale – La nostra è una condanna a vita. Vattene, rainbowed, finché puoi farlo.
Una mezza risata generale – che ad Arthur, suonò un po’ di scherno - chiuse la faccenda e tutti tornarono alle rispettive occupazioni.
- Come vede – fece il barista ad Arthur – la lieve critica, non è esattamente personale.
- Va bene, però siete liberi di criticare, almeno.
- Oh, certo, parlare, la Mines & Stars, ce lo lascia fare tranquillamente. Non violerebbe mai un diritto fondamentale della Confederazione. Come, del resto, non consente a noi di violare l’obbligo del rispetto delle clausole contrattuali. Che, le assicuro, è un dovere ancora più fondamentale per la Confederazione.
- Ma il contratto con la Mines & Stars non è di cinque anni?
- Già, ma con i crediti della paga, tolti, come da contratto, i soldi per il vitto e per l’alloggio, pure se non ti concedi neanche un bicchiere di zankor, quand’è che metti da parte il crediti per un viaggio interstellare? Fuori dalla Compagnia, su questo maledetto pianeta, non c’è niente. E che puoi fare allora? O usi quel poco che hai per comprarti una carretta e fare il cercatore indipendente. O sottoscrivi un nuovo contratto con la Compagnia. Lavori sempre per la Mines & Stars. La sola differenza è che da indipendente, se sei fortunato, scopri un nuovo giacimento e con il gruzzolo che ottieni riesci a partire per le stelle. Se sei sfortunato, e nove volte su dieci è così, ci rimetti la pelle. Certo, puoi sempre diventare un greenfree …
- Un cosa? – chiese Arthur
- Un greenfree, uno che se ne va a vivere per Emerald, chiudendo ogni legame con la Compagnia. Ce n’è qualche migliaio. Ma è una vita selvaggia e soprattutto pericolosa. Questo pianeta non ci ama, rainbowed.
- Insomma, mi sta dicendo che nessuno è ripartito da Emerald?
- Nessuno proprio no. Ma di noi miners, in vent’anni, non se ne sono andati più di mille, forse duemila.
- Ma lei, qui…
- Piccola libera iniziativa tollerata – rispose l’uomo - Io lavoro ai magazzini dell’astroporto e la sera raggranello qualche credito extra. Ce ne sono molti di locali così, in centro. Gli uomini in nero ci lasciano fare, credo che serva anche alla Compagnia allentare un po’ la corda del guinzaglio.
- Senta – si risolse a dire Arthur – Poco fa, ero al ristorante …
- Accipicchia, deve avere un signor credito.
- Ero invitato – si spiegò Arthur – Quando stavo uscendo con il mio ospite, ci è corso incontro un uomo, credo un miner, era vestito come voi. Mi si è aggrappato al braccio e mi ha detto qualcosa su una trappola che non ho ben capito. Poi è stato preso e scaraventato a terra da un gruppo di agenti della Compagnia. Lo hanno colpito a calci e con gli storditori. Io mi sono spaventato e sono fuggito. Ecco come mi sono perso.
- Accidenti – fece il barista - Quel poveraccio finirà nei pozzi estrattivi, a quattromila metri sottoterra. Gli uomini in nero sanno essere cattivi.
- Mi ha detto di fuggire e probabilmente questo mi ha sconvolto. Ma perché è venuto da me?
- Non so. Forse l’ha riconosciuta come rainbowed e le ha voluto dire di stare alla larga. Di non farsi incastrare – scrollò le spalle.
- Ma io sono su Emerald solo per un amico, un mio collega! Io sono un professore di archeologia – protestò Arthur
Il barista lo guardò, d’improvviso attento.
- Qual è il nome del suo amico?
- Jhob, Johb Crhistiansen. Perché me lo chiede?
In quel momento sulla porta si affacciarono due uomini in nero.
Scrutarono il locale dove, alla loro comparsa, l’aria s’era fatta impercettibilmente più rarefatta, e puntarono il loro sguardo su Arthur.
L’uomo in nero alla destra parlò sottovoce, chinando il capo verso destra.
Poco dopo sulla porta apparve il capitano Gile, in completa tenuta nera.
Ignorò completamente i presenti e si avvicinò sorridendo ad Arthur.
- Buona sera, professor Temple. Felice di rivederla. E’ qualche minuto che la cerco. Ho saputo che è stato coinvolto in uno spiacevole incidente e sono venuto per riaccompagnarla in albergo.
- Più che ad un incidente, capitano, direi di aver assistito ad un brutale pestaggio – rispose Arthur.
- Una disdicevole circostanza. – commentò il capitano Gile - Ma i miei uomini mi hanno riferito che quella persona, per inciso, mentalmente disturbata, aveva già aggredito il suo accompagnatore e le era addosso.
- Come sta il signor Ciang?
- Fortunatamente bene. E’ già stato riaccompagnato in albergo, nella sua stanza. Vogliamo andare?
Ad Arthur suonò quasi un ordine.
- Quanto devo? – Chiese al barista, prendendo tempo.
- Lasci – rispose questi – Offre la casa. Dovere di ospitalità - e gli offrì la mano in un gesto di saluto.
Arthur rispose al gesto e, nel contatto, avvertì che il barista gli stava passando un foglietto di carta, tenendolo nascosto col dorso della mano.
Guardò negli occhi l’uomo e strinse il pugno, stringendo il biglietto.
Si volse e con un cenno del capo assentì al capitano, che gli fece segno di precederlo.
Uscì dal locale con gli uomini in nero ai fianchi e il capitano Gile alle sue spalle. Con la spiacevole sensazione di non essere libero.
Un mezzo della sicurezza li attendeva in strada e Arthur salì sul retro, al fianco del capitano Gile.
Nel trambusto riuscì a far sparire il foglietto in una tasca dei pantaloni.
- Mi spiace che sia stato coinvolto in questo spiacevole incidente la prima sera che è da noi – disse il capitano – Le posso assicurare che, in genere, Emerald City è assolutamente sicura e tranquilla. Anzi, troppo tranquilla. Direi noiosa. L’unico diversivo è il mugugno, come avrà avuto modo di apprezzare in quella bettola.
- Non è nulla, capitano – rispose Arthur, che desiderava soprattutto liberarsi di quella scorta.
- Il mugugno è una sorta di sport nazionale, qui su Emerald. E, naturalmente, è rivolto contro l’amministrazione. Potremmo sintetizzarlo con un antico detto della Terra … com’è? A già, “Piove governo ladro”.
- Non è un esempio molto felice – non riuscì a trattenersi Arthur.
- Che vuole dire?
- Il detto che ha citato ha un fondamento storico. Per molto tempo il sale utilizzato in cucina, il cloruro di sodio, è stata una materia indispensabile e preziosa, che non era così facilmente disponibile. In Italia, una penisola dell’Europa nel bacino del mar Mediterraneo, la produzione, il trasporto e la vendita del sale erano a cura dell’autorità, che vi applicava pesanti tasse. In caso di pioggia, il sale si inumidiva ed aumentava di peso, ma i governanti lo vendevano allo stesso prezzo, facendo pagare oltre al sale, l’acqua che vi era contenuta. Dal che si ricava che il detto popolare aveva fondamenti e giustificazioni più che reali.
- Non sapevo questa storia – disse il capitano Gile, che aveva ascoltato Arthur con gli occhi socchiusi a due fessure.
- A ben cercare, un qualche fondo di verità lo si trova sempre nei detti, nelle leggende, nei miti popolari.
- Molto interessante, ma, al momento, la mia preoccupazione è evitarle ulteriori, spiacevoli incidenti. Potrei suggerirle di farsi installare il segnalatore radio subcutaneo? – gli chiese il capitano, ed aggiunse sorridendo – Non vorrei impegnare la metà dei miei uomini ogni volta che si perde.
Arthur si irrigidì e il capitano si affrettò ad aggiungere:
- E’ solo un consiglio, professor Temple. Non ho intenzione si imporglielo, almeno fino a che non mi darà troppi grattacapi.
- Cercherò di stare attento, capitano. Ma preferirei evitare quell’aggeggio. Nella mia famiglia abbiamo un vero e proprio culto per la privacy.
- Come vuole – rispose, rassicurante, il capitano – Siamo arrivati.
Il mezzo si fermò dinanzi al luminoso monogramma della Compagnia e Arthur discese, salutò il capitano e, rapidamente, guadagnò l’interno dell’albergo.
Alla reception c’era ancora Annie, che lo salutò con un cenno del capo, cui lui rispose con la mano.
Andò, senza fermarsi, agli ascensori e salì in camera.
Quando si fu chiusa la porta alle spalle, prese il foglietto dalla tasca, lo stese e lo lesse.
C’era una scritta ad inchiostro, realizzata manualmente e con una grafia affrettata:
“La Società dei Naufraghi del Chronos si riunisce domani alle 21, nella sala del Mendelevio”.
Rimase a lungo ad osservare quel pezzetto di carta, chiedendosene il significato.
Evidentemente, sotto la superficie, Emerald City era meno tranquilla di come il capitano Gile faceva mostra di credere.
Quella aveva tutta l’aria d’essere una sorta di società segreta, probabilmente il frutto di un bisogno di rivalsa di quei poveri … miners, come si chiamavano.
Ma quello che lo colpiva era in particolare quel nome “Chronos”. Non poteva essere un’altra coincidenza.

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